di Maurizio Marrone
Cormac McCarthy, Stella Maris, Einaudi 2023, pp. 194, € 18,50 stampa, € 9,99 eBoook.
Forse si tratta di un preoccupante sintomo di delirio senescente ma, leggendo Stella Maris di Cormac McCarthy, mi sono ritrovato studente, quando la mia acerba capacità di comprensione veniva messa a dura prova dalla Critica della Ragion Pura di Kant e dalla deduzione delle categorie. E non per le insidie teoretiche – che pur ci sono – insite nel libro dello scrittore americano scomparso di recente, ma perché mi è sembrato di assistere allo stesso infinto duello nel quale il pensiero, per dare un senso alla realtà, cerca disperatamente di divincolarsi da se stesso; ho rivisto il furioso ed entusiasmante corpo a corpo nel quale Kant tenta di adagiare l’Io penso nel mondo come una sua parte e, allo stesso tempo, di trarlo fuori dal mondo e dall’esperienza come suo fondamento e principio unificatore. Una lotta senza vincitori nella cui contorsione, per un istante, riluce in trasparenza l’impasse sublime che è l’essenza stessa della filosofia. Stella Maris sembra voler abitare questa battuta vuota, questo indicibile che precede ogni nostro dire senza poter esse detto e, come spesso accade con McCarthy, ci precipita in un luogo che ci è profondamente estraneo ma che, allo stesso tempo, ci sovrasta con la sua demonica familiarità.
Quindi Stella Maris è un romanzo in forma di saggio che parla di filosofia? Non proprio, perché in realtà parla anche di matematica, di fisica quantistica, di musica, di psicanalisi e di molto altro ancora. Quindi è un pamphlet sullo statuto epistemologico di queste discipline? Oppure McCarthy, alla fine della sua vita è voluto tornare sul problema di Kekulè1 e sul conflitto irrisolto tra subconscio e linguaggio? Difficile a dirsi e, forse, anche poco interessante. Quel che è certo è che quando sono giunto alla fine del libro e ho avvertito le lacrime scorrermi sul viso ho capito che il nodo che mi stringeva la gola era lì a tributare un doveroso omaggio alla straordinaria, inequivocabile, potenza di un un’opera letteraria totale e ultimativa.
Ma andiamo per gradi. È impossibile parlare di Stella Maris senza porlo in relazione con l’altro della dilogia, con Il passeggero,2 suo il gemello eterozigote di cui è anticipazione e compimento, preludio e pietra tombale. Il passeggero comincia con il suicidio di Alicia Western – un incipit che si imprime nella carne come un’antica epigrafe premonitrice – e alterna due tempi narrativi differenti; nel primo seguiamo la vicenda di suo fratello Bobby, aspirante fisico quantistico e mancato pilota di auto da corsa che, curvato sotto il peso dell’amore tossico per la sorella schizofrenica, incapace di accettare la sua morte, dopo dieci anni, vaga tra i lacerti di un mondo in decomposizione, in un pellegrinaggio iniziatico che incarna null’altro che l’estetica della fine. Nel tempo secondario della narrazione – che precede il primo di diversi anni – ci troviamo immersi nei deliri allucinatori di Alicia, popolati da un nano deforme chiamato Kid e dalla sua corte di saltimbanchi che, da quando ha dodici anni, di tanti in tanto le fanno visita e trasfigurano in parossismo il suo disperato e fallimentare tentativo di trovare un modo per dire il senso del mondo.
In Stella Maris, che oltre a essere il titolo del libro – e molte altre cose – è anche il nome della clinica psichiatrica dove si è auto-internata, ritroviamo Alicia ancora in vita, impegnata nell’ultima sfida contro i demoni che la stanno divorando dall’interno; McCarthy ci inchioda all’ascolto di sette sedute di psicoanalisi che Alicia Western concede al Dottor Cohen ed è lecito supporre che questi incontri consumino il tempo residuo che ha concesso a se stessa prima del suo annunciato congedo dal mondo dei vivi.
Se non fosse diventata una matematica cosa le sarebbe piaciuto essere?
Morta.
È una riposta seria?
Io ho preso sul serio la sua domanda. Lei dovrebbe prendere sul serio la mia risposta.3Credo che il nostro tempo sia scaduto.
Lo so. Mi tenga la mano.
Tenerle la mano?
Sì. Voglio che lo faccia.
D’accordo. Perché?
Perché è quello che fanno le persone quando aspettano la fine di qualcosa.4
Il tempo del racconto – e delle vicende umane – si contrae nella sospensione ieratica di queste sette macchie di luce, nel cui bagliore opalescente, come fossero le tessere ritrovate di un puzzle che non si può comporre, si intravedono i pezzi mancanti del gemello diverso.
Alicia da sempre tormentata dalla blasfemia lieve di un amore incestuoso per il fratello creduto morto.
C’erano candele dappertutto e noi eravamo nudi e lui ha alzato gli occhi su di me da in mezzo alle mie gambe e ha sorriso e al lume di candela la sua faccia era tutta luccicante di umori femminili e poi mi sono svegliata. Svegliata dall’orgasmo.5
Le prime apparizioni del Kid con la sua corte dei miracoli e le domande sul senso del loro sfarfallio pre-reale.
È piccolo e gracile e coraggioso. Qual è la vita interiore di un eidolon? I suoi pensieri e interrogativi nascono con lui? È la mia creatura? O io la sua? […] La sua parlata, i suoi infiniti andirivieni. Sono opera mia? Non ho tutto questo talento.6
Ma un’idea di quel che vogliono ce l’avrà?Vogliono fare qualcosa col mondo cui le non ha mai pensato. Vogliono metterlo in dubbio.
E per quale motivo?
Perché loro sono così. Sono questo. Se volessi soltanto una conferma del mondo non avresti bisogno di convocare strane creature.7
Un dottorato di ricerca in matematica a soli diciassette anni e un‘adolescenza mai vissuta, marchiata dalle stimmate di una genialità che eccede i limiti della sua stessa mente.
Alicia, che ha sondato i recessi più reconditi della matematica pura (Grothendieck, Cantor, Gödel, Frege, Poincaré), ma dal suo viaggio è tornata a mani vuote, tanto da abbandonare sia la matematica che la vita stessa. E poi il rapporto evanescente col padre, sodale irredento di Oppenheimer nella creazione del bolide che, con un unico lampo accecante, avrebbe incenerito per sempre ossa e futuro.
Immagini che nel libro affiorano e svaniscono, quasi a voler comunicare che la loro funzione simbolica è pari alla loro inessenzialità. Perché su tutto, prima e dopo tutto, sta il viaggio di andata e ritorno che Alicia compie alla ricerca di un altrove di senso che non si lascia vedere se non per mostrare la sua demoniaca inaccessibilità.
Ciò che residua è un’unica, folgorante, sequenza di dialoghi depotenziati di ogni hybris descrittiva, fatti di pura lingua che scorre inesorabile verso la materia inerte da cui origina e nella quale svanisce. Impossibile non tornare a Sunset Limited,8 l’unico altro “dialogo” di McCarthy, nel quale un uomo bianco (WHITE), mancato – o compianto – suicida, affida il suo memento a un uomo di colore (BLACK), impotente angelo redentore, che lo perde per sempre dopo averlo appena salvato dallo schianto fatale di un treno in piena corsa. Solo che Alicia Western va oltre la semplice resa di WHITE, per il quale “la civiltà occidentale è andata definitivamente in fumo nelle ciminiere di Dachau”,9 perché sovverte l’ordine dei fattori e, come fosse un entanglement dell’orrore, situa il collasso al di fuori del tempo lineare, all’inizio e alla fine di tutto.
Perché sapevo quello che mio fratello non sapeva. Che sotto la superficie del mondo c’era e c’era sempre stato un orrore mal trattenuto. Che al cuore della realtà alberga un abissale ed eterno demonium. (…) E che non se ne sarebbe andato. E immaginare che le funeste eruzioni di questo secolo fossero in qualche modo eccezionali o esaustive era semplicemente una scemenza.10
Come fossero le stazioni di una via crucis, nel corso delle sette sedute si passa dalla filosofia alla fisica quantistica, dalla matematica alla cosmologia, dalla musica alla psicoanalisi, dal subconscio all’origine del linguaggio, ma la domanda fondamentale che ritorna come un basso continuo è sempre la stessa: esiste un senso del mondo che vada al di là della sua rappresentazione e non si infranga contro il nostro puro, disarmato, essere esposti ad esso? McCarty/Alicia/dottor Cohen – poco importa chi pone le domande, chi risponde e cosa stia veramente a cuore all’autore – passano al setaccio il cruccio metafisico del pensiero occidentale con l’occhio sempre puntato su un cuore di tenebra che è premonizione e destino, passato e futuro, epifania e morte. Perché il senso ultimo della realtà dilegua nel momento in cui appare e, probabilmente, coincide con l’oscurità che imbavaglia ogni tentativo di dargli voce. Alicia, raccontando al dottor Cohen una visione avuta a dieci anni, lo chiama Achatron.
Attraverso qualcosa come uno spioncino guardavo questo mondo dove c’erano delle sentinelle in piedi accanto a un cancello e sapevo che oltre il cancello c’era qualcosa di terribile che mi teneva in pugno.
Qualcosa di terribile.
Sì, Un essere. Una presenza. E che la ricerca di un rifugio e di un’alleanza tra noi serviva solo a eludere quella cosa malefica di cu avevamo un terrore infinito pur senza saperne alcunché […] L’ho chiamata Achatron.
La presenza oltre il cancello.
La presenza oltre il cancello.
Ed è stata nascosta alla vista.
Sì.11
La scrittura di McCarthy, forse la sua idea stessa di letteratura, si fonde con la schizofrenia divinatoria di Alicia Western e performa la topologia di questo limite che dilegua verso l’incombenza del nulla, di questa presenza oltre il cancello; che parli di praterie sconfinate, di killer psicopatici, di guitti focomelici o della teoria dei topoi di Grothendieck. Così come Beethoven diceva addio alla forma sonata, con la Sonata n. 32 Opera 111, così McCarthy congeda la letteratura, il linguaggio e il tempo dell’uomo, con la pura forza mitopoietica della letteratura stessa
Un lettore molto attento ha individuato un legame strutturale che unisce La strada al Passeggero (e quindi anche a Stella Maris) dicendo, tra le altre cose, che gli “eccessi kitsch del secondo sono La strada gettata in una centrifuga e cucinata da McCarthy come una specie di metanfetamina”.12 Similitudine ardita ma, allo stesso tempo, particolarmente efficace. Io vorrei proporre un azzardo ulteriore: gli ultimi quattro romanzi di McCarthy rappresentano un unico, inaudito, definitivo, affresco della fine. Il Trionfo della morte13 di Pieter Bruegel in quattro movimenti. La profezia di morte incarnata da Anton Chigurh in Non è un Paese per Vecchi, deflagra nella polvere post apocalittica della Strada, ma trova il suo compimento ultimo nel tormento sincopato di Bobby Western e nello straziante addio di sua sorella Alicia.
Poi sarei salita sulle montagne. Lontana dal passaggio. Per non correre rischi. Avrei attraversato a piedi la terra dei miei avi. Magari di notte. Ci sono lupi lassù. Mi sono documentata. La sera uno poteva accendere un piccolo fuoco. Magari trovare una grotta. Un ruscello di montagna. Avrei avuto una borraccia con dell’acqua per quando sarei diventata troppo debole per spostarmi. Dopo un po’ l’acqua avrebbe avuto un sapore straordinario. Avrebbe avuto il
sapore della musica. La notte mi sarei avvolta nella coperta contro il freddo e avrei guardato le mie ossa prendere forma sotto la pelle e avrei pregato di poter vedere la verità del mondo prima di morire. Ogni tanto di notte gli animali sarebbero venuti fino al limite del fuoco e si sarebbero aggirati nei paraggi e le loro ombre si sarebbero spostate tra gli alberi e io avrei capito che quando il fuoco si fosse ridotto in cenere sarebbero venuti e mi avrebbero portata via e sarei stata la loro eucarestia. E questa sarebbe stata la mia vita. E sarei stata felice.14
L’epopea del crepuscolo finisce qui. Nel gesto estatico di questa eucarestia laica di esaurisce il tempo dell’uomo. Tra le macerie si scorgono feticci esposti all’ineluttabilità del naufragio, relitti agonizzanti e tracce distillate di pura, sublime, letteratura.
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Friedrich August Kekulé von Stradonitz è stato un chimico tedesco famoso per aver individuato il modello molecolare dell’anello benzenico e, soprattutto, per aver affermato di aver visto la struttura corretta della molecola in sogno. McCarthy che si è sempre interessato di modelli interdisciplinari complessi ed era fiduciario del Santa Fe Institut, su questa questione e sul rapporto tra subconscio e linguaggio nel 2017 scrisse un famoso articolo a carattere scientifico per la rivista “Nautilus”, dal titolo: Il problema di Kekulè. Da dove viene il linguaggio. Cfr. qui. ↩
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Cormac McCarthy, Stella Maris, Einaudi, 2023, p. 13. ↩
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Ivi, p. 194. ↩
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Ivi, p. 170. ↩
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Ivi, p. 174. ↩
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Ivi, p. 23. ↩
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Cormac McCarthy, Sunset Limited, Einaudi 2008. Pensato come pièce teatrale, nel 2011 ne è stato tratto un film omonimo diretto da Tommy Lee Jones. ↩
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Ivi, .22 ↩
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Cormac McCarthy, Stella Maris, cit., p. 170. ↩
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Ivi, cit., p. 108. Ivi, cit., p. 108. ↩
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Celebre dipinto del 1562 di Pieter Bruegel il giovane. ↩
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Cormac McCarthy, Stella Maris, cit., pp.193-194. ↩