di Sandro Moiso
Steve Keen, L’economia nuova. Moneta, ambiente complessità. Pensare l’alternativa al collasso ecologico e sociale, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 220, 18 euro.
Al contrario di quanto riguarda il Covid 19 e altri virus e morbi manifestatisi sul pianeta negli ultimi decenni, vi è un morbo altrettanto pericoloso, e forse ancor più devastante dal punto di vista sociale, di cui si può affermare con certezza che si è diffuso a partire dai laboratori universitari, in questo caso americani, nel corso degli ultimi cinquant’anni: quello dell’economia cosiddetta neoclassica.
Steve Keen, professore di Economia alla Western Sidney University e Distinguished Research Fellow alla University College di Londra, importante critico della scienza economica convenzionale e uno dei pochi economisti ad aver previsto la crisi economica del 2007-2008, in questo testo appena uscito per Meltemi, nella collana «Rethink», cerca di dimostrarne l’infondatezza soprattutto sulla base dell’attuale e più che evidente cambiamento climatico di cui la suddetta teoria non ha mai tenuto sufficientemente conto.
Il giudizio espresso dall’autore sull’insieme degli assiomi del paradigma neoclassico è netto e tagliente:
Ripensando ai cinquant’anni trascorsi da quando mi sono reso conto dei difetti dell’economia neoclassica, il termine che esprime al meglio i miei sentimenti a riguardo è, come Marx disse del proto-neoclassico Jean-Baptiste Say, “insulsa” (Marx , Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica,1857). Al meglio, il capitalismo è visto come un sistema che evidenzia l’armonia dell’equilibrio, dove ognuno viene pagato il proprio giusto salario (secondo il suo “prodotto marginale”), la crescita procede senza intoppi secondo un tasso che massimizza nel tempo l’utilità sociale e tutti sono mossi dal desiderio di consumare, invece che dall’accumulazione e dal potere, perché, per citare Say, “i produttori, benché abbiano tutti l’aria di chiedere soldi in cambio dei loro prodotti, in realtà vogliono scambiarli con altri prodotti” (Say, Catechisme d’economie politique, 1821, capitolo 18).
Che visione monotona e grigia del complesso e mutevole mondo in cui viviamo!1
Ed è proprio la complessità del mondo reale ad essere esclusa dai modelli economici neoclassici dominanti, a partire non soltanto dall’idea di un fantomatico equilibrio tra produzione, consumi, investimenti e “giusti” profitti raggiungibile soltanto attraverso l’applicazione di regole esoteriche derivate da calcoli improbabili, ma anche dalla sostanziale negazione della divisione in classi della società attuale.
Una visione “monotona” e riduttiva che già non ha saputo prevedere la crisi del 2007-2008, certamente la più grave e devastante crisi economico-finanziaria sviluppatasi a partire dagli Stati Uniti dopo quella che aveva generato la Grande depressione a partire dal martedì nero del 29 ottobre1929, ma che ha fatto anche di peggio ignorando oppure sottostimando i danni, non solo economici, derivanti dal drastico cambiamento climatico in corso. Di cui l’attuale modo di produzione, insieme ai calcoli previsionali che lo accompagnano e “giustificano”, è uno dei fattori più rilevanti e devastanti.
Questa scuola, o dottrina economica, però ha un inizio e un laboratorio d’origine come racconta lo stesso Keen:
Com’è successo che la rappresentazione esaltante del capitalismo proposta da Marx sia stata sconfitta dalla insipida visione di Say? In parte è stato intenzionale. Nitzan e Bichler notano che il robber baron per antonomasia del XIX secolo, John D. Rockefeller, riteneva che i 45 milioni di dollari lasciati in dote all’università battista di Chicago, la quale sarebbe poi diventata l’alma mater di Milton Friedman, fossero il miglior investimento che avesse mai fatto (Nitzan J., Bichler S., Capital as Power: A Study of Order and Creorder [Londra 2009], p. 76.). Come ha sostenuto De Vroey, “il nuovo paradigma era particolarmente attraente perché sembrava scientifico al pari delle teorie delle scienze naturali, mentre evitava di trattare le pericolose tematiche degli interessi di classe e della trasformazione del pensiero […] Dal punto di vista della classe dominante capitalistica, il principale pregio del paradigma neoclassico era ed è proprio il suo essere innocuo” (De Vroey M., The Transition from Classical to Neoclassical Economics: A Scientific Revolution, «Journal of Economic Issues»,1975, p. 435.)2.
E’ infatti la scuola monetarista di Chicago,da cui ebbero inizio gli esperimenti politico-sociali che Milton Friedman suggerì di metter in atto nel Cile golpista di Pinochet, ad esser messa sotto accusa dall’autore del testo. Autore che, pur non allontanandosi affatto dal paradigma del mercato e degli scambi monetari e dei modelli matematici più adatti a migliorarne l’interpretazione (ma non il cambiamento radicale), ha sicuramente il merito di sottolineare i gravi danni che l’attuale modello interpretativo economico dominate causa a livello climatico e ambientale.
Mentre l’Europa e l’America soffocano in una delle estati più calde mai registrate, mentre tremende siccità pregiudicano i raccolti e azzoppano le centrali elettriche, mentre diluvi improvvisi distruggono paesi e città, emerge con forza il fatto che le cose non stanno così: abbiamo decisamente superato la capacità della biosfera di sostenere la nostra civiltà industriale. Il nostro obiettivo dovrebbe essere ridurre nel modo più equo possibile l’impronta ecologica dell’umanità,
non contribuire ad aggravare la situazione. Anche in questo caso l’economia mainstream è un ostacolo ingombrante a fare ciò che si dovrebbe fare. […] gli economisti ortodossi hanno sempre
minimizzato il pericolo rappresentato dal cambiamento climatico, in quelli che sono, senza alcun dubbio, i peggiori studi che abbia mai letto.
[…] Il fallimento degli economisti mainstream nell’analizzare gli effetti del cambiamento climatico è di gran lunga peggiore dei loro errori nel prevedere la crisi finanziaria globale, quando, ignorando del tutto la crescita del debito privato e sulla base dei loro modelli macroeconomici sbagliati, erano convinti che l’immediato futuro fosse decisamente roseo. Nel 2008, d’altronde, ci hanno solo condotto, bendati e inermi, alla più grande crisi economica dai tempi della Grande depressione. Questa volta, invece, ci stanno portando a vivere la potenziale, completa distruzione dell’economia capitalista per effetto dei cambiamenti climatici, proprio loro che del capitalismo sono i cantori.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di una teoria economica realistica, che sia in grado di tenere pienamente conto dei vincoli ecologici del pianeta finito in cui ci troviamo a vivere. E il compito fondamentale di questa economia nuova non sarà quello di gestire l’economia, bensì di salvare il salvabile dopo che sui nostri sistemi economici e sociali si sarà abbattuta la furia devastatrice di questo Prometeo scatenato con la complicità degli economisti neoclassici3.
Come ben si può comprendere da queste ultime righe l’intento di Keen non è quello di rivoluzionare l’attuale modo di produzione, nonostante i suoi frequenti ricorsi a Marx nel corso dell’esposizione, ma piuttosto quello di rendere più governabili i processi in atto e sviluppare una maggior “giustizia” distributiva in ambito economico e sociale. Ma l’interesse del libro sta proprio no tanto nel proporre nuovi modelli matematici di interpretazione dell’economia vigente e della sua crisi, quanto nell’avvicinare scienza economica e scienze naturali e fisiche. Sottolineando come l’attuale modello economico estrattivista ed energivoro sia destinato ad ampliare sempre più, e in maniera sempre più distruttiva, la tendenza all’entropia compresa nelle attività della specie rivolte alla sua sussistenza ovvero la tendenza alla dissipazione dell’energia senza possibilità di ricrearne.
Tendenza che, se era contenuta in quelle società che primariamente si affidavano alle energie rinnovabili (vento, acqua, energia animale o umana) o almeno parzialmente (ad esempio il calore prodotto bruciando legname che poi poteva essere rinnovato con nuove piantumazioni), ha raggiunto il massimo della sua capacità energivora e della sua voracità nei confronti dell’ambiente con lo sviluppo della Rivoluzione industriale e la susseguente necessità di consumare e distruggere ogni forma di risorsa e/o combustibile fossile.
Ecco allora che il giudizio sulla convenienza o meno del consumo delle risorse fossili non spetta tanto al mondo della morale o della politica, ma semplicemente a quello della fisica e delel sue leggi. Come afferma ancora Keen nella parte più interessante del suo testo:
Non c’è mai stata una crescita sostenibile. Se pensate altrimenti – se siete, per esempio, uno scettico del cambiamento climatico (come molti economisti, d’altronde) – dovreste prendere in considerazione quanto sostenuto di recente dun fisico (T. Murphy, Exponential Economist Meets Finite Physicist. Do the Mat, San Diego 2012). ora, la crescita delle nostre economie implica una crescita del nostro impiego di energia. Una crescita continua non può non tradursi in un’alterazione significativa del nostro pianeta, e la nostra economia, in ultima analisi, finirebbe per distruggere la vita sul pianeta Terra – e questo non ha niente a che fare con il riscaldamento climatico: è una conseguenza delle leggi della termodinamica.
In virtù della seconda legge della termodinamica, il ricorso all’energia per svolgere lavoro implica la generazione di una quantità prevedibile di dissipazione o di scarto. A un ritmo di crescita economica globale sostenuto, come il 2,3% annuo attuale – un tasso di crescita peraltro ritenuto al giorno d’oggi troppo basso, in quanto porterebbe a una crescita continua della disoccupazione – l’energia dissipata porterebbe la temperatura sulla superficie della Terra a quella dell’acqua che bolle (100°) per il venticinquesimo secolo […] Non credo sia necessario specificare che la vita sulla Terra per allora sarebbe scomparsa del tutto – e il capitalismo ben prima4.
E’ proprio il quarto capitolo del libro, intitolato Economia, energia, ecosistema, a rivelare definitivamente come l’economia del capitale e dei suoi servitori neoclassici non possa costituire altro che un’inevitabile produzione di morte e distruzione in tutte le loro più diverse forme. Vale dunque la pena di riportare quindi anche qui quanto citato da Keen nel suo studio, nel paragrafo dello stesso capitolo, intitolato Un futuro insostenibile, sostenendo che «il riscaldamento globale non ci concede il lusso dei secoli: abbiamo a stento qualche decennio. Abbiamo infatti raggiunto quel punto che già trent’anni fa Kennet Boulding chiamava “l’economia dell’astronauta”, rispetto all’“economia del cowboy” all’origine del capitalismo»:
Il sistema-Terra chiuso del futuro richiederà dei principi economici differenti rispetto a quelli della Terra aperta del passato. Per amor di metafora, sono tentato di chiamare l’economia aperta una “economia del cowboy”, dove il cowboy rappresenta simbolicamente le pianure senza confini ed è associato a un comportamento spregiudicato, sfruttatore, romantico e violento, tutte caratteristiche delle società aperte. L’economia chiusa del futuro invece potrebbe essere piuttosto un’“economia dell’astronauta”: la Terra è come una nave spaziale, senza riserve illimitate di alcun genere, sia per fini estrattivi sia per la gestione degli scarti, e in cui, ne consegue, l’uomo deve trovare necessariamente il suo posto in un sistema ecologico ciclico che riesca a sostenere una riproduzione costante delle sue forme materiali, anche se non può sottrarsi alla necessità di ricorrere a input di energia5.
Su queste riflessioni è bene concludere la recensione di un testo che evidenzia, tra le mille altre cose, anche se indirettamente, come il termine antropocene sia assolutamente da abbandonare a favore di un ben più preciso e utile capitalocene, soprattutto per tutti coloro che, oltre la critica climatologica e ambientalista, vogliano rivolgere la loro attenzione e pratica militante al superamento definitivo del modo di produzione più devastante, mai esistito prima, per la specie e per l’ambiente: quello capitalistico.
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Steve Keen, L’economia nuova. Moneta, ambiente complessità. Pensare l’alternativa al collasso ecologico e sociale, Meltemi editore, Milano 2023, Capitolo sesto, p. 177. ↩
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S. Keen, op. cit., p.178. ↩
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Ibidem, pp. 12-14. ↩
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Ibid., pp. 142-143. ↩
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Boulding K.E., The Economics of the Coming Spaceship Earth. In Markandya A., Richardson J. (eds.), Environmental Economics: A Reader. New York, St. Martin’s Press, 1992, pp. 27-35 ora in N. Keen, op. cit., p. 143. ↩