“La rivoluzione sarà transfemminista o non sarà” è uno slogan che da tempo risuona nelle piazze e nelle assemblee di tutto il mondo. La giornata di ieri, e tutta la settimana che l’ha preceduta, non solo rende questo slogan sempre più una necessità politica, ma lo palesa come dato sociale incontrovertibile. Oltre cinquecentomila persone a Roma non si vedevano da tempo. Se le si unisce con le migliaia di persone che in contemporanea hanno manifestato a Messina, Milano, Torino, Treviso, Schio e alle decine di manifestazioni di massa che hanno segnato tutta la settimana precedente ci accorgiamo di essere forse di fronte a uno spartiacque (qui il podcast di Gemini Network).
È innegabile che il femminicidio di Giulia Cecchettin abbia dato una scossa e forse per la prima volta, anche grazie alla sorella Elena e alla sua famiglia, c’è stata la reale capacità di trasformare il dolore da un fatto privato a una rabbia collettiva che ha fatto irruzione nello spazio pubblico. Una rabbia non solo rappresentata e urlata, ma anche praticata, come dimostra quello che è accaduto nel corso della manifestazione romana davanti alla sede del Movimento Pro Vita, con la polizia che manganella le manifestanti e poi viene costretta a indietreggiare.
In termini generali, le mobilitazioni di ieri e delle giornate precedenti rimarcano alcune cose. Se la violenza patriarcale è strutturale, la risposta che si sta dando, in termini di capacità immaginativa e capillarità mobilitativa, apre una prospettiva di trasformazione radicale della società. Si è visto, soprattutto nelle scuole e nelle università, come le parole d’ordine siano cambiate, “bruciamo tutto” è diventato qualcosa di realmente pervasivo, coinvolgendo non solo i grandi centri urbani, ma anche le piccole realtà di provincia. Ne è dimostrazione lo sciopero autoconvocato e il corteo studentesco tenutosi a Padova sabato mattina, a cui hanno partecipato migliaia di studenti e studentesse delle scuole di tutte le scuole cittadine.
Vi è l’indicazione di un chiaro nemico: il governo Meloni che in questo anno ha a più riprese attaccato le libertà e i diritti delle donne, della comunità Lgbtqia+, delle persone migranti. Ma c’è anche un contesto internazionale nel quale le tendenze politiche reazionarie si intrecciano con una guerra globale permanente di cui l’oppressione patriarcale è uno dei fondamenti.
A più riprese, negli interventi della piazza romana, viene citato il genocidio palestinese, il nesso tra violenza coloniale e violenza di genere. Emerge la necessità di un femminismo decoloniale ed intersezionale: “non possiamo accettare un femminismo basato esclusivamente sui corpi bianchi e sulla storia bianca, abbiamo bisogno di un femminismo che parli di decolonialità”, dice al microfono un’attivista curda. Il grido “Donna, vita libertà” si inserisce in tutto questo, nella necessità di avere una visione completa, a fianco di ogni sorella, dalle compagne curde alle compagne argentine il cui urlo “Ni una Menos” deve diventare reale ovunque.
Lo striscione apertura della manifestazione romana recita “transfemministə ingovernabilə contro la violenza”: una frase che raccoglie le istanze di ognuna delle cinquecentomila persone presenti. La marea straborda già al Circo Massimo e ci è voluto molto tempo perché il corteo si distendesse lungo le strade della capitale. In apertura la performance della casa delle donne occupata Lucha y Siesta, realtà cittadina minacciata più volte di sgombero. “Sottolineiamo l’importanza di un luogo capillare nella città e riteniamo inconcepibile pensare che oggi le istituzioni volessero fare passerella qui quando vediamo quotidianamente la loro vera faccia nel relazionarsi con noi”. E ancora: “Costruiamo la nostra forza sulla sorellanza, non siamo disposte a farci più piccole o silenziose. Ci vogliamo vive e libere e ci prenderemo tutto. Creiamo ora spazi di cura per uscire più forti non pacificate, siamo in lotta non in lutto”.
Più avanti vengono agitati decine di migliaia di mazzi di chiavi di casa, simbolo di tutte le volte in cui le donne per tornare a casa di notte devono stringere le chiavi per autodifesa perché le strade non sono un luogo sicuro.
“Ci proteggono le nostre sorelle, non la polizia” viene ripetuto dal microfono “Le strade sicure le fanno i corpi che le attraversano”.
Viene poi invasa l’area archeologica del Colosseo: un cordone lunghissimo circonda il monumento per intero, mentre dal microfono del camion di apertura si parla di reddito di autodeterminazione e finanziamenti per il welfare come uniche risposte a una crisi che colpisce le donne in modo sempre più drammatico. Sulla facciata del Colosseo vengono proiettati la scritta “Non una di meno” e diversi simboli transfemministi.
Nella parte finale del corteo la polizia ha caricato davanti alla sede nel movimento pro vita, già sanzionata nel corso della manifestazione. Dopo alcuni minuti di taffferugli, la polizia ha indietreggiato. Un’attivista è rimasta ferita.
Il corteo si conclude in Piazza San Giovanni, dove vengono fatti gli ultimi interventi e viene rilanciata l’assemblea del giorno successivo.