di Franco Pezzini
Riccardo Romagnoli, Cuore in esploso, pp. 440, € 18, Polidoro, Napoli 2023.
Se ci si avvicinava al disegno, le figure, che avevano avuto le sembianze di motivi astratti, diventavano quelle anatomie che Enrico non tralasciò mai.
Il corpo, o i corpi, erano divelti e, in associazione con i crani e gli organi corporei in esploso, erano fissati nel momento in cui si aprivano e mostravano cosa ci fosse dentro.
Le sue anatomie in esploso si distendevano sul foglio come se fossero maciullate, per l’urto di un colpo che ha tolto loro la morfologia naturale e le ha resi oggetti di ricerca e, quindi, slacciate e spalancate.
All’esploso Enrico aggiungeva la deformazione e la contraffazione.
Vari ed estremamente impegnativi sono i temi che Riccardo Romagnoli impasta come nelle magmatiche tavole raggrumate di umori biologici del suo protagonista Enrico Fra, montate sul soffitto di una stanza chiusa quasi in un’anti-Cappella Sistina. Ma se un Giudizio Universale è nell’opera, è del tutto laico e siglato dalla bellissima e appannata chiusura delle ultime pagine, con lo straniato testimone narrante che troppo tardi (in ogni senso possibile) incalza le tracce di Enrico – ormai compreso nella grandezza della sua esperienza artistica e nella smisurata miseria della sua umanità.
A partire da un’adolescenza dove il narrante scopre l’omosessualità, poi nelle dinamiche di famiglia e nel rapporto con l’affettuosa e semplice Miranda, migliore amica della madre; a quel punto compare Enrico che sposerà Miranda restandone il compagno malassortito, fedifrago ed egoista per tutta la vita. In una dinamica nevrotica di liberazioni e imbrigliamenti, di ossessioni e sconfitte, dove non manca nulla: la diserzione e il carcere, il rapporto ora fortunato, ora venato d’incomprensioni con committenti e intellettuali di una classe sociale molto più alta, tanto lavoro, il successo e la lenta incattivita deriva.
Nelle pagine di questo romanzo intensissimo, dipanate con una voce autorale composta e salda, troviamo arte e memoria, eros e sesso, amicizia e disperazione: troviamo l’attesa di impossibili miracoli che svelino un passato perduto, perduto anzitutto attraverso corpi invecchiati malati svuotati che lasciano liquidi e non opere, alla deriva di eredi sbagliati; troviamo il binomio di genio e individualismo egocentrico fino al cannibalismo e all’autocannibalismo, fino all’egoismo assassino e alla sterilità; troviamo l’affresco non conciliante e critico senza sconti di un momento culturale preciso, la scena artistica fiorentina degli anni Cinquanta, svelata in miserie caratteriali e guasti narcisistici, tic egoismi e pose (qui il giro di intellettuali sopra le righe di Villa Rafanelli), ma che in fondo – anche per il dipanarsi della storia nei decenni seguenti – diventa in qualche modo metafora più ampia di Rinascimenti impossibili. Tanto più nell’Italia contemporanea di visioni ombelicocentriche e dilagante aridità umana.
Iniziato da un’esperienza estatica – di un’estasi che abbina interiorità e carne – di fronte ai dipinti di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo a Vercelli, l’incolto contadino Enrico prende a disegnare. E di lì, di estasi in estasi, trova la sua strada come artista: osserva, scompone, ricombina, spesso distrugge. Gli interessa un’arte senza bisogno di medaglie, gli interessa il limite da superare, una gioia che vira in furia nel corpo a corpo con l’opera. Il titolo stesso rimanda a una tensione aperta, irrisolta fino alla fine: in esploso rimanda a inesploso, un ordigno che può ancora pericolosamente deflagrare, ma soprattutto alla situazione interna di un cuore che esploso è eccome, come in certe tavole dell’artista – e di lì lo straziante racconto del suo precipitare verso la distruzione. Di se stesso per propria mano, come di infinite sue opere nel corso della vita.
Enrico guarda al passato, più che al presente o al futuro. I corpi torniti dei bronzi che va a carezzare – quasi estensione brunita agli amplessi giovanili con le mondine (attraverso un’epopea carnale di pagine straordinarie, che vanno ben oltre l’immaginario noto alla Riso amaro) e a tutte le tangenze di corpi femminili che la furia sessuale gli farà inanellare spudoratamente fino all’età anziana – hanno tanto a che vedere con una grandiosa storia di fusioni fiorentine, pensiamo solo a un altro artista dalla vita intensa e “maledetta”, Cellini. E anche l’uso in pittura di sostanze biologiche richiama all’antico di infinite scuole locali che però usavano piante, fiori, bacche, rossi d’uovo (e non sangue, sperma e feci, come in tavole capaci di alludere cripticamente a tutta una vita di rapporti carnali o nei deliri barbelognostici che il novello Bosch in caduta libera cercherà di ravvivare). Enrico, “una mistione geniale tra Bacon e [appunto] Bosch”, accompagna comitive di amici in giro, permette loro un’experience – a usare un termine goffamente anglofono oggi di moda – del contatto inabissante con l’arte: il tal modo il passato è reso vivo. Ma non saprà portare quella capacità nella sua vita, traghettarla a un futuro per sé e per altri, che in realtà non gli importa. Capace in sé di una vitalità picaresca e bestiale, brucia e si consuma nel presente più angusto per la sua stessa visionarietà.
Enrico guarda al passato, e non lascia eredità. Sia perché non è detto che il genio emerga sempre – e il narratore evoca indirettamente tutti gli artisti che sarebbero potuti emergere e così non è stato, per mille contingenze – sia perché appunto non gli interessa. Ma le due alternative sfumano l’una nell’altra nell’evocazione di un personaggio patologico dall’energia cieca, dominato da una parte umbratile e tossicamente distruttiva che alla fine prenderà il sopravvento.
A riportare meditabonda il tutto è una voce narrante malinconica, certo affascinata e a tratti complice ma ben più capace di cogliere e salvaguardare le ragioni dell’umano. A partire in fondo da una memoria che nelle sue inevitabili zoppie (ecco le ultime, lunari pagine) non sa farsi experience, se non della voce dei propri fantasmi: di qui una pietas verso tutto e tutti. Verso la propria omosessualità come verso l’artista bruto e sciupafemmine rimastogli amico, o le stesse donne da Enrico usate e buttate fino a spegnerle – a partire dalla tenera, dolente Miranda, in questa Tempesta “in esplosa” pure in esilio in un’isola fatata, ma ingenuamente assoggettata a un partner mix di Prospero e Calibano.
E a questo proposito, formidabile la voce del narratore – aspetto caro al direttore di collana Orazio Labbate, che ha voluto il romanzo nella sua “Interzona” – il cui registro narrativo visionario restituisce, in modo del tutto congruo all’operare artistico di Enrico, un maelstrom grumoso e denso di sentimenti, ricordi, teorie e pratiche culturali, febbri artistiche, rapporti sessuali, delusioni e brutalità. Ma appunto lo fa “in levare”, con un garbo e appunto una pietas che dopo tanta pur geniale brutalità indicano in quali cantoni della realtà possiamo – alla fine – intercettare davvero qualcosa di più umano.