Udii una voce (parte quarta)

di Francisco Soriano

Giuseppe Ungaretti, nella premessa scritta alla silloge poetica di David Maria Turoldo Udii una voce, così sottolinea:

la poesia di Davide Turoldo è poesia che scaturisce da maceramento per l’assenza-presenza dell’Eterno, presenza in tortura di desiderio, assenza poiché dall’Eterno ci separa l’effimero nostro stato terreno, al quale tiene tanto la nostra stoltezza.

Come spesso accade nella poesia di Turoldo, alcuni versi introducono l’intera raccolta con postulati che gettano il lettore in una malinconica e un’intima attesa: Non per me il pulito verso. / Uno scabro sasso la parola / nelle mie mani. / Intanto che gli affetti dissepolti / marciscono come foglie staccate / dalla pianta. Questi i miei giorni vuoti di pudore, / i miei canti senza note / la verità senza amore. Anche in questa occasione la negazione, in una funzione argomentativa, è l’ammissione di una condizione opposta, che avviene alla stregua di un vuoto, fra canti senza note e verità senza amore. Nell’assenza infatti si sperimenta senza veli quanto sia fugace-inutile-apparente un esistere lontano dal concepimento dell’eterno, dell’irripetibile, del sorprendente. Canti della solitudine ma anche racconto della nostra stoltezza, inappagante status misto a vanità ed effimera soddisfazione: testi forse rivolti a chi è oceano oscuro / in onda esausta sulla rupe / in un risucchio agli argini.

In Turoldo stupefacente è la parola, momento-spazio-contenuto, non solo segno che assolve in pieno al tentativo di uno smascheramento, che funge da metodo e processo analitico, che compie la sua iperbole schiantandosi nel dubbio e nell’arcano. Così specificava Turoldo nella sua autobiografia, parlando dell’ispirazione di Pascal nella scrittura de Il Grande Male: in quanto il mio timore fondato circa questa nostra civiltà non è tanto il viaggio dal Nulla verso il Tutto quanto, per inversione di marcia, un andare – se non è anche un precipitare – verso il Nulla. Noi moriremo perché adoriamo cose da nulla, i nostri sono gli dei del Nulla, il Grande Vuoto. Questa onnivora passione del Nulla.

Dunque la domanda di Turoldo è a cosa affidare “la vittoria finale sul nulla”. Egli narra della sua relazione e del suo dialogo quasi quotidiano sulla morte, soprattutto sul problema di che cosa sia e di quanto si “ami” la morte stessa. Nello stesso tempo, in modo speculare, gli stessi quesiti vengono posti per il senso della vita, definita come questo grido senza eco lanciato sull’infinito. E proprio questo è il punto sulle difficoltà di percorrere le strade che ci conducano verso soluzioni almeno soddisfacenti, perché senza il confronto, il dubbio e le asperità che produce, a nulla è possibile giungere: ogni proposito sarà vano, imperfetta ogni decisione, e quindi sbagliata. La consapevolezza che ogni bagliore di grazia come ogni disperazione saranno al tempo stesso legittimi e vani. Per descrivere questo stato di cose, Turoldo narra con la solita immane forza poetica, seppure in prosa autobiografica, la condizione di questa “traversata” che è l’esistenza nel quotidiano: tutti felici e sempre inquieti: appunto, con la gioia nel cuore e “con la morte sulle braccia”, con la cenere posata sulle stesse parole che cantano la gioia, con i denti legati di cenere appena tu assapori i frutti dell’albero. Ecco la sintesi impossibile, il vero e il vano insieme, la vita con le sue pulsazioni e il nulla profondo che ci getta in un vortice di ambigua permanenza. Dunque, che rimane? Turoldo dice a chiare lettere e senza dubbio di sorta che la poesia è salvezza.

Nell’analisi sulla funzione del cantare poetico, Turoldo argomenta con la perizia di un uomo di fede le proprie convinzioni. Come premessa al suo dissertare, afferma infatti che una qualsiasi fede non basta. Qual è l’origine della poesia? Da dove nasce? La risposta in apparenza semplice nasconde invece complessità, perché è proprio nel modo di credere che si ritrova il senso e anche una discriminante per chi intende narrare in poesia: ogni poeta si distingue da un altro per il suo peculiare e inconfondibile modo di credere. Di più: là dove mette in atto la sua fede, lì è inconfondibile poeta; tutto il resto finisce nel generico, nell’ammasso lirico; finisce nella confusione letteraria del “de comune”. In questa verità chiara e incontestabile ritroviamo il senso del nostro poetare, ma anche il giudizio che diamo a noi stessi nella ricerca di una dignità nello scrivere che si ottiene con lo studio, l’onestà, vivide lacerazioni e vorticose gioie. Turoldo sottolinea che la prima cosa da chiedere a un poeta è in cosa crede, al fine di sentire cosa e come canti!

Lungi dal ritenere la fede come qualcosa di legato indissolubilmente a un credo religioso specifico, la sua dimensione risiede in una visione cosmica, che Turoldo definisce come intuizione. La fede è, infine, stato di grazia, bagno nel mistero, partecipazione di tutto l’essere all’essere del mondo: fede come discesa al regno delle madri, come folgorazione dentro il lampo della notte, dentro la tempesta: per cui tu vedi le cose mentre si inceneriscano le pupille. Fede come immersione nel noumeno. Perciò nessuno parli mai di un poeta ateo. Se è ateo non può essere poeta. Ateo sarà perché rifiuta un Dio che non c’è; allora anche io sono ateo.

Non è importante per Turoldo credere in Dio o meno, soprattutto è necessario dargli un volto, un nome, una croce. Semmai sia possibile, questo è ancora il punto cruciale, un concetto di Dio che resista al vaglio della ragione. Qual è il nome da dargli? È possibile l’interscambio degli opposti? Quella che il mistico definisce come concordia oppositorum, alla stregua di un oceano dove precisamente il naufragare è dolce? È allora il momento in cui specificare che nella ricerca del senso delle cose e della loro stessa sintesi è Dio l’infinito, non solo cosmico, e che potrebbe essere il silenzio primordiale o il suono, o la Parola generata dal silenzio: Verbo, logos, che vuol dire intellegibilità dell’essere, fonte della coscienza del mondo. Dunque il dramma che viene generato consiste nell’intervento del Tutto, in forma di Dio e di essere assoluto che, nello stesso suo esistere, postula subito come limite necessario: il Nulla. Il Nulla assolve infatti alla sua funzione, è necessario quanto l’Essere e il Tutto perché davanti al Nulla il Tutto afferma se stesso e dal Nulla trae tutte le cose: esso è il limite di demarcazione fra noi e Lui, fra Lui e la creazione che continua a fiorire dal suo essere, a fiorire e a morire. Noi di qua dal limite e Lui di là, nel suo essere, a fare argine: a tenerci sempre in vita con l’attrarci sempre a sé e, a un tempo, partecipandoci la sua stessa voluttà d’essere: Lui senza mai poter comunicarsi tutto a noi, noi senza mai riuscire totalmente a essere in Lui, essendo quel limite invalicabile. Sta qui anche il mistero di un’eucarestia; in vista di un’impossibile traversata del Nulla.

Ma dobbiamo illuderci. / Onde poter durare. / Ah, forse io non credo / che per gli altri, / io devo consolare / e cibarmi dell’altrui pena. / Sono un pugno di terra / viva; ogni parola / mi traversa / come una spada: è così che David Maria Turoldo canta in poesia un dolore cristallino, puro come la gioia, consapevole della spada che gi attraversa il cuore senza ucciderlo, lui pugno di terra viva, a sublimare la parola sulle pendici dell’Eterno.

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