Che la questione del reddito sarà un tema centrale del prossimo autunno lo abbiamo capito bene ieri alla manifestazione di Napoli. E lo sarà ancora di più per il tono sprezzante con cui gli esponenti dell’attuale governo trattano il tema della povertà. Ne abbiamo avuto un recentissimo esempio con le affermazioni del ministro all’agricoltura Francesco Lollobrigida, nonché vicesegretario di FDI per ordine della Meloni, sul fatto che i poveri mangiano meglio dei ricchi. Affermazione che hanno giustamente suscitato in molti lo sdegno per una figura emblematica di quella che è l’attuale “classe dirigente” nel nostro paese.
Già noto per la “sostituzione etnica” rispetto ai flussi migratori, parole d’ordine della Lega e di tutta la galassia dell’estrema destra, le sue nuove dichiarazioni possono sembrare grottesche e strampalate. Mostra tutto il suo/loro disprezzo per i poveri e addirittura la presa in giro della povertà. Eppure, andando fino in fondo, con metodo genealogico, ben mettono in luce la cultura liberal-fascista che contraddistingue la sua compagine politica. La povertà non è per costoro un effetto del modo di produzione capitalistico, che estrae valore dalla vita, dalla riproduzione, dalla natura nel suo complesso, ma una colpa individuale, dovuta alla mancanza di efficienza, competizione, produttività, di voglia di lavorare in qualsiasi condizioni, con salari da fame o anche gratuitamente, in totale subordinazioni alle leggi del mercato capitalistico.
DI conseguenza, i ricchi lo sono per il loro merito, la loro superiorità morale ed intellettuale affonderebbe addirittura le radici nella fase dell’accumulazione originaria o nell’etica protestante, per citare una nota opera di Max Weber. L’occidente, il suo modello e l’avanzare del capitalismo come modo di produzione, il mito del progresso indefinito, le pratiche di dominio, del colonialismo, dello sfruttamento selvaggio delle risorse umane e naturali si estende al mondo intero con la violenza e la sete di dominio. Tutto ciò giustificato da una ideologia con forti matrici religiose e radici nella teologia cristiana. L’uomo bianco, occidentale, cristiano è un uomo superiore, fatto ad immagine e somiglianza di Dio e che tutto può.
Eppure, questa origine mascherata dall’universalismo dei diritti universali e umani – fondata in apparenza sulla eguaglianza e fraternità così sbandierate dalla Rivoluzione Francese, dall’illuminismo e lungo tutto l’Ottocento – mostra due facce solo in parte contrapposte. Da una parte i “poveri”, come fautori del loro destino, il prodotto di leggi naturali, sottoposti al disprezzo profondo e violento degli “eletti”, ricchi e potenti. Dall’altra la celebrazione del “povero” come “virtuoso”, che può riscattare la sua condizione attraverso l’accettazione incondizionata proprio del dominio e dell’assoggettamento totale del proprio corpo, come “animale da lavoro”.
Quando i conquistadores spagnoli arrivarono in America Latina hanno compiuto stermini ed eccidi di massa di intere popolazioni, in nome della fede cristiana e della “vera” umanità. Distrussero, o tentarono di distruggere, la cultura e le forme di spiritualità delle civiltà indigene, attraverso la conversione e con le armi, la fede cristiana ed i valori dell’occidente, i preti e la spada. In realtà, era il tentativo, tante volte ripetuto nella storia, di distruggere le comunità indigene nel proprio intimo, la loro differenza, per omologarle a una cultura “superiore”, portatrice di nuovo diritto. Il diritto di affermare la superiorità della nostra civiltà su tutte le altre, il diritto alla conquista, all’oppressione come missione universale.
Violenza contro le differenze e “diritto” si accompagnano indissolubilmente nella gestazione dello Stato moderno e nella nascita del capitalismo. Un razzismo già “giuridico”, che stabilisce e codifica le differenze di razza, di genere, di classe. A denunciare la violenza dei conquistadores contro gli indigeni e che creò a suo tempo una grande anomalia, fu un frate domenicano, Bartolomeo de Las Casas, denominato anche “l’apostolo delle Indie” proprio per la sua denuncia degli abusi e soprusi commessi dai conquistadores.
Tutto ciò ci deve far riflettere sulla storia: una lunga scia di sangue, di distruzione, di barbarie, che non è solo ancorata alla storia, ma raggiunge il suo culmine proprio con il capitale estrattivo dei giorni nostri. Inevitabilmente non possiamo non ricordare Walter Benjamin, marxista non ortodosso degli anni ’20 e ’30: allo Stato di eccezione teorizzato dal giurista nazista Carl Schmitt, contrappone la tesi che l’unica vera eccezione è l’emergenza del proletariato e delle lotte degli oppressi e che l’unica risposta a questa emergenza di Stato è la violenza, violenza senza statuto giuridico, violenza di liberazione. La memoria dei vinti e degli oppressi di ogni epoca ritorna sempre, alla ricerca di un riscatto epocale, nell’utopia concreta, come direbbe Ernst Bloch, della rivoluzione sociale, processo sempre riaperto e in divenire.
Certo, le dichiarazioni dell’idiota di turno, Lollobrigida, non meritano tutte queste considerazioni, ma una cosa è certa: solo una rivoluzione radicale contro il potere può spazzare via questa continua ripetizione del sempre uguale, fare un salto qualitativo, spezzare la spirale dell’eterno ritorno del rapporto tra dominati e dominatori. Il presente è gravido del futuro, e sta a noi conquistarlo.
Immagine di copertina: Matt Brown da Flickr.