Nuove narrazioni per un avanzamento della lotta per il diritto all’aborto contro i soliti neofondamentalisti

All’indomani di una proposta di legge per iniziativa popolare promossa da gruppi neofondamentalisti che ha raggiunto le 106 mila firme e che verrà quindi discussa in Parlamento, si legge “il medico che effettua la visita che precede l’IVG è obbligato a far vedere, tramite esami strumentali, alla donna intenzionata ad abortire, il nascituro che porta nel grembo e a farle ascoltare il battito cardiaco dello stesso”. Tutto ciò determina una situazione nella quale urge per i movimenti transfemministi proporre un avanzamento in quella che è la lotta per una giustizia riproduttiva e all’aborto libero, sicuro e gratuito. 

I gruppi neofondamentalisti hanno spostato le loro battaglie per togliere il diritto all’aborto non più nel tentativo inutile di abolire la 194 ma a modificarla dall’interno, aprire novi spiragli di possibilità per rendere la scelta di abortire ancora più difficile e insicura per le persone che la scelgono. Si sfruttano le già pre esistenti debolezze della norma – che è nata quasi per far tacere quelle che erano le erano le manifestazioni femministe e non per non una reale intenzione di garantire il diritto all’aborto.

Sulla legittimità di questa legge si è cominciato già a dibattere in quanto violerebbe l’articolo 32 della Costituzione costringendo il servizio sanitario nazionale a farsi carico di istanze contrarie alla salute della persona e anche all’articolo 2 sulla libertà della persona ma per ora è importante provare a dare delle linee su come i movimenti femministi potrebbero continuare la lotta per la giustizia riproduttiva. 

Una proposta di avanzamento la possiamo leggere tra le righe di Pauline Harmange in “Aborto, il personale è politico” dove l’autrice racconta della sua esperienza con l’aborto, del suo desiderio di maternità e della difficoltà di far convivere questi due elementi nella sua emotività. 

La narrazione femminista dell’aborto si è giustamente fatta carico di descrivere l’aborto come una liberazione e non come un dramma, narrazione utilizzata invece dai gruppi antibortisti. Il problema però è proprio nella mancanza di narrazioni di chi abortisce, perché se da un lato ci vogliono far credere che il diritto all’IVG è garantito grazie alla 194, anche se non è vero come dimostra il 70% di medici obbeittori, le storie delle persone con utero che abortiscono non esistono. Se si riesce si abortisce, basta che nessuno venga a saperlo. E in questo modo chiunque non si riveda nella narrazione femminista dell’aborto come liberazione ma è femminista non trova nessun conforto. Il racconto di una femminista che abortisce con dolore viene strumentalizzata dai gruppi antiabortisti e per questo c’è sempre stata difficoltà a far uscire anche questa narrazione (che non deve essere la sola, perché quella dell’aborto come liberazione resta fondamentale). 

Abbiamo sempre abortito e sempre abortiremo e per questo bisogna far entrare tutte le narrazioni di come si vive un aborto, e anzi l’importanza di chi sostiene il diritto alla giustizia riproduttiva in qualsiasi caso ma vive un aborto con dolore è un punto di vista che manca ma che è fondamentale per parlare in modo più complesso anche di tutta una serie di elementi che sono strettamente collegati all’interruzione volontaria di gravidanza ma vengono lasciati come elementi accessori e non centrali come la maternità. 

Riappropriarci della maternità oltre la visione di famiglia patriarcale può essere proprio una chiave per permettere che tutte le narrazioni dell’aborto siano concesse e anzi, amplificate e utilizzate proprio silenziare gli antiabortisti, perché “la lotta per la giustizia sociale non è solo una lotta per il diritto all’IVG. Si tratta anche battersi affinché i genitori possano prendersi cura di figlie e figli per tutto il tempo necessario, in modo che chiunque lo desideri possa averne, o farne, nelle migliori condizioni possibili” (cit. “L’aborto, Pauline Harmange” p.97). Infatti, quando gli antiabortisti vogliono che bambine e bambini vengano al mondo indipendentemente dal contesto in cui cresceranno a chi stanno facendo un servizio? Nell’interesse della società, non preferiremmo forse che chiunque possa nascere nel miglior ambiente possibile per affrontare la vita?

È così che la maternità e l’aborto sono strettamente collegate ed è così che la giustizia riproduttiva che diventa anche multispecie perché non può essere slegata dall’ambiente in cui si vive, perché la giustizia riproduttiva è legata strettamente alla riproduzione di ecosistemi e quindi cominciandosi anche a chiedere in che modo la riproduzione umana oggi perseguita tramite il sistema ri/produttivo capitalista, impatta sulla vita di altre specie. 

Riprendere queste narrazioni di maternità potrà portare anche ad un avanzamento della lotta all’aborto per non lasciare gli antiabortisti e le associazioni di aiuto alla vita gli unici che parlano e forniscono sostegno alla maternità. Riprendere le narrazioni sull’aborto a tutto tondo considerando tutte le varie emozioni che ci stanno dietro potrà togliere quello stigma sociale che circonda l’aborto ma serve solo agli interessi del patriarcato, perché non può esistere che la legge ci permette di abortire ma la società ci impedisce di parlarne. Riconoscere che la vergogna e il senso di colpa non sono sentimenti individuali ma esiti della violenza della norma deve aiutare a riprenderci la narrativa sull’aborto in ogni sua forma perché è proprio il patriarcato che fa escludere le questioni che riguardano il corpo della donna dalla sfera sociale ma relegarle al personale. 

È proprio su questi elementi che un ulteriore suggerimento avanzamento della lotta per una giustizia sessuale e riproduttiva lo possiamo prendere dalle femministe degli anni ’70 che hanno deciso di manifestare nelle piazze e di creare una legge per il diritto all’aborto, o come spiega Veronica Gago quando parla delle motivazioni per la quale movimento Ni Una Menos abbia funzionato è proprio perché ha continuato a lottare in due binari paralleli di riforma e rivoluzione allo stesso tempo. 

Oggi come femministe abbiamo smesso di pensare che possiamo anche legiferare per diritti che ci sono tolti perché ne abbiamo paura, perché proporre qualcosa alle stesse istituzioni che andrebbero distrutte e in cui non crediamo ma, in questa società ci viviamo e veniamo ammazzate. Riprendere la forza di essere noi in prima persona a proporre una legiferazione diversa può essere una sfida di abitare anche questa contraddizione, e in un mondo in cui lottiamo affinché ci vengano garantiti diritti di base questo potrebbe portare ad un vero avanzamento. Non per eliminare la potenza delle manifestazioni e del conflitto ma per agire in ogni spazio in cui ne abbiamo la possibilità, per prenderci tutto in ogni modo. Per non lasciare che siano solo i neofondamentalisti ad aver accesso a legiferare, per proporre un’alternativa concreta, per non costruire solo dentro i nostri spazi ma portare la complessità anche fuori.

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