Di Alberto Conti per ComeDonChisciotte.org
Si parla tanto come di uno spauracchio del “credito sociale” su modello cinese, in termini di controllo centralizzato degli individui da parte di uno Stato autoritario, tendente a limitare le libertà individuali come è tipico dei regimi d’ispirazione comunista, in contrapposizione all’ideologia liberista e libertaria che caratterizza, almeno formalmente, il nostro mondo occidentale.
Questa è la grossolana percezione che ne hanno i più, formatasi sul semplice sentito dire ma comunque riconducibile in proiezione e per analogia alle distopie fantascientifiche descritte nei romanzi di Huxley e Orwell, con relativo senso di paura, repulsione e condanna.
In realtà oggi tali tendenze distopiche sono più evidenti proprio nelle nostre società “liberali”, che ad esempio stanno già sperimentano la raccolta dati personali tramite i social network dei grandi gestori privati, alla faccia della privacy, per fini che vanno ben oltre il perfezionamento delle strategie di marketing. Infatti queste mega aziende informatiche sono ormai integrate e organiche a un sistema che risponde al deep state, il conduttore di fatto delle strategie in essere per conto delle grandi concentrazioni finanziarie e dei loro interessi speculativi e totalitari.
Ma al di là di qualsivoglia polemica del momento, il termine “credito sociale”, se inteso letteralmente, descrive perfettamente l’essenza stessa della moneta moderna, di questo strumento ormai indispensabile e globale, pervasivo e trasversale a tutte le culture, ideologie, usi e costumi diffusi nei diversi popoli. Infatti esiste un immenso “mercato” che a braccia aperte accoglie con un sorriso invitante chiunque possegga la necessaria quantità di moneta, per offrirgli in cambio ogni ben di Dio disponibile e desiderabile. E’ finita l’epoca della possibile scarsità di merci e servizi, superlussi esclusi, salvo causarla di proposito per fini speculativi o geopolitici.
Se identifichiamo in prima approssimazione questo mercato con la comunità stessa, composta per lo più da famiglie dove si lavora e si consuma per vivere, dobbiamo convenire che il possessore di moneta dispone di un corrispondente credito sociale verso questo mercato di cui fa parte, e che si estende anche al resto del mondo interconnesso, ben oltre i confini nazionali.
In altre parole il sistema, sia localmente che globalmente, riconosce, garantendone l’estinguibilità per scambio, un debito sociale in merci e servizi disponibili, a scelta del creditore sociale, cioè il possessore di moneta, l’acquirente consumatore. Pure tutte le ricchezze materiali acquisite in proprietà privata, ma anche pubblica, sono potenzialmente convertibili in qualsiasi altro bene di pari valore, semplicemente monetizzandole preventivamente tramite vendita sul “mercato”, cosiddetto ingannevolmente “libero” il più delle volte.
Quindi “credito sociale” o “diritto di prelievo beni” sono la primaria caratteristica intrinseca e definitoria della moneta, in qualunque forma venga prodotta e gestita, purché possa essere posseduta in misura variabile anche dal singolo cittadino qualunque. E qui sta il punto, connaturato alla fiducia popolare spontanea nella moneta, che la legittima ancor prima di qualsiasi contratto o obbligo di legge. Una fiducia diffusa tra la gente che però viene estesa per analogia anche alle aziende private di ogni dimensione, comprese le gigantesche concentrazioni finanziarie che posseggono enormi capitali senza limitazioni quantitative, superiori al PIL di Paesi importanti.
In questo modo si amplia in modo disumano la gamma dei creditori sociali che compongono il variegato spettro ricchi-poveri, senza un limite superiore ragionevole, neppure a livello di persona fisica (Padroni universali), mentre il limite inferiore è pari a zero, impersonato da nullatenenti assoluti che vivono di assistenza pubblica o carità. Uno spettro smodatamente asimmetrico nella distribuzione delle ricchezze e in via di ulteriore accelerazione divergente tra gli estremi dei poverissimi e degli smodatamente ricchi, ovvero le moltitudini e le élite che le sovrastano, a formare uno schema gerarchico piramidale assunto a proprio emblema dalla massoneria, e non a caso fatto stampare sulla banconota da 1 dollaro americano, la moneta egemone. I simboli sono importanti segni di potere, come continuamente ci ricorda ogni logo di grande multinazionale privata, da mandare a memoria.
Da queste ovvie considerazioni si evince che è proprio la moneta che sta a fondamento dell’ordine sociale, dei patti sociali, delle istituzioni pubbliche tutte, che senza l’alimento degli scambi monetari non avrebbero la forza di esistere autonomamente e stabilmente con la loro autorevolezza, a tutela delle leggi di Stato e di tutte le altre regole subordinate (regionali, provinciali, comunali, ed eventualmente federali o comunitarie), oltre che, in teoria, a beneficio del Popolo e della Patria.
Da qui nasce l’esigenza di una valuta nazionale, di uso obbligatorio per il pagamento delle imposte.
E qui si tocca un punto critico fondamentale della moneta, mai compreso abbastanza.
E’ opinione diffusa che le imposte vengano riscosse dall’ente pubblico per finanziare la spesa pubblica, relativa a diverse voci, tra cui la realizzazione e la manutenzione dei servizi e delle infrastrutture necessarie alla comunità, analogamente alle spese condominiali per le parti comuni di una proprietà immobiliare divisa pro quota millesimale tra tutti i condomini.
Ma vi sono ben altri punti di vista più illuminati sulla tassazione, che però stranamente trascurano la ragione principale del drenaggio fiscale, rappresentata dalla necessità di un continuo riequilibrio endogeno di un’economia autonoma nelle sue dinamiche spontanee secondo i dettami liberisti, ove una grande quantità e varietà di attori economici, principalmente famiglie e aziende, interagiscono tra loro, con gli enti pubblici e in parte anche col resto del mondo.
Senza la tassazione il risparmio accumulato dagli attori economici più rilevanti sarebbe enorme, proporzionalmente alla fascia di reddito, arricchendo sempre più i già ricchi sfondati e lasciando al palo chi invece fatica a sbarcare il lunario, come si diceva un tempo, ovvero chi non è in grado di accumulare alcun risparmio, ma solo debiti. Naturalmente dipende dalle scelte di politica fiscale il grado di redistribuzione della ricchezza prodotta dal sistema, ma una cosa è certa:
un’economia senza tasse produrrebbe nel tempo un livello di concentrazione sperequativa della ricchezza insostenibile in un Paese civile, cioè in un Paese dove tutti possano concretamente raggiungere un livello di vita dignitoso, da cittadini sereni con pari diritti e doveri, visto anche che qualsivoglia ex-servizio pubblico dovrebbe essere pagato in ogni caso da ogni singola utenza obbligata (es.: acqua, luce, gas, telefono, rifiuti, strade, istruzione, sanità, sicurezza, trasporti, giustizia, ecc.) all’azienda privata appaltatrice del servizio, con enorme aggravio delle proprie spese generali che farebbero saltare il già magro bilancio dei meno abbienti. Del resto chi dovrebbe garantire l’enorme credito sociale accumulato dai pochi concentratori di ricchezza se non un intero popolo schiavizzato da un corrispondente forte indebitamento, diffuso capillarmente, che si può concretizzare in varie forme, tutte degradanti? Senza contare il crollo verticale della domanda di consumi di massa, per eccessiva povertà diffusa, ovvero proprio quei consumi, il cui aggregato è maggioritario, che tengono in vita le più rilevanti dinamiche produttive. Altro che “sviluppo economico” quando la sperequazione si fa dura!
Ogni società è una realtà finita, ove debiti e crediti sono di pari importo automaticamente all’atto stesso della loro formazione. Non è logicamente possibile un’economia globale dove aumenti sistematicamente solo il credito sociale complessivo, trattandosi di un sistema chiuso necessariamente responsabile di se stesso. Ma che responsabilità può assumersi un mondo (s)governato da una piccola banda criminale di ladri, truffatori ed assassini arricchitisi a dismisura? Eppure è proprio questa fattispecie subumana che verrà selezionata darwinianamente per comandare una popolazione che non avverte la necessità esistenziale di contrastare la concentrazione illimitata delle ricchezze, non capendo neppure quale sia il ruolo naturale di uno Stato ordinatore e garante all’interno di un’economia monetaria, ovvero tollerando il prevalere della bramosia di privilegio ad ogni costo dei peggiori, dei prevaricatori senz’anima.
Tra le varie implicazioni a corollario della logica economico-monetaria vi è la necessaria centralità degli enti pubblici in qualità di attori economici importanti, coi loro bilanci di tutto rispetto fatti di entrate e uscite contabili. Se definiamo risorse pubbliche disponibili le entrate fiscali, si pone la questione della corretta allocazione di tali risorse, che è sempre una scelta politica, spesso tra interessi contrapposti. Ma chi lo dice che le risorse pubbliche disponibili debbano essere sempre solo di provenienza fiscale? Emissione monetaria a parte, un’azienda pubblica produttiva può, anzi deve in certi casi assumere un ruolo strategico nelle politiche economiche del Paese, sia che realizzi utili in forma di entrate pubbliche aggiuntive, sia che al contrario assorba gettito fiscale per fornire servizi che nessun’altra azienda privata potrebbe fornire, essendo giocoforza a scopo di lucro, che se viene a mancare costringe alla chiusura per fallimento. Si pensi ad esempio al necessario risanamento idrogeologico del Paese, un compito gravoso che nell’immediato non rende nulla, ma crea posti di lavoro e soprattutto risparmi futuri nel prevenire danni incalcolabili da smottamenti, frane e alluvioni ricorrenti.
Tuttavia nella nostra realtà geografica attuale, con più di cento basi militari NATO o americane (il che non fa alcuna differenza sostanziale), siamo ancora sotto ricatto anglofono, assieme alla Germania, dopo ben 80 anni dalla grande sconfitta militare del nazifascismo.
Quindi per noi niente sovranità monetaria, ne economica, culturale, politica più in generale. Siamo una colonia alla deriva che subisce passivamente i diktat esogeni della deindustrializzazione, dell’immigrazione selvaggia, della guerra interna biologica ed economica, dello sradicamento culturale, del sostegno coatto alle guerre di rapina altrui contro altri popoli, tutto a nostro gravissimo danno, oltre alla beffa di dover fare buon viso a cattivo gioco, con uno sfoggio d’ipocrisia politica a livelli parossistici, nel mentre soffiano venti di guerra apocalittici, fomentati da un impero morente che non accetta di rinunciare all’unipolarismo parassitario che lo contraddistingue, ma accetta tranquillamente di sacrificare gli “alleati” storici che tali sono rimasti solo perché con la pistola puntata alla tempia, pur sapendo che neppure tutto questo basterà ad evitare l’inesorabile declino imperiale.
Ma allora perché, da vittime collaboranti a questo bel quadretto “famigliare”, vogliamo qui occuparci di come funziona un’economia liberata e virtuosa, in un mondo riappacificato e recuperato alla normalità del buon senso? Forse proprio per questo, perché dopo aver toccato il fondo dell’abisso ci attende una risalita rapida e questa volta consapevole, che sulla scorta delle tragiche esperienze vissute impedisca di ripetere gli errori e di accettare gli abusi ideologici del passato, in particolare relativamente alle politiche economiche. Idee malsane propagandate e imposte per giustificare il privilegio di pochi ottenuto a spese di molti, dei più deboli, cioè dei più poveri e dei più onesti capitati, senza volerlo, nella giungla del libero malaffare e dello sfruttamento altrui. Le conseguenze estreme di questa imperdonabile distrazione di massa sono sempre più gravi ed evidenti, non le si può più ignorare e tanto meno tollerare. Urgono drastiche contromisure risanatrici e liberatorie dalle tenebre di questo presente distopico. Quali siano queste scelte possibili e salvifiche ce lo dice la logica e ce lo conferma la storia, non solo nostra, dei tempi migliori.
Ma solo una coscienza risvegliata ci potrà dare la forza morale e la ferma volontà di attuarle, pur con tutte le cautele necessarie per adeguarsi alle presenti condizioni evolutive della casa-madre che ci sta ospitando, nel tempo breve della nostra permanenza su questa Terra, ma soprattutto nel tempo più lungo destinato alle generazioni future. Il che rappresenta oggi, come è sempre stato anche per i nostri avi, la nostra maggiore responsabilità.
La vita è bella, e le ipocrisie sono nemiche della vita, anche se indotte come autodifesa dalle aggressioni esterne.
Di Alberto Conti per ComeDonChisciotte.org
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Per chi fosse interessato/a a dibatterne direttamente con l’autore può contattare la redazione.
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Alberto Conti. Laureato in Fisica all’Università Statale di Milano, docente matematica e fisica, sviluppatore software gestionale, istruttore SAP, libero pensatore, collaboratore di Giulietto Chiesa, padre di famiglia, appassionato di filosofia, psicologia, economia politica, montagna, fotografia, fai da te creativo, sempre col gusto alla risoluzione dei problemi.