Ho dovuto aspettare tre mesi dall’inizio della guerra per tornare in Palestina e, durante questo periodo, ho sentito quotidianamente i miei contatti ed i miei amici in Cisgiordania, Gerusalemme e, per quanto possibile, anche a Gaza sempre più isolata dal resto del mondo.
Mi aspettavo di trovare una situazione di vita quotidiana peggiorata, ed in effetti questo è lo scenario che mi si sta prospettando davanti ora dopo ora, incontro dopo incontro.
L’ingresso è stato possibile solo attraverso la lunga trafila di controlli e attese del valico di Allenby, dalla Giordania, insieme alle centinaia di palestinesi per i quali quella è l’unica via d’accesso e d’uscita per poter viaggiare, ma solo se sono autorizzati dall’esercito israeliano. Dall’aeroporto di Tel Aviv si entra con difficoltà.
Percorrendo il valico di Allenby si arriva a Jericho e, attraversando la valle del Giordano invasa dalle colonie che sottraggono acqua e risorse ai pochi villaggi palestinesi e accampamenti beduini rimasti, con un taxi collettivo, sono arrivato a Ramallah, capitale “de facto” della Palestina, in area A quindi sotto il controllo amministrativo e militare dell’Autorità Palestinese. Qui, negli ultimi anni, la percezione dell’occupazione militare era minore rispetto ad altre zone, per lo meno nella quotidianità. Adesso, invece, anche i piccoli gesti come portare i propri figli a scuola o uscire la sera sono diventati impossibili e pericolosi.
Jamal (nome di fantasia) che mi ha ospitato a casa sua, continua a ripetermi che la prospettiva è focalizzata sull’oggi e il domani è incerto e fa paura. Stamattina aveva preparato sua figlia per portarla a scuola ma, mentre stavano uscendo di casa, una telefonata le ha avvertite che la strada che collega Ramallah a Birzeit è stata interrotta.
“Oggi niente scuola! Gli israeliani hanno chiuso il cancello. Mi dispiace non rivedere i miei amici dopo le vacanze, ma meglio così che restare bloccati dentro senza sapere cosa sta succedendo in strada, come il mese scorso quando hanno ucciso un signore proprio davanti alla mia scuola!” mi racconta con grande lucidità la figlia di 7 anni.
La notte precedente l’esercito israeliano era entrato in pieno centro città effettuando un raid durante il quale hanno arrestato tre persone e ferito una.
Il centro di Ramallah, che solitamente pullula di gente, è stranamente semi-deserto e nelle parole dei suoi abitanti ritrovo solo sentimenti di sconforto e insicurezza. Tuttavia, forse grazie anche alla consapevolezza di trovarsi ancora in una zona più sicura di altre, anche quando mi raccontano che ormai la loro vita è più che in passato decisa dall’esercito occupante, nei loro occhi scorgo ancora il tipico “sumud” palestinese.
Nelle caffetterie le persone continuano ad incontrarsi, ma la TV è sempre sintonizzata su Al Jazeera e l’unico argomento di conversazione è la guerra e la conta dei morti. A 25 Km ad ovest di Ramallah c’è un villaggio prevalentemente agricolo che si chiama Bi’Lin. Negli ultimi vent’anni gli abitanti di questo villaggio sono stati, loro malgrado, protagonisti della resistenza al progetto espansionistico delle colonie attorno e del muro di apartheid, il cui percorso avrebbe dovuto cancellare Bi’Lin dalle mappe.
Raggiungo Mohammed Khatib nella sua casa all’ingresso del villaggio. Beviamo un caffè insieme e mi mostra con orgoglio i muratori che stanno ultimando l’appartamento per il figlio che si sposerà tra qualche mese. Poi saliamo sulla sua auto e, passando accanto alla sua azienda agricola e a quelle vicine, raggiungiamo un grosso albero d’ulivo vicino ad una recinzione di filo spinato.
“Dopo il 7 ottobre non possiamo più avvicinarci alle aree limitrofe alle colonie. I coloni prima erano protetti dall’esercito, mentre adesso sono diventati essi stessi l’esercito! C’è stata un’escalation delle violenze e sappiamo che se ci avvicinassimo, ci sparerebbero immediatamente. Fino a tre mesi fa la nostra battaglia di resistenza per il diritto ad esistere era supportata dalla presenza degli internazionali che venivano ad aiutarci e restavano insieme a noi, adesso non possono più arrivare. Avevamo raggiunto dei risultati importanti, deviando il percorso del muro di apartheid ed arginando in parte l’espansione delle colonie. Se siamo ancora qui è solo grazie alla nostra caparbietà nella lotta di resistenza. Oggi sono questi alberi d’ulivo i nostri avamposti in questa battaglia, finché sono lì al loro posto sappiamo che resteremo qui anche noi! L’inizio della guerra ha evidentemente tolto forza alla nostra lotta; rischiare di farci uccidere sarebbe strategicamente poco intelligente. A chi interesserebbero altri due o tre morti palestinesi in questo momento? Dobbiamo solo sperare in una de-escalation, ma tutto sta diventando più complicato e non riusciamo ad avere una prospettiva a lungo termine”.
Proseguendo lungo i filari d’ulivo arriviamo nel punto in cui, nel 2009, il giovane Bassem è stato ucciso da una granata lanciata da un militare israeliano durante un presidio contro la costruzione del muro. Una grande targa commemorativa con la sua foto ed una poesia è posta nel luogo in cui Bassem è morto. La granata che l’ha colpito ha contemporaneamente bruciato il tronco dell’ulivo sotto al quale il giovane trovava riparo, stroncando anche la vita della pianta. La comunità in lotta di Bi’Lin ha simbolicamente piantato un nuovo albero d’ulivo all’interno di quello morto, che sta crescendo più rigoglioso e forte del precedente.
“Questi siamo noi, è così che funziona il nostro legame con questa terra che amiamo!” ribadisce Mohammed.