A Betlemme è da poco passato il Natale, anche quello ortodosso che si festeggia a inizio gennaio. Con la pioggia ed il cielo grigio, il muro alto 8 metri a ridosso della città sembra ancora più minaccioso ed imponente. Credo che non mi riuscirò mai ad abituare alla sua presenza e probabilmente è la stessa sensazione che provano i palestinesi che vivono qui. La mia speranza è quella di riuscire a vederlo cadere un giorno non lontano. Al “checkpoint 300” ci sono soltanto una decina di persone in fila, davvero pochissime rispetto a prima del 7 Ottobre. Lungo la strada che conduce alla Basilica della Natività una lunga fila di taxi gialli sono vuoti e parcheggiati. Non ci sono turisti, pellegrini, né lavoratori a chiedere una corsa, e siamo in un giorno lavorativo!
Faccio una sosta a comprare un caffè al chioschetto lungo la strada, poi mi incammino dentro al campo profughi di Deisheh. Un gruppo di ragazzini adolescenti fa subito capannello e mi chiedono cosa ci faccia qui. Da diversi mesi non vedono, infatti, uno straniero. Continuo ad aggirarmi per le strade del campo fino a raggiungere il centro Ibdaa, un altro dei luoghi che ha ospitato la nostra ultima carovana in Palestina nel 2022.
Il centro Ibdaa 1948, nel cuore del campo di Deisheh, è nato negli anni ‘80 e funge da faro di speranza e creatività. Offre ai giovani un luogo dove esprimersi, imparare e crescere, contrastando le sfide quotidiane con iniziative culturali e educative. Questi spazi sono essenziali per mantenere viva l’identità palestinese e per offrire un senso di normalità e opportunità in un ambiente altrimenti difficile.
Un luogo come questo rappresenta più di un semplice punto di incontro; è esso stesso simbolo di resistenza e preservazione culturale, in un contesto dove l’identità e la memoria sono costantemente messi alla prova.
Al centro Ibdaa ho appuntamento con Ali (nome di fantasia). Gli chiedo immediatamente come sia cambiata la sua vita e quella delle altre famiglie del campo. “Siamo circondati da checkpoint attorno a Betlemme. Le strade sono chiuse o, se si può uscire, ci sono dei controlli che ci fanno passare qualsiasi voglia” mi racconta. “Non ci chiedono più la carta d’identità come prima cosa, ma il cellulare. È un pretesto semplice per eseguire arresti arbitrari, perché puoi essere arrestato in detenzione amministrativa per un like ad un post sui social network o perché segui un canale Telegram. A proposito di Telegram, ti conviene avere l’app installata sul telefono o ti accusano di star nascondendo qualcosa, com’è successo a mio cognato la scorsa settimana. È finito nei guai per sei ore, preso a schiaffi dai militari dentro una stanzetta!”
La detenzione amministrativa prevede che un individuo sia detenuto sulla base di motivi di sicurezza, che non possono essere sottoposti a ricorso. Tale pratica consente l’incarcerazione arbitraria senza procedimenti legali standard. Da decenni è uno strumento di repressione largamente utilizzato da Israele nei confronti dei palestinesi e, prima del 7 ottobre i palestinesi detenuti con questa procedura nelle carceri israeliane erano oltre 1200, molti dei quali minori. Dopo il 7 ottobre, le autorità israeliane hanno aumentato notevolmente l’uso della detenzione amministrativa in tutta la Cisgiordania, arrestando circa seimila persone in tre mesi. Gli arresti sono aumentati anche qui a Deisheh, ogni famiglia ha almeno una persona che è attualmente in prigione o lo è stata. I raid dell’esercito avvengono quasi esclusivamente la notte ed hanno una frequenza ed un impatto imprevedibili; delle volte entrano nel campo centinaia di soldati per 3 o 4 notti di fila e spaventano l’intera popolazione, effettuando svariati arresti, altre volte un piccolo commando si dirige in una casa per eseguire un arresto mirato. Nessuno è al sicuro, soprattutto i maschi adolescenti.
“Oltre ai militari, adesso abbiamo ancora più paura che in precedenza di muoverci per la presenza dei coloni, che sono armati fino ai denti e si sentono legittimati di darci la caccia”, continua ancora Ali. “E poi non c’è più lavoro! La maggior parte delle famiglie del campo di Deisheh lavorava in Israele con degli appositi permessi. Dopo il 7 Ottobre ci hanno detto di restare a casa.” Quello dei lavoratori palestinesi in Israele è un tema che è sempre stato rilevante.
Questi lavoratori, spesso impiegati in settori come l’edilizia, l’agricoltura ed i servizi, trovano opportunità economiche di sostentamento in Israele, per i quali rappresentano una risorsa di competenze a basso salario. D’altro canto, nei Territori Occupati le possibilità di lavoro sono molto limitate ed insufficienti a causa dell’occupazione militare. Si è creata, così una dipendenza economica a senso unico. “Ci siamo fermati noi e di conseguenza gli introiti delle nostre tasse nelle casse dell’Autorità Palestinese si sono azzerati” prosegue Ali. “Noi non lavoriamo più e abbiamo fermato un indotto derivante dal nostro lavoro. I lavoratori di Deisheh in Israele erano all’incirca mille, che si traduce nella sussistenza di un quinto delle famiglie del campo. Ma anche il tassista e la sua famiglia erano dipendenti dal movimento dei lavoratori verso il checkpoint 300. C’erano poi i lavoratori che continuavano a lavorare in Cisgiordania, ad esempio per costruire o ristrutturare le case degli impiegati in Israele o i professionisti ai quali ci rivolgevamo per dei servizi, i commercianti che vendevano qualsiasi genere alle nostre famiglie e così via. L’economia si è paralizzata e i soldi sono finiti rapidamente”.
Ali mi ricorda, poi, che ci troviamo a Betlemme, luogo di culto e pellegrinaggio per i cristiani di tutto il mondo. “Dal 7 ottobre il turismo è fermo ed almeno il 10% di noi lavorava in quel settore!”
“Abbiamo preso ancora più consapevolezza di come la nostra vita dipendesse dall’occupante israeliano. Non abbiamo mai avuto la possibilità di vendere i prodotti della nostra terra o i manufatti del nostro artigianato all’estero senza passare dall’intermediazione di Israele. Controllano tutto, dal commercio alle risorse, come l’acqua che ci è sempre stata fornita in maniera razionata per 2 o 3 giorni al mese, durante i quali dobbiamo raccoglierla in delle apposite cisterne e stare attenti a non esaurirla.” Questo è un problema che nelle colonie attorno non conoscono.
Vado a letto chiedendomi che cosa succederà stanotte.