L’edizione 2023 del Venice Climate Camp si è conclusa con la lectio magistralis del filosofo Massimo Cacciari dal titolo Guerra, crisi e nuovi scenari globali.
Nell’introduzione, Ruggero Tallon ha spiegato il motivo per il quale il movimento climatico ha la forte necessità di affrontare il tema della guerra. «La guerra in Ucraina ha diversi elementi su cui interrogarsi, e non solo perché ci è incredibilmente vicina da un punto di vista geografico. È evidente come questa guerra sia combattuta anche per la gestione delle fonti fossili, in generale per il controllo di diverse risorse sempre più scarse. Non solo, quanto è successo con questo conflitto dimostra perfettamente come la guerra possa essere usata per determinare scelte politiche che vanno ben oltre la questione militare. Questa guerra, che ha determinato rifornimenti limitati di gas dal grande esportatore russo, ha portato diversi paesi occidentali a avviare un processo di ricarbonizzazione, proprio quando l’agenda politica europea iniziava a parlare di riconversione energetica, proprio ora che viviamo una profonda e tremenda crisi climatica».
Di seguito l’intervento integrale di Massimo Cacciari.
Grazie dell’invito e spero di esservi utile.
Permettetemi una prima considerazione: questa difficoltà che hanno i movimenti come questo, una volta si diceva movimento operaio, nei confronti del tema della guerra, è un vecchissimo discorso; dobbiamo stare attenti su questo, è sempre stato un’enorme difficoltà per le forze, diciamo di sinistra, affrontare questo tema. Basti pensare alle grandi tragedie del passato. Il movimento operaio storico è saltato per aria di fronte al problema della guerra, l’internazionale cui appartenevano Engels eccetera collassa di fronte al tema della guerra: il tema della guerra è dirimente. È una tragedia che occorre saper affrontare soltanto col più grande realismo, perché nulla è più dannoso di un discorso di costruzione di pace, di un pacifismo onirico. Quindi la mia lezione prima di tutto sarà una piccola lezione di realismo.
La guerra, o meglio le guerre. Ci sono tante guerre, l’Europa e il mondo hanno conosciuto tante forme di guerra, diverse le une dalle altre. Quella che noi adesso viviamo è una forma di guerra del tutto particolare, ma per intenderla permettetemi di rifarmi a dei grandi paradigmi, dei grandi modelli del passato che mi permettono anche di andare a criticare quest’idea di giusta guerra che ritorna incredibilmente prepotentemente oggi, ma che è un’idea del tutto teologica.
I romani, i greci non parlano di giusta guerra, l’idea di giusta guerra comincia col cristianesimo. Perché un cristiano fa fatica a giustificare la guerra, per un cristiano giustificare la guerra è un problema. Allora, duemila anni fa come adesso. Allora per giustificarla bisogna trovare il modo di dire che si tratta di “Iustum bellum”.
I greci e romani ritengono la guerra sia del tutto naturale, il che non vuol dire che la guerra sia una rissa, una caccia, una baruffa, bensì dev’essere dichiarata. Per i romani in particolare, secondo dei veri e propri rituali, doveva passare attraverso il pontefice, il collegio pontificale che doveva fare tutti i suoi riti e diceva al generale “va bene questa guerra, falla” e c’era tutto un rituale.
Il bellum per i romani è sempre “nefandum”. Ha sempre a che fare con il nefas, cioè non fa parte del fas. È qualcosa che viola un ordine cosmico, perché uccidere un altro è violare qualcosa che ha a che fare, appunto, con un ordine cosmico. Quindi anche per i romani è certamente meglio non fare la guerra fino a quando è possibile, tanto è vero che i romani, quando si presentano davanti a una città per assediare non è che l’assediano, cominciano a dire “Arrendetevi!”. Cominciano a chiamare gli dei della città fuori, dicono “voi dei di questa città non vedete che non sanno difendervi? Venite da noi, venite da noi, noi vi accoglieremo e con noi sarete davvero forti, mentre se continuate a stare con questi poveretti chiaramente non varrete più nulla e sarete dimenticati”.
Il problema della giusta guerra comincia con i cristiani. I criteri fondamentali per definire la giusta causa vanno grosso modo dalla tarda antichità fino al Trecento, fino alla nuova filosofia dello Stato moderno che dà inizio al diritto alla politica, al concetto della filosofia politica moderna e sono sostanzialmente questi: la guerra deve per essere legittima, deve essere giusta e deve quindi rispettare questi criteri. Il primo è che debba essere dichiarata dal principe, principes facit bellum non latrones, cioè dall’autorità legittima o meglio legale.
Qua bisognerebbe fare una differenza tra il concetto di legalità e legittimità, che è fondamentale, per esempio, per tutto il pensiero rivoluzionario. Il pensiero rivoluzionario dice “la guerra rivoluzionaria è giusta”, perché combatte un’autorità che non è legittima, sarà legale, ma non è legittima. Prima si diceva il problema, il grande problema che ha il movimento operaio europeo con la guerra: nulla è meno pacifista del pensiero di Marx e di Lenin!
Quindi, come facciamo a mettere d’accordo questa tradizione fondamentale del marxismo con il pacifismo? Semplicemente impossibile. Perché la rivoluzione non è la guerra, questa è la differenza fondamentale tra un leninismo d’accatto e Gramsci. La rivoluzione è un processo, una dinamica, è una dinamica rivoluzionaria per cui creo consenso intorno alle mie idee, eccetera eccetera. Però sia per Marx che per Lenin la rivoluzione alla fine deve finire in guerra civile, cioè in guerra. Non ci si può assolutamente dire né marxisti, né leninisti se non si sa questo. La rivoluzione non è la guerra civile, ma la rivoluzione prepara la guerra civile. Ci può essere rivoluzione senza guerra civile? Sì, se gli altri si arrendono senza bisogno che faccia la guerra civile. E allora da qui la posizione di tanta parte del movimento operaio: faccio arrendere gli altri attraverso un processo di riforme, uso delle strutture democratiche per fare la rivoluzione democratica senza guerra civile.
Vedete che tornano tutti i concetti fondamentali che hanno fatto la storia del movimento operaio europeo. Si può fare la rivoluzione senza guerra civile o non si può fare la rivoluzione senza guerra civile? Il movimento operaio è andato avanti un secolo e mezzo a dividersi su questo, naturalmente poi è emersa la posizione, sostanzialmente riformista che dice è possibile una rivoluzione in un modo o nell’altro senza guerra civile. Non sono idee, c’è stata la tragedia del movimento operaio italiano tra gli anni sessanta settanta che si è consumata su queste questioni, ci sono stati gli anni di piombo, le Brigate Rosse, intorno a cui non si è discusso, ma combattuto intorno a queste idee.
Ma torniamo al tema. Allora, prima ragione della guerra giusta è che sia dichiarata dal principe; secondo che sia giusto il fine; terzo la recta intenzio, cioè io faccio la guerra per avere la pace, quindi faccio la guerra soltanto contro coloro che non vogliono la pace. In mezzo la questione: quale giustificazione per la guerra, oltre appunto all’essere dichiarata secondo legalità e ad avere una intenzione pacifista? E qui le questioni diventano un intrigo di contraddizioni, nelle quali ci muoviamo tuttora. Incredibilmente ci muoviamo tuttora su questioni che sono ritornate, perché erano state liquidate dal pensiero politico e del diritto in epoca moderna.
E quali sono? La difesa, se uno mi attacca devo difendermi. Attenzione però, perché devo essere così scemo da aspettare di essere attaccato per difendermi? Quindi non solo ius defentionis, ma anche ius preventionis. Ho il diritto o no di prevenire l’attacco? Logico che lo ho. Devo aspettare fermo che l’altro mi attacchi quando sono certo che sta preparandosi all’attacco?
E poi un’altra questione molto divertente e interessante che emerge in quegli anni e che ritorna in forma diversa continuamente anche oggi, la defentio innocentium, “difendere gli innocenti”. Io sono un buon sovrano, un buon principe, vedo che, noi diremo adesso i diritti umani, sono violati da qualche parte, perché non devo accorrere in soccorso degli innocenti che vengono fatti soffrire dal tiranno? Ho il diritto di intervenire, il diritto di difesa degli innocenti poiché ci sono condizioni intollerabili di servitù, di schiavitù, quel “povero popolo” è sotto un dittatore efferato: lo libero; guerre di liberazione, non guerre di liberazione del popolo all’interno come un risorgimento nazionale, ma guerre di liberazione che un potere sovrano che uno Stato, diciamolo pure subito, opera nei confronti non di un altro potere, ma di innocenti che patiscono un potere.
Questa è teologia politica, perché il problema di giustificare la guerra è fondamentale per una religione, di cui il testo di riferimento parla di porgere l’altra guancia al nemico. Giustificare la guerra è un arduo compito teologico in cui si cimentano tutti i grandi geni della teologia cristiana, da Agostino a Tommaso. Tutta questa filosofia viene scardinata dalla filosofia politica moderna, a partire da Machiavelli.
Che dice che la guerra esiste perché gli Stati sono volontà di potenza e in quanto tali vogliono allargarsi, vogliono diventare più forti e rafforzarsi vuol dire allargarsi, potenziarsi e quindi entrare necessariamente in conflitto. La politica è conflitto e nelle forme del conflitto rientra inevitabilmente la guerra. Il campo della guerra diventa il campo dei politici e dei giuristi. In che senso anche dei giuristi? Il grande allievo in campo giuridico di Machiavelli è Alberico Gentili, un genio italiano della fine del Cinquecento, autore del grande trattato fondamentale De iure belli. La guerra deve essere iure, perché per essere giustificata deve essere dichiarata in modo legittimo, da uno Stato sovrano ad un altro Stato sovrano, o, per dirla in termini più tecnici, da un organismo statuale perfetto, cioè integro, in sé autonomo.
Lo Stato ha diritto di guerra in quanto Stato, perché sta nella sua natura. Ma c’è un paradosso che salta fuori di fronte a cui i teologi medievali sarebbero inorriditi: che la guerra è giusta da entrambe le parti. Il modello è questo: la guerra è guerra tra Stati, all’interno degli Stati vige la violenza legittima dello Stato. Ogni sedizione, ogni sommossa va repressa attraverso la polizia. Tra Stati, invece, non ci sono criminali.
Questo vige ovviamente tra gli stati europei, a partite dalla pace di Vestfalia fino alle guerre napoleoniche: un periodo breve, in cui questo modello vige e tiene. Fuori di questo spazio europeo allora era l’epoca delle conquiste del mondo. L’Occidente diventa il grande aggressore del mondo. Basta leggere il De bello gallico di Cesare per vedere la differenza tra come si fa la guerra ai germani e ai galli e il bellum civile tra Cesare e Pompeo. Fuori dallo spazio europeo si delinea quindi un massacro, genocidi, gli europei si uccidono a vicenda in terreno oltreoceano per due secoli.
Fino alle guerre napoleoniche, che si giustificano in base a una giusta causa, talmente giusta che influenza potentemente anche i cittadini e l’intellighenzia degli altri paesi. La monumentale giustificazione di Napoleone ha a che fare con ciò che viene definito “guerra di liberazione dei popoli”. Questa è la giustificazione della guerra. È un bellum iustum, non soltanto iure ma iustum nelle sue motivazioni di fondo, che sono “liberare i popoli”. Cambia quindi completamente il clima.
La restaurazione dopo la caduta di Napoleone cerca di esserlo anche da questo punto di vista, gli Stati si riconoscono reciprocamente come legittimi. Questo modello crolla definitivamente con la Prima Guerra Mondiale, in cui osserviamo il fenomeno di assoluta criminalizzazione del nemico, fino al limite estremo: il nemico non è umano.
Queste dinamiche sono fondamentali per capire la natura della guerra. Quindi il tema della giusta causa torna alla grande: la causa è giusta perché si combatte contro coloro che negano i diritti umani. Con la Seconda Guerra Mondiale abbiamo avuto a che fare con un nemico assoluto che è stato sconfitto in una guerra totale. Non si può andare a patti con un nemico inumano, per questo Stati Uniti e Unione Sovietica l’hanno sconfitto e negato.
Sembrava dunque che dovesse riaprirsi un momento in cui vi fosse un patto di mutuo riconoscimento tra Stati che si riconoscevano in quanto tali. Invece era un’illusione: ciò che è stato fatto è stata una partizione del globo tra le potenze vincitrici. Una spartizione incerta, ma sufficientemente stabile. La Guerra Fredda è nient’altro che l’immagine della spartizione del globo secondo queste caratteristiche. La pace però non era una pace perpetua, ma una fragile dinamica derivata da un patto. Gli Stati sono degli organismi che tentano e tendono ad aumentare, a trasformarsi e ad accrescere la propria potenza. E quindi bisogna realisticamente vedere quali patti siano realizzabili. E quel patto è venuto meno perché una delle due potenze è stata fatta fuori. La Guerra Fredda ha avuto una fine e un vincitore inequivocabile, per motivi tecnici, economici, culturali.
Quella spartizione del globo però non poteva più valere: le strade possibili erano due. O un solo padrone, ma a quel punto era ben difficile, perché già emergeva un terzo incomodo potente, la Cina. Oppure ci si muoveva su una strada davvero di Federazione mondiale, cioè un assetto del globo terrestre su base federativa. Ma non c’è stato nessun soggetto forte abbastanza per indurre le grandi potenze a muoversi su quest’ultima strada.
Ci si è mossi quindi sul primato di una potenza, non c’è stato nessun trattato di pace, perché tutto si è evoluto sulla base di rapporti di forza. Quella guerra, assolutamente anomala perché non combattuta con armi, invece è finita con la dissoluzione dell’impero sovietico e con la resa incondizionata.
Ma il tentativo di dare un nuovo nomos alla Terra sulla base della egemonia americana non poteva riuscire, per due ragioni. Primo, a causa della Cina e gli Stati Uniti, dovevano per forza entrare in un modo o nell’altro a patteggiare. La potenza della Cina non è solo potenza militare numerica, ma soprattutto potenza tecnologica, che cresce a dismisura. E le future guerre, se ci saranno, saranno combattute su quel fronte più che su qualsiasi altro.
La Russia invece non aveva alcun strumento dopo la sconfitta, che è costata sacrifici immensi al popolo russo. Non poteva la Russia, dopo una sconfitta di questo genere, pensare di poter impedire tutto quello che avessero deciso e voluto dall’altra. Potevano essere soltanto degli irrazionali colpi di coda come quello che a cui abbiamo tragicamente assistito, che hanno provocato ulteriori collassi al suo interno, ulteriori indebolimenti.
Perché la Russia oggi, dopo l’invasione dell’Ucraina, è infinitamente più debole di prima. Non più forte, ma infinitamente più debole, sia dal punto di vista politico sia dal punto di vista economico. Quindi come si fa a impedire ai Paesi dell’Est Europa di entrare nella comunità economica europea, di entrare nella NATO? Si tratta di Stati sovrani, che hanno il potere decisionale e l’indipendenza di agire come vogliono. L’unico mezzo di agire è eventualmente dal punto di vista diplomatico. L’ultima delle carte da usare è quella militare, in queste condizioni. Secondo me siamo in presenza anche di un clamoroso errore strategico, di intelligence.
Ma non è questo il punto interessante. Il punto interessante è che alla fine di un nomos della terra, siamo alla fine dell’epoca delle ripartizioni politiche delle aree del globo, siamo in una situazione di faglia conflittuale che è a un passo dalla catastrofe e non c’è nessuna voce, a differenza di quanto invece poteva accadere trenta o quarant’anni, all’interno della politica mondiale, in particolare in Europa, che avanzi uno straccio di proposta per andare a patti.
E questa voce non poteva che venire dall’Europa. Gli Stati Uniti hanno questa loro politica e probabilmente la loro strategia è l’affermazione definitiva, inequivocabile della loro egemonia su tutto il continente europeo, per poter affrontare con armi valide il conflitto epocale che sarà con la Cina, perché quello sarà la madre di tutte le battaglie. Per questo gli Stati vogliono appunto essere certi sul fronte europeo, e considerano i conti con la Russa definitivamente risolti. Ma questo è un rischio pazzesco, perché possono essere definitivamente risolti soltanto sfasciando la Federazione russa, indebolendola.
Il mondo è come un meccanismo, è come una macchina, e servono i cuscinetti di ammortizzazione, come i cuscinetti nelle macchine. Quindi nel conflitto tra le grandi potenze è necessaria una voce che non può essere che europea, per cultura, per storia, per tradizione. Una voce che inviti costantemente, elabori costantemente piani per la pace nel senso vero, reale, autentico del termine.
Il tracollo è cominciato però trent’anni fa, di fronte alla guerra in Iraq, in cui sostanzialmente la politica europea è stata assolutamente complice. Non era necessario, perché in precedenza la politica europea è stata anche una politica autonoma. E nonostante ci fosse la speranza che l’Europa fosse questa voce che invitava al patto e alla definizione di un nuovo nomos della terra, questa speranza è naufragata. Non è naufragata oggi perché era già evidente che stava naufragando all’inizio del Duemila.
Come finirà la guerra? Mi pare che la conditio sine qua non sia che la Russia si ritiri sui suoi confini. Se si dovesse ritirare, forse lo spazio per un patto avviene.
Ma questo non significa un nuovo nomos della terra? Non significa una nuova configurazione degli spazi, degli spazi politici mondiali e globali? Dobbiamo ragionare in questi termini: non c’è la guerra in Europa, la guerra nel mondo si configura secondo aspetto di guerra civile. Cos’è che caratterizza la guerra civile rispetto alle altre guerre? Tante cose, ma una in particolare: la guerra civile è caratterizzata dal fatto che l’inimicizia è totale. Quando c’è una guerra civile, ne va della fondazione di un ordinamento totalmente nuovo. Non faccio la guerra civile se voglio una riformetta, se arrivo alla guerra civile è in gioco un ordinamento completamente nuovo e sull’ordinamento completamente nuovo la differenza tra le parti non può che essere totale e quindi è l’inimicizia appunto.
Questo è il carattere che sta assumendo la guerra, il carattere di inimicizia totale, di non riconoscimento in alcun modo dell’uno e dell’altro. Quindi è difficile giungere a un patto in queste condizioni, però è quello che dobbiamo tentare di fare. È quello su cui dobbiamo tentare di ragionare, perché i rischi, appunto di continuare nelle dinamiche attuali sono immensi. Fatto un patto, è chiaro che nella configurazione globale del mondo attuale rimangono aperte contraddizioni pazzesche.
Anche qui in Europa si apre il capitolo Cina. Infatti, ora si sta riparlando di questo. Anche durante il vertice a Nuova Dehli (l’ultimo G20, ndr) il tema vero, più che la guerra in Ucraina, è il rapporto con la Cina e la garanzia che devono dare tutti gli Stati europei che non ci saranno più rapporti con la Cina. Tutti gli Stati europei si riallineano su quella che era la linea della politica estera americana dieci anni fa, sia dei democratici che dei repubblicani.
Quindi quello è lo sfondo su cui dobbiamo proiettare tutte le nostre analisi sulla guerra attuale. Dobbiamo cercare di dare voce ad una linea razionale e realistica per giungere ad un patto che può passare soltanto attraverso la cessazione della guerra. Non continuando ad armare la guerra, ma dandosi da fare per la pace.
La voce europea è difficile da trovare anche per un motivo molto semplice: la guerra semplifica tutto. Ma la continuazione di uno stato di guerra vuol dire che siamo in guerra anche qui. E uno Stato in guerra non può ammettere tanta dialettica e tanto dibattito al suo interno, e le voci discordanti diventano subito fastidiose. Silent leges in bello, questa è la regola: tacete voi leggi durante le guerre, perché durante le guerre vige l’emergenza, vige l’eccezione. C’è il potere esecutivo che decide, non c’è tempo per discutere, per chiacchierare. Questa traiettoria è inevitabile, se non si ferma questa guerra. Ci deve essere quindi un interesse politico dei movimenti.