A pochi giorni dal termine dell’anno il Tribunale Costituzionale Plurinazionale boliviano ha emesso una sentenza inappellabile storica, stabilendo che la rielezione a tempo indeterminato di un candidato non esiste e non può essere considerata un diritto umano. Con questa decisione il caudillo Evo Morales vede chiudersi, forse definitivamente, le porte per la sua candidatura alle elezioni presidenziali del 2025.
Si conclude così una vicenda legale e politica iniziata nel 2016 che ha visto Evo Morales provare a raggirare in tutti i modi la Costituzione da lui stesso redatta e scavalcare i precetti ancestrali della rotazione delle cariche rotazione delle cariche per permettere la sua rielezione a tempo indeterminato, provocando un terremoto nella società boliviana: un estallido sociale seguito a un colpo di stato da parte delle opposizioni di destra e oltre 40 morti a causa della violenza e della repressione scatenatasi nelle strade in quei terribili giorni del novembre 2019.
Come detto, la vicenda iniziò nel 2016 quando Evo Morales, al suo terzo mandato, ma al secondo con la nuova Costituzione scritta sotto la sua presidenza, dispose un referendum popolare per scavalcare quanto scritto nella legge fondamentale dello stato boliviano (che dispone al massimo due mandati per qualsiasi candidato presidente) e garantirsi così la possibilità di essere rieletto. Nonostante fosse all’apice del suo potere e popolarità, il risultato fu sorprendente ma chiaro: oltre la metà della popolazione votò contro la possibilità di cambiare la Costituzione e di dare il consenso per la sua investitura a vita come presidente.
Lo smacco per una sconfitta bruciante e inaspettata non fermò però Evo Morales che appena pochi mesi dopo, nel novembre del 2017, fece ricorso al Tribunale Costituzionale Plurinazionale ottenendo la possibilità di ricandidarsi con una sentenza a lui favorevole che sancì la priorità del “diritto umano” alla rielezione di un candidato, rispetto a quanto scritto nella Costituzione boliviana. Così, Morales si presentò alle elezioni del 2019, in un clima di malcontento e di crescente tensione sia per la sua ricandidatura sia per la pessima gestione degli incendi boschivi particolarmente devastanti quell’anno.
Le elezioni non andarono come sperato per il leader del MAS: con oltre l’80% dei voti scrutinati nel conteggio rapido, parve chiara la tendenza al ballottaggio con l’ex presidente di centro destra Carlos Mesa a incalzarlo, ma proprio a questo punto iniziarono i colpi di scena. Il sistema di conteggio rapido si bloccò per quasi un giorno e quando riprese, Morales figurò in testa con un 0,11% in più che gli avrebbe permesso di diventare presidente per la quarta volta al primo turno.
L’incredibile cambio di tendenza scatenò la rabbia dei cittadini boliviani che a migliaia scesero in strada a manifestare contro quelli che ritenevano essere dei brogli da parte del presidente. Nonostante una narrazione pubblica fin da subito polarizzata, la realtà fu ben più complessa e a scendere in strada non furono solo i gruppi estremisti e razzisti di destra, ma anche e soprattutto una buona parte della società civile e delle organizzazioni sociali contrari alla sua rielezione.
Il resto è storia. Evo Morales, e il suo vice Gárcia Linera, rassegnarono le dimissioni nella speranza di uscirne da vittime e poter riprendere velocemente il controllo dello Stato, ma del vuoto di potere ne approfittarono le opposizioni e la destra fascista di Santa Cruz con Fernando Camacho in testa che, bibbia alla mano, entrarono a Palacio Quemado a La Paz bruciando la wipala mentre Evo Morales fuggiva in Messico.
Ci volle un anno per riportare una “calma” apparente. Il governo provvisorio di Jeanine Añez, incapace di gestire la pandemia e la tensione sociale alle stelle, fu costretto infine ad indire nuove elezioni che si svolsero nell’ottobre 2020 e videro la vittoria dell’ex delfino di Evo Morales e suo ministro dell’Economia Luis Arce, e il ritorno del MAS al potere. In questi tre anni però le strade del presidente Luis Arce e di Evo Morales si sono allontanate moltissimo mostrando una ferita che sembra insanabile all’interno del MAS e che questa sentenza sicuramente contribuirà ad approfondire, squarciando in modo forse irrecuperabile il movimento indigeno tra la fazione “evista” e quella “arcista”.
La reazione di Evo Morales alla sentenza è stata durissima. Attraverso i suoi canali social, l’ex presidente ha attaccato l’impero e il governo boliviano: «La sentenza politica del TCP autoprorogato [i cui membri sono stati però nominati sotto il suo ultimo governo] è la prova della complicità di alcuni magistrati con il Piano Nero che il governo esegue per ordine dell’impero e con il complotto della destra boliviana». Alcuni giorni dopo, nella sua trasmissione su Radio Kawsachun Coca, come riporta il quotidiano El Deber, ha dichiarato che la sua rielezione non è in dubbio, interpretando a modo suo la sentenza del tribunale: «Evo continua ad essere abilitato, questa è la mia interpretazione. Né la commissione politica dello Stato né il parere consultivo stabiliscono alcuna limitazione per la rielezione discontinua».
La sentenza del Tribunale Costituzionale Plurinazionale oltre a sancire l’inabilitazione di Evo Morales chiude anche la diatriba sul golpe, sancendo che fu proprio a causa della sua ostinazione a perpetuarsi al potere violando la Costituzione e calpestando i precetti ancestrali e la volontà popolare a scatenare l’insurrezione grazie alla quale la destra fascista boliviana potè approfittarne e mettere in pratica il golpe. Dettagli, per un uomo sempre più ossessionato dalla presa, e mantenimento a vita, del potere.