Monet e l’Italia

Dicembre, 1883, Claude Monet e Auguste Renoir compiono un breve viaggio nel sud della Francia arrivando anche a Bordighera, subito al di là del confine. Il padre dell’Impressionismo resta folgorato  dalla bellezza del posto tanto che, appena rientrato a Parigi, confida a Paul Durand-Ruell, suo gallerista, il desiderio di tornare immediatamente nella cittadina ligure per dipingere. Si raccomanda di mantenere il suo viaggio segreto, teme che l’amico Renoir voglia unirsi ma lui preferisce andare da solo “seguendo le mie sole impressioni”. Insomma, vuole Bordighera solo per sè…

Il 17 Gennaio 1884 Durand-Ruell accompagna Monet alla stazione di Parigi che, in procinto di salire sul treno, gli confida: “Parto pieno di ardore, ho l’impressione che farò cose meravigliose!”.
E così è stato: 50 tele fra le più belle di tutta la sua produzione, conservate nei più importanti musei del mondo, realizzate in 79 giorni, tanto è durato il suo soggiorno.

In quegli anni Bordighera era diventata una vivace cittadina grazie al successo del romanzo “Il dottor Antonio” di Giovanni Ruffini pubblicato anche in lingua inglese nel 1855 ed incentrato sulle vicende storiche dell’Italia risorgimentale. La descrizione della grande bellezza di questo angolo del Mediterraneo attirerà artisti, scrittori e l’alta aristocrazia europea che vi lascerà un’impronta indelebile con la costruzione di strade, di ville e di alberghi principeschi che trasformeranno radicalmente il piccolo borgo arroccato sul promontorio di Sant’Ampelio. Sarà Charles Garnier, l’architetto dell’Opéra di Parigi, a pianificarne l’espansione dopo essere venuto ad abitare a Bordighera nel 1871.

Alla fine dell’Ottocento il numero degli stranieri supera quello dei locali. Sono, soprattutto, gli Inglesi ad arrivare realizzando, ad esempio, il secondo campo da tennis più antico del mondo dopo quello di Wimbledon. Ad attirarli è un clima decisamente eccezionale in cui la salsedine del mare incontra l’aria delle Alpi Marittime che svettano a pochi chilometri di distanza, nel mezzo una “selva di aranci, olivi, eucalipti e mimose”.

Famosissimo era anche il Giardino Moreno, creato da un commerciante di olio nonché agente consolare di Francia, che aveva cominciato a piantare i semi di molte specie esotiche. “Un giardino come quello non rassomiglia a niente, è semplicemente fantasmagorico, tutte le piante dell’universo sembrano crescervi spontaneamente!”, scrive Monet in una lettera.

Nella cittadina ligure arrivano, infatti, molti botanici come Ludwig Winter che contribuirà in modo decisivo allo sviluppo della floricoltura europea sperimentando nuove specie di rose, esportando le piante locali in tutto il continente e creando meravigliosi giardini per la città oltre che per facoltosi clienti come il Principe Hohenlohe, l’imperatrice Eugenia, la Contessa Foucher de Careil. Winter progetta anche il parco di Villa Etelinda – ritratta da Monet – dove, a partire dal 1879, risiede la Regina Margherita che aveva scelto Bordighera come sua residenza invernale.

Ma a Monet non interessa la vita mondana, vuole solo dipingere: “Lavoro come un forsennato su sei tele al giorno. Faccio molta fatica, poiché non riesco ancora a cogliere il tono di questo paese; a volte sono spaventato dai colori che devo adoperare, ho paura di essere terribile, eppure sono ancora ben al disotto;

è atroce la luce…queste palme mi fanno dannare, e poi i motivi sono estremamente difficili da riprodurre, da trasferire sulla tela, è tanto folto dappertutto,

è delizioso da vedere; si può passeggiare indefinitamente sotto le palme, gli aranci, i limoni e anche sotto gli splendidi ulivi. Vorrei fare certi aranci e limoni che si stagliano contro il mare azzurro, non riesco a trovarli come voglio. Quanto all’azzurro del mare e del cielo, è impossibile, un azzurro purissimo inimmaginabile”.

Lui, pittore del nord, della Senna e di Parigi, arriva a Bordighera dove si affaccia, per la prima volta, sul Mediterraneo, ingaggiando un corpo a corpo con quella luce così intensa che, spesso, più che illuminare, abbaglia e disorienta: quella “luce incantata che mi sforzo di rendere”.

Non ha mai scritto tanto come in questi mesi esplicitando i suoi tormenti e le sue sensazioni di meraviglia, impotenza e conquista: “Ora dipingo con colori italiani che ho fatto venire da Torino… Adesso sento bene il paese, oso mettere i toni terra e rosa e blu, è magia!” (5 marzo).

Nei quadri i paesaggi liguri sono risucchiati dalla sua poetica con le palme corrose dalla luce, i tronchi divorati dai gorghi d’ombra, le forme sottomesse al formicolio dei colori. Le sue pennellate scombinano il grande piano di una rappresentazione oggettiva del mondo come la intende il Positivismo: la realtà non può essere ridotta a leggi immutabili e statiche, è molto più complessa e relativa.

Il 17 febbraio va ad esplorare l’entroterra dove, a pochi chilometri dal mare, sorge una costellazione di sette borghi medioevali scolpiti nella pietra. “Abbiamo compiuto una escursione meravigliosa. Partiti in carrozza di buonora abbiamo raggiunto un villaggio della Val Nervia straordinariamente pittoresco. Siamo ritornati a Bordighera a piedi lungo un percorso collinare…sfortunatamente non potrò mai raccontare le meraviglie che ho visto durante il ritorno attraverso dei quadri a causa delle difficoltà che dovrei affrontare per ritornarvi a dipingere”. A Dolceacqua e al suo inconfondibile ponte sotto il castello dedica quattro tele.

“Questi luoghi sembrano fatti apposta per la pittura en plein air. Mi sento particolarmente eccitato da quest’esperienza”, scrive. La sua pittura metereologica, con i colori imbevuti di sole, di nuvole e di vento, lo porta sempre in esplorazione ma le sue mappe sono in perenne ridefinizione per inseguire l’incanto dei luoghi sotto la luce che svela le forme.

E non sempre i suoi viaggi hanno proceduto per vie terrestri come quando, nel 1872, acquista un battello che trasforma in atelier perchè non gli basta più dipingere la Senna guardandola da lontano, ma gli è necessario starvi dentro, in mezzo, e da qui dilatare lo spazio in tutte le direzioni, lungo mille anse e canali.

In un susseguirsi di paesaggi continuamente cangianti a seconda dell’ora e del tempo, il suo percorso artistico è, innanzitutto, un itinerario geografico che inizia sulla costa normanna di Le Havre, per poi spostarsi di paese in paese seguendo il corso della Senna fino a Parigi, devia per tre volte verso il Mediterraneo, riprende lungo il Tamigi e approda, infine, nello stagno delle ninfee di Giverny.

Qui il peregrinare di Monet si ferma. Dal 1897, per ventisette anni, non farà altro che curare il suo giardino acquatico, deviando fiumi, piantando bulbi, spostando fiori, spendendo tutto in giardinieri. Un’ ossessione che coltiverà fino alla morte e che nemmeno la semicecità riuscirà a interrompere. Di fronte al disincantamento del mondo sotto i colpi dall’industrializzazione e dell’artificializzazione del paesaggio, non è più l’arte che deve ispirarsi alla natura ma la natura che finisce per imitare i suoi quadri.

La sua è sempre una pittura locale con il cavalletto ben impiantato al territorio, all’unicità specifica di un luogo che cristallizza in una tonalità irripetibile. Questione di clima e di topografia. La sfumatura viene con il contrasto delle stagioni e dei rilievi, aderisce alla terra con le sue zolle, i suoi alberi, i suoi vigneti, richiede la lentezza dei cicli agricoli, la pazienza dei contadini. Se l’arte entrerà in crisi è perché lo sarà il territorio. La nostra attuale disartisticizzazione è figlia del nostro spaesamento, del nostro sguardo fluidificato e mondializzato, in levitazione fuori dal suolo sospeso  in tutte le direzioni.

Nelle acque di Giverny Monet annega definitivamente l’Impressionismo mentre sbocciano nuove visioni. Lo rivela Kandinskij che vede nel 1905 uno dei suoi quadri e ne rimane folgorato ricevendone l’intuizione dell’arte astratta.

E così le ninfee – fiori dell’acqua e della luce che si aprono al mattino e si chiudono la sera – assurgono a simbolo del tramonto del grande ciclo della pittura naturalistica occidentale e schiudono nuove albe  inaugurando gli orizzonti della modernità a-prospettica e informale.

Monet uscirà dall’universo privato del suo giardino solo per tornare sulle rive del Mediterraneo, di nuovo in Italia, a Venezia, fra ottobre e novembre del 1908, nell’ultimo viaggio lontano da casa. ”Venezia è l’impressionismo in pietra. L’artista che immaginò Palazzo Ducale fu il primo impressionista, lo fece galleggiare sull’acqua, nascere dall’acqua e risplendere nell’aria di Venezia come il pittore impressionista fa risplendere sulla tela le sue pennellate per trasmettere la sensazione dell’atmosfera”, scrive.

Seguire Monet in tutte le sue geografie ci ha portato anche a Bordighera, tappa fondamentale per elaborare il segreto di una delle più geniali e poetiche interpretazioni del colore che artista abbia mai fatto. È una storia che ancora troppi pochi italiani conoscono, così come poco conoscono questi luoghi, nel mistero di un Paese tanto amato dagli stranieri quanto trascurato dal suo popolo.

“Farò forse gridare un pò i nemici del blu e del rosa, per via di questo splendore, questa luce fantastica che mi applico a rendere;

e quelli che non hanno mai visto questo paese o che l’hanno visto male grideranno, ne sono sicuro, all’inverosimiglianza, sebbene io sia molto al di sotto del tono:

tutto è colore cangiante e fiammeggiante, è ammirevole; 

e ogni giorno la campagna è più bella.

Ed io sono stregato dal paese.

Qui tutto è bellezza e il tempo è superbo”,

scrive il pittore francese in una delle sue ultime lettere da Bordighera, un paese che, dopo il suo passaggio, trascende le sue coordinate geografiche per collocarsi alla latitudine artistica del grande pittore francese.

Sonia Milone

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