Crisi della democrazia liberale, separazione dei poteri e giustizia digitale

di Gioacchino Toni

Strumenti (devices) digitali, in particolare lo smartphone multifunzione (multitasking), si sono prima impadroniti del nostro tempo libero, e hanno poi progressivamente occupato, presidiandoli sempre più attentamente, tutti i settori cruciali della nostra vita, politica e diritto compresi. Mauro Barberis

Terzo capitolo di una trilogia sul digitale iniziata con Come internet sta uccidendo la democrazia (Chiarelettere, 2020) – in cui viene indagato il ruolo di internet nella crisi della democrazia liberale – e proseguita con Ecologia della rete (Mimesis, 2021) [su Carmilla]– individuata come ambiente di Homo sapiens nel Terzo millennio –, con il nuovo volume Mauro Barberis, Separazione dei poteri e giustizia digitale (Mimesis, 2023), ragionando sul declino delle democrazie liberali occidentali e sulla natura della separazione dei poteri nelle sue diverse versioni – nel giro di tre secoli cambiata tre volte: alla “vecchia”, fondata sul legislativo, si è sovrapposta la “nuova”, basata sull’esecutivo, dunque la “nuovissima”, che punta su giudiziario e autorità indipendenti –, si concentra su come il processo di digitalizzazione – sia come oggetto che come strumento di controllo – abbia inciso e stia incidendo su tutto ciò focalizzandosi sull’ambito giudiziario.

Come oggetto, la nuovissima SP [acronimo di “separazione dei poteri”] estende la propria regolamentazione ai poteri digitali, cercando faticosamente di limitarli. Come strumento di controllo, la vecchia SP in senso stretto, come potere indipendente ma “nullo”, funzionale alla certezza del diritto e dei diritti, parrebbe aver trovato nella giustizia digitale la propria incarnazione ideale. Questa, infatti, devolve la decisione giudiziale, in parte o in tutto, a un giudice automatico, apparentemente più imparziale e prevedibile del giudice umano.

La giustizia digitale tende dunque a presentatisi come giudice “automatico” – derivando da un processo di machine learning di dati archiviati di precedenti decisioni giudiziali –, “imparziale” – ritenuta non soggetta ai pregiudizi umani – e “prevedibile”.

Una volta introdotte le principali problematiche sorte attorno alla diffusione dell’intelligenza artificiale, al massiccio ricorso agli algoritmi e alla giustizia predittiva o digitale, lo studioso problematizza l’introduzione di una “giustizia digitale sostitutiva” ragionando poi, nell’ultima parte del volume, sulla sua legittimità costituzionale.

Ricostruendo l’epopea di internet, Barberis sottolinea come questa si sia sviluppata in una sorta di Far West in balia dei poteri più forti, ossia delle maggiori multinazionali del digitale, società commerciali private spesso nate negli Stati Uniti e domiciliate in paradisi fiscali e operanti in regime di monopolio od oligopolio ponendo seri problemi di tutela dei diritti individuali a proposito di privacy, protezione del consumatore, libertà d’espressione e antitrust.

Barberis ragiona dunque su come arginare l’invadenza delle piattaforme digitali dal punto di vista giuridico, legislativo, giudiziale, amministrativo in alternativa al demandare ciò a una sorta di auto-regolazione. Dal punto di vista legislativo, a una prima fase apertamente neoliberista, soprattutto statunitense, volta a favorire l’industria digitale, ha fatto seguito l’avvento di una legislazione soprattutto europea, una sorta di “costituzionalismo digitale” in buona parte derivato dall’attivismo delle corti europee.

L’autore riporta l’esempio di Neuralink di Elon Musk che ha ottenuto l’autorizzazione a impiantare chip nel cervello umano facendo leva su promesse di ordine sanitario che di certo non eliminano la possibilità di finalità di altra natura che l’Unione Europea intende arginare attraverso l’AI Act vietando i dispositivi elettronici in grado di alterare gli stati emotivi. Sin qui – scrive Barberis – «siamo solo al liberalismo della regola; il liberalismo dei contropoteri c’insegna che anche l’IA Act dovrà poi essere attuato/applicato: e per questo sono decisive l’amministrazione (le agenzie indipendenti) e la giurisdizione (giudici ancor più indipendenti)».

A livello amministrativo le legislazioni sono facilmente eludibili: nel caso di Neuralink è bastato far leva sulle finalità di ordine sanitario per ottenere, dopo qualche tentativo, l’autorizzazione della Food and Drug Administration (Fda) statunitense. A differenza degli USA, in cui è ammessa l’influenza diretta da parte delle aziende (lobbying) sui legislatori, l’Unione Europea, almeno sulla carta, vanta maggiore indipendenza dalle piattaforme digitali.

In effetti, sinché le decisioni giudiziali saranno solo di principio, come nel caso delle Corti europee, o infliggeranno multe miliardarie ma pur sempre risibili, rispetto ai profitti di Big Tech, la via giudiziaria al controllo del digitale avrà gli stessi limiti della SP vecchia e nuova: tutelerà molto più i poteri forti e concentrati delle piattaforme digitali, e molto meno soggetti individuali come gli utenti. Più promettente, semmai, pare la strada delle Autorità indipendenti, già operanti nella nuova SP ma ancor più necessarie per la nuovissima, in particolare per la tutela dei consumatori globali. […] Il processo di digitalizzazione, peraltro, tende a investire lo stesso potere giudiziario: per ora, offrendo solo servizi ausiliari, ma minacciando, prima o poi, di sostituire la giustizia umana. Il giudice automatico, che si va progettando in giro per il mondo, è la nuova sfida interna alla SP di cui dobbiamo ora occuparci.

I motivi che hanno condotto alla crisi della democrazia liberale sono molteplici, da parte sua il volume di Barberis propone una riflessione sull’impatto dello sviluppo digitale su uno dei suoi elementi cardine, la separazione dei poteri, focalizzandosi sull’ambito giudiziario.

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