Alastair Crooke
strategic-culture.su
Gli Stati Uniti si stanno avvicinando alla guerra con le Forze di Mobilitazione Popolare irachene, un’agenzia di sicurezza statale composta da gruppi armati, alcuni dei quali vicini all’Iran, ma soprattutto da nazionalisti iracheni. Mercoledi scorso, a Baghdad, gli Stati Uniti hanno ucciso con un drone tre membri della forza Kataeb Hizbullah, tra cui un comandante anziano. Uno dei tre, al-Saadi, è il funzionario più alto in grado assassinato in Iraq dopo l’attacco del 2020 che aveva ucciso il comandante iracheno al-Muhandis e Qassem Soleimani.
L’obiettivo è sconcertante, poiché, più di una settimana fa, Kataeb aveva sospeso le sue operazioni militari contro gli Stati Uniti (su richiesta del governo iracheno). La sospensione era stata ampiamente pubblicizzata. Allora, perché questa figura di spicco è stata assassinata?
Le torsioni tettoniche spesso sono innescate da un’unica azione eclatante: l’ultimo granello di sabbia che, sommato agli altri, innesca lo scivolamento, rovesciando il mucchio di sabbia. Gli iracheni sono arrabbiati. Sentono che gli Stati Uniti violano in modo sconsiderato la loro sovranità e mostrano disprezzo e sdegno per l’Iraq, una civiltà un tempo grandiosa e ora ridotta in rovina dalle guerre americane. Sono state promesse ritorsioni rapide e collettive.
Basta un singolo atto e può nascere un vortice. Il governo iracheno potrebbe non essere in grado di controllare gli eventi.
Gli Stati Uniti cercano di separare e compartimentare i diversi problemi: il blocco del Mar Rosso da parte di AnsarAllah è “una cosa”; gli attacchi alle basi statunitensi in Iraq e Siria, un’”altra” non correlata. Ma tutti sanno che questa separazione è artificiale: il filo rosso che attraversa tutte queste “questioni” è Gaza. Per la Casa Bianca (e Israele), tuttavia, il filo conduttore sarebbe invece l’Iran.
La Casa Bianca ci ha pensato bene o il suo ultimo assassinio è stato una sorta di “sacrificio” per placare gli “dei della guerra” nella Beltway, gli stessi che chiedono a gran voce di bombardare l’Iran?
Qualunque sia il motivo, il vortice gira. Sono in corso altre dinamiche che saranno alimentate dall’attacco.
The Cradle evidenzia un cambiamento significativo:
“Ostacolando con successo il passaggio dello stretto di Bab al-Mandab da parte delle navi israeliane, il governo di Sanaa, guidato da Ansarallah, è emerso come un potente simbolo di resistenza in difesa del popolo palestinese – una causa profondamente popolare tra i diversi gruppi demografici dello Yemen. La posizione di Sanaa è in netto contrasto con quella del governo di Aden, sostenuto dall’Arabia saudita e dagli Emirati, che, il 12 gennaio, con orrore degli yemeniti, ha dato il benvenuto agli attacchi delle forze statunitensi e britanniche”.
Gli attacchi aerei statunitensi e britannici hanno provocato alcune importanti defezioni interne… Alcune milizie yemenite precedentemente allineate con gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita sono passate ad Ansarallah… La disillusione nei confronti della coalizione avrà profonde implicazioni politiche e militari per lo Yemen, ridisegnando le alleanze e proiettando gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita come avversari nazionali”. La Palestina continua a fungere da cartina di tornasole rivelatrice in tutta l’Asia occidentale – e ora anche nello Yemen – smascherando coloro che rivendicano solo retoricamente il mantello della giustizia e della solidarietà araba”.
Diserzioni militari in Yemen – Come può essere importante?
Gli Houthi e AnsarAllah sono diventati eroi in tutto il mondo islamico. Guardate i social media. Gli Houthi sono diventati il “mito”: difendono i palestinesi mentre gli altri non lo fanno. Ci saranno delle conseguenze. La posizione “eroica” di AnsarAllah potrebbe portare all’estromissione dei proxy occidentali e quindi a dominare il “resto dello Yemen”, che attualmente non controlla. Cattura anche l’immaginario del mondo islamico (e la cosa preoccupa l’establishment arabo).
All’indomani dell’assassinio di al-Saadi, gli iracheni sono scesi in piazza a Baghdad cantando: “Dio è grande, l’America è il Grande Satana“.
Non pensate che questa “svolta” sia sfuggita agli altri – all’Hashd al-Sha’abi iracheno, per esempio; o ai (palestinesi) della Giordania; o ai soldati di leva dell’esercito egiziano; o nel Golfo. Oggi ci sono 5 miliardi di smartphone. La classe dirigente segue i canali arabi e guarda (nervosamente) i social media. Temono che la rabbia contro la violazione del diritto internazionale da parte dell’Occidente possa esplodere e di non essere in grado di contenerla: qual’è ora il prezzo dell’”Ordine basato sulle Regole”, da quando la Corte Internazionale di Giustizia ha stravolto la nozione di contenuto morale della cultura occidentale?
L’erroneità della politica statunitense è sorprendente – e ora ha addirittura rivendicato il principio più centrale della “strategia Biden” per risolvere la crisi a Gaza. L’”esca” della normalizzazione tra Arabia Saudita ed Israele è stata vista in Occidente come il perno attorno al quale Netanyahu sarebbe stato costretto a rinunciare al suo mantra massimalista del controllo della sicurezza dal fiume al mare, oppure sarebbe stato scavalcato da un rivale, per il quale l’”esca della normalizzazione” avrebbe avuto il fascino di una probabile vittoria alle prossime elezioni israeliane.
Il portavoce di Biden è stato esplicito a questo proposito:
“[Noi] … stiamo discutendo con Israele e l’Arabia Saudita … per cercare di portare avanti con un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita. Anche queste discussioni sono in corso. Abbiamo certamente ricevuto un feedback positivo da entrambe le parti che sono disposte a continuare queste discussioni”.
Il governo saudita – forse arrabbiato per il ricorso degli Stati Uniti ad un linguaggio così ingannevole – ha subito fatto mancare l’appoggio alla piattaforma Biden: ha rilasciato una dichiarazione scritta in cui conferma inequivocabilmente che: “non ci saranno relazioni diplomatiche con Israele a meno che non venga riconosciuto uno Stato palestinese indipendente sui confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale, e che cessi l’aggressione israeliana nella Striscia di Gaza – e che tutte le forze di occupazione israeliane si ritirino dalla Striscia di Gaza“. In altre parole, il Regno sostiene l’Iniziativa di Pace araba del 2002.
Naturalmente, nessun israeliano potrebbe fare campagna elettorale su questa piattaforma alle prossime elezioni in Israele!
Ricordiamo che Tom Friedman aveva illustrato il modo in cui la “Dottrina Biden” avrebbe dovuto essere integrata in un insieme interconnesso: in primo luogo, assumendo una “posizione forte e risoluta nei confronti dell’Iran“, gli Stati Uniti avrebbero segnalato ai “nostri alleati arabi e musulmani che è necessario affrontare l’Iran in modo più aggressivo… che non possiamo più permettere all’Iran di cercare di cacciarci dalla regione, di portare Israele all’estinzione e i nostri alleati arabi all’intimidazione agendo attraverso dei proxy – Hamas, Hezbollah, gli Houthi e le milizie sciite in Iraq – mentre Teheran se ne sta tranquillamente a guardare senza pagare alcun prezzo“.
Il secondo punto [di Friedman] era l’intrallazzo saudita, che avrebbe inevitabilmente spianato la strada al (terzo) elemento, in pratica la “costruzione di un’Autorità Palestinese legittima e credibile come… un buon vicino di Israele…“. Questo “coraggioso impegno degli Stati Uniti per uno Stato palestinese darebbe [al Team Biden] la legittimità di agire contro l’Iran“, prevedeva Friedman.
Diciamolo con chiarezza: questa triade di politiche, anziché fondersi in un’unica dottrina, sta cadendo come le tessere di un domino. Il loro crollo è dovuto ad una cosa: la decisione originaria di appoggiare l’uso da parte di Israele di una violenza schiacciante sulla società civile di Gaza, apparentemente per sconfiggere Hamas. Questo ha messo la regione, e gran parte del mondo, contro gli Stati Uniti e l’Europa.
Com’è potuto accadere? Perché non è cambiato nulla nelle politiche statunitensi. Si è trattato della solita trita e ritrita politica occidentale vecchia di decenni: minacce finanziarie, bombardamenti e violenza. E l’insistenza di una narrazione obbligatoria dello “stare dalla parte di Israele” (senza alcuna discussione).
Il resto del mondo si è stancato di tutto ciò, è arrivato persino al punto di sfidarlo.
Quindi, per dirla senza mezzi termini: Israele si è trovato di fronte all’incoerenza (autodistruttiva) del Sionismo: come mantenere diritti speciali per gli Ebrei in un territorio in cui vi è un numero approssimativamente uguale di non Ebrei? La vecchia risposta è stata screditata.
La destra israeliana sostiene che Israele deve rischiare fino in fondo: o tutto o niente. Correre il rischio di una guerra più ampia (in cui Israele potrebbe o meno essere “vittorioso”); dire agli arabi di trasferirsi altrove; oppure abbandonare il sionismo e andare avanti.
L’amministrazione Biden, non solo non ha aiutato Israele a guardare in faccia la verità, si è rifiutata di obbligarlo ad affrontare le contraddizioni del Sionismo, preferendo invece il ripristino dello status quo ante. Circa 75 anni dopo la fondazione dello Stato israeliano, come ha osservato l’ex negoziatore israeliano Daniel Levy:
“Siamo tornati al ‘banale dibattito’ tra Stati Uniti e Israele sul ‘se il bantustan debba essere riconfezionato e commercializzato come Stato‘”.
Poteva essere diverso? Probabilmente no. La reazione viene dal profondo della natura di Biden.
La triplice risposta fallimentare degli Stati Uniti ha paradossalmente facilitato lo scivolamento di Israele verso destra (come evidenziato da tutti i recenti sondaggi). E, in assenza di un accordo sugli ostaggi, in mancanza di una credibile “apertura” saudita o di un qualsiasi percorso fattibile verso uno Stato palestinese, questa risposta ha, di fatto, consentito al governo Netanyahu di cercare l’uscita da una deterrenza ormai collassata attraverso la garanzia di una “grande vittoria” sulla resistenza palestinese, su Hizbullah e persino – spera – sull’Iran.
Nessuno di questi obiettivi può essere raggiunto senza l’aiuto degli Stati Uniti. Ma dov’è il limite di Biden: sostenere Israele in una guerra contro Hizbullah? E, se si dovesse allargare, sostenere Israele anche in una guerra contro l’Iran? Dov’è il limite?
L’incongruenza, che arriva nel momento dell’implosione del progetto ucraino dell’Occidente, suggerisce che Biden potrebbe ritenere di aver bisogno di una “grande vittoria”, proprio come Netanyahu.
Alastair Crooke
Fonte: strategic-culture.su
Link: https://strategic-culture.su/news/2024/02/12/the-worlds-gyre/
12.02.2024
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org
Alastair Crooke CMG, ex diplomatico britannico, è fondatore e direttore del Conflicts Forum di Beirut, un’organizzazione che sostiene l’impegno tra l’Islam politico e l’Occidente. In precedenza è stato una figura di spicco dell’intelligence britannica (MI6) e della diplomazia dell’Unione Europea.