di Franco Pezzini
Vernon Lee, Santi e Diavoli. Tre racconti italiani, trad. di Elena Tregnaghi, pp. 124, € 13,90, CSA, Castellana Grotte 2023.
Da qualche tempo l’editoria italiana mostra, pur con misura, un maggiore interesse per l’opera di Vernon Lee. All’inizio trovavamo qualche racconto sperso tra antologie del fantastico e piccole raccolte in cataloghi eleganti (Sellerio, Passigli, Guanda…), singole memorie e studi saggistici: poi lentamente ecco l’approdo a collane popolari, con l’arrivo nel 2023 di ben tre belle edizioni (CSA, Vallardi, Agenzia Alcatraz) votate – pur non esclusivamente – al grande pubblico. Almeno un paio di queste meritano discorsi mirati.
All’anagrafe Violet Paget (1856-1935), l’autrice – inglese nata in Francia e vissuta a lungo in Italia – già mostra un’appartenenza plurale che rende difficile porre etichette. E ancor meno quanto al target: per le sue storie sovrannaturali la categoria “ghost story” funziona fino a un certo punto, e in compenso l’arte – un amore per l’arte che è nello sguardo con cui descrive il mondo, dal più umile degli orti agli oggetti liturgici più raffinati, ai quadri carichi d’infestazione, agli spazi urbani non importa quanto trasfigurati o decaduti – è ovunque. Discepola di Walter Pater, lo è anche nelle fantasie narrative, alla scuola dei suoi febbricitanti Ritratti immaginari, ma con un passo diverso e spesso più dolce. Se poi aggiungiamo i suoi scritti saggistici di arte e cultura, musica e viaggio, e le posizioni schierate che la fanno amare (femminista, pacifista e antimilitarista anche negli anni scomodi della Prima guerra mondiale) ma al tempo le procurarono avversioni e ostilità, ci rendiamo conto della straordinarietà di questa piccola donna sensibilissima, titana assoluta dello stile e di raffinata sottigliezza interiore. L’eleganza dei suoi racconti resta non solo pienamente apprezzabile oggi per la finezza dell’analisi psicologica (una camera con vista sui dedali interiori di rara efficacia), ma capace di portare nell’orrore sovrannaturale in letteratura – a usare la definizione di Lovecraft – una genuina e rara dimensione di Bellezza.
Risultati singolari sono in effetti per esempio quelli del prezioso trittico in esame, programmato nella collana “Le crisalidi” a cura dell’attivissimo Giorgio Leonardi: testi classici che riemergono dal buio, come questi tre racconti traghettati in italiano per la prima volta. Oltretutto con una traduzione bellissima – va senz’altro sottolineata per freschezza e intelligenza – a cura di Elena Tregnaghi (già illustratasi anni fa per aver volto in italiano l’ultimo romanzo di Mary Shelley, Il segreto di Falkner, e nota per altro verso come fotografa artistica).
I testi raccolti (editi in inglese tra il 1904 e il 1906) sono appunto tre, di un filone particolare della produzione di Lee. Innamorata delle narrazioni, tra agiografico e fiabesco, presenti nella tradizione devota italiana, l’autrice ne reinventa alcune in chiave di apocrifi, valorizzando il Perturbante di tali storie miracolistiche – quello che in fondo aveva fatto sognare già il vecchio Walpole. Laddove il passo un po’ surreale e tenerissimo di Vernon in questi racconti, ironico e a tratti venato di lieve sarcasmo, appare connotato qui e là da stigmi d’inquietudine: quel sentore sinistro che riverbera nel nonsenso onirico, e offre del Male una chiave peculiare, disturbante e solo illusoriamente prevedibile. Accanto al santo – quello popolare che l’istituzione ecclesiastica fatica a comprendere nelle sue gabbie di canoni e teologia, e che sa far fruttare una propria peculiare beatitudine poco disciplinata – c’è ovviamente il diavolo, nella pluralità cialtrona dei suoi mascheramenti. Compresi quelli delle più sottili riserve mentali, dei dedali interiori che solo con la bussola del cuore possiamo superare. Ovviamente, al netto dell’ironia dell’autrice, che gioca con la storia della cultura, vediamo emergere sullo sfondo un certo devozionismo di sentimenti che appartiene al linguaggio dell’Ottocento: ma sullo scarto tra regole chiesastiche e genuina umanità l’autrice provoca in un modo ancora interessante per l’oggi. Quando per esempio rigorosissimi cardinali teologi (quelli in genere che piacciono tanto a il Giornale) criticano l’emergere di utilizzi non troppo tradizionali di alcuni sacramentali, senza provare la vergogna di averli spesi per secoli a benedire tradizionalmente eserciti, cannoni e stragi.
Attenzione, segue qualche spoiler. Il primo racconto, il delizioso “Suor Benvenuta e il Bambin Gesù” (1905, apparso in precedenza non in italiano ma in veneziano nel 1910 all’interno del periodico Nuova antologia di lettere, scienze ed arti), muove attorno a uno strano spettacolo di marionette all’interno di un convento a Cividale del Friuli. La protagonista Benvenuta Loredan – virtualmente morta nel 1740 – è una povera in spirito nel senso delle Beatitudini matteane: una giovane suora spentasi in odore di beatitudine per cui forse l’autrice pensa alla “piccola via” di Teresa di Gesù Bambino, la santa di Lisieux autrice dell’autobiografica Storia di un’anima (edita postuma nel 1898 – pochi anni prima – con un certo clamore: anche qui c’è un diario della religiosa). Tra bamboleggiamenti e toni naïf persino più marcati di quelli d’un certo tipo di devozione popolare, Benvenuta dedica a una statuetta di Gesù Bambino attenzioni tali da farla considerare corta di cervello – “Sono una gran babbea”, proclama lei stessa. E invece, sintetizza Leonardi, “al supposto deficit mentale fa riscontro senz’altro un’amplificazione del cuore”: a ciò si collega anche lo scarso timore di Benvenuta nei confronti del diavolo, una cui lugubre marionetta conduce un gioco allegro al convento. Il finale suggerirà che qualcosa di sottilmente allarmante potesse effettivamente associarsi all’icona-marionetta, e sia stato sconfitto dalla piccola beata.
“Papa Giacinto”, costituente “una sezione del Codex Eburneus della soppressa Abbazia di Nonantola”, si colloca nell’ampio leggendario dei papi inesistenti, tra equivoci storici – da Giovanni XX, in realtà assente per errore di numerazione, al papa-refuso Dono II, dal «Dom(i)nus» del successivo, alla fantomatica papessa Giovanna – e libere fantasie letterarie. In una Roma forse altomedioevale di basiliche, marmi e mosaici Giacinto, al secolo Odo, è di nuovo un puro che Satana, pubblico ministero alla corte divina come nel veterotestamentario Giobbe, mette alla prova nel segno del paradosso. Il diavolo, che conosce corpi e anime ma non i cuori, riceverà una lezione.
La vicenda di “Sant’Eudemone e il suo albero di arancio”, che non si trova – riporta il testo sornione – nelle raccolte agiografiche riconosciute, risale a milleduecento anni prima che la narrante la apprenda sul luogo del miracolo. Eudemone è, quasi etimologicamente, un buon diavolo con un approccio pre-francescano alle cose, e viene giudicato con sufficienza da altri due santi – il teologo Carpoforo e lo stilita Ursicino, tanto simili a certi arcigni cardinali dell’oggi (torniamo virtualmente al Giobbe, e agli amici devoti e supponenti del protagonista): tanto più quando compare una statua di Venere estremamente restia a restituire un vecchio anello di Eudemone. Difficile non vedere una sorta di citazione del crudele, elegantissimo e inquietante “La Venere d’Ille” di Prosper Mérimée (1837), anche se il tema di lì è stato ripreso spesso (basti pensare a “L’ultimo dei Valerii” di un grande interlocutore di Vernon Lee, Henry James – 1873-74, rivisto 1875 e in ultimo 1885): ma il finale qui è ben diverso e più sereno. Senza raccontarlo per non sciuparne la sorpresa, merita notare il diverso comportamento verso “Sorella Venere” di Eudemone e dei due santi colleghi, esponenti di un cristianesimo del corruccio, scarsamente evangelico, purtroppo non estinto – a rifarsi al calendario di Vernon Lee – milletrecento anni orsono.
(1-continua)