Il salario minimo non vi salverà

di Nico Maccentelli

Savino Balzano, Il salario minimo non vi salverà, Fazi Editore, Collana Le Terre – 2024, pp. 168, 12 euro

Leggere Il salario minimo non vi salverà di Savino Balzano, offre un’infinità di spunti di riflessione per chi ancora oggi voglia proseguire e rilanciare lo scontro di classe e intenda ragionare su una piattaforma che coniughi diritti fondamentali sul lavoro, compreso il salario, e la questione della democrazia e della partecipazione popolare nella lotta di classe. Ottima la prefazione di Lidia Undiemi, che già in precedenza aveva analizzato i tratti negativi dell’operazione salario minimo.
In sintesi, ciò che il libro evidenzia è l’inutilità se non la controproducenza di un salario minimo legale finché le politiche attuate nel nostro paese sono quelle neoliberiste, che mettono al centro la massimizzazione dei profitti, subordinando retribuzioni e qualità della vita a questo desiderata che di fatto è un imperativo indiscutibile per la classe padronale.

Il salario minimo ha a che vedere con il potere d’acquisto? È una prima sostanziale domanda da porsi.
Il potere d’acquisto delle retribuzioni in Italia, con il nostro paese che è diventato il fanalino di coda per livelli salariali in Europa e quindi con una misura come il salario minimo c’entra come la panna nella carbonara. Così ironizza Savino Balzano(1), sostenendo a giusta ragione che la contrazione salariale in questi ultimi trent’anni ha riguardato categorie le cui retribuzioni sono ben oltre la soglia di salario minimo che si vorrebbe introdurre, come i meccanici, i chimici, i bancari, i farmaceutici, il pubblico impiego, solo per fare alcuni esempi. Ciò pertanto non produrrebbe alcun effetto. Il salario minimo legale, nel contesto italiano e per come pensato da chi per decenni ha remato contro gli interessi dei lavoratori, non comporterebbe effetti significativi per la stragrande maggioranza della popolazione salariata. La correlazione tra salario minimo per legge e crescita delle retribuzioni è del tutto fittizia, in quanto non si ragiona (volutamente) sulle ragioni che hanno comportato la contrazione salariale nel nostro paese.

Ma di più, il salario minimo, a fronte di una precarietà dilagante e in rapporto al reale costo della vita, non farebbe altro che sancire ed estendere proprio questo stato di cose, che va così tanto bene al padronato piccolo o grande che sia. Si finirebbe, inoltre, con il parificare al ribasso, in un surrogato della contrattazione collettiva, i livelli salariali, come salario preso a parametro.

Salario, lavoro e mercato

Il lavoro è un mercato che segue le logiche di qualsiasi mercato. Per questo i datori di lavoro, o capitalisti, coloro che mettono capitale per trarre profitto dal processo lavorativo non desiderano un mercato del lavoro con una piena e o bassa disoccupazione, ma al contrario operano attraverso i governi per gestire l’eccedenza produttiva a proprio vantaggio, aumentarla fin quanto sia possibile in relazione alla tenuta sociale. Il padronato, la borghesia capitalistica, è una classe, che a differenza del proletariato agisce secondo calcolo, seguendo i propri interessi di classe. Uno degli obiettivi del neoliberismo, per altro raggiunto, è quello di portare attraverso la frammentazione sociale (scomposizione di classe, precarietà) e la produzione di consenso (falsa coscienza nell’uso dei media, manipolazione sulla percezione della realtà sociale e soggettiva), a una classe in sé che ha perso il senso della classe per sé, ossia la propria identità collettiva, dunque la sua forza materiale nella società e la sua capacità vertenziale di contrattazione. In definitiva ciò che era il movimento operaio in Italia e non solo, uscito dalla guerra e negli anni del boom economico.

Il mercato del lavoro, con la svolta neoliberale dei primi anni ’80, ha potuto godere di tre fattori pensati e voluti dalla reaganomics o tatcherismo, che hanno fatto il paio con la libera circolazione dei capitali: lo sviluppo dell’automazione nei processi produttivi (plusvalore relativo e riduzione del capitale variabile), la globalizzazione dei medesimi con le delocalizzazioni e il passaggio a un’economia terziaria, a una progressiva deindustrializzazione e l’outsourcing, ossia il contoterzismo e il subappalto con un distruzione di tutta l’architettura del lavoro stabile, garantito a date condizioni contrattuali, e l’avvio del lavoro precario generalizzato. A questo si aggiunge la appena menzionata terziarizzazione dove il precariato, l’eccedenza produttiva con un potere contrattuale inesistente, ha trovato collocazione non garantita e ricattata in settori come il trasporto e la logistica (2), la grande distribuzione organizzata come gli ipermercati e i discount alimentari e tessili, la sorveglianza, l’assistenza alla persona, la ristorazione, il turismo con la ricezione alberghiera e affini, l’agroalimentare del caporalato, tutti con salari da fame. Questa massa di lavoro precario, attraverso un salario minimo per legge preso a parametro, mettendoci anche i demansionamenti nei cambi di contratto per le stesse mansioni e posizioni, come prima accennato, andrà a impattare nelle contrattazioni di categoria per settori che hanno tutt’oggi dei livelli salariali più alti. Un cavallo di troia che allontana la necessaria unità dei lavoratori pur in queste differenziazioni, e quindi la ripresa del conflitto di classe da parte proletaria.

La disoccupazione…

La disoccupazione è un’eccesso di offerta di lavoro ed è per questo che le politiche neoliberali puntano a mantenere la disoccupazione a livelli adeguati a tenere bassi i salari. Oggi tutto questo è stato reso possibile in decenni di attacco al lavoro su più fronti: governi, sindacati concertativi, modifiche sovrastrutturali dei territori, ideologia del consumo, critica sociale basata tutt’al più sull’adattamento, ossia la resilienza. Il plusvalore e la valorizzazione capitalistici si basano anche su elementi sociologici e sulla gestione di una psicologia sociale che è espressione dell’egemonia di classe capitalistica sul resto della società.

Il salario minimo risponde a questa logica della resilienza in tempi di disoccupazione e precarietà, come lo era stato il reddito di cittadinanza (che hanno avuto la spudoratezza di togliere, togliendo quel poco che poteva dare qualcosa a chi vive una vita di privazioni), ossia un adattamento del lavoro e della vita delle persone alle dinamiche della produzione capitalistica e dei suoi profitti secondo le misure del TINA (there is not alternative), ossia del neo e ordoliberismo imperanti.

Salario e democrazia

Un altro punto su cui Balzano pone la questione del salario minimo è la democrazia, ossia il rapporto che intercorre tra condizioni di lavoro, reddituali inadeguate a una soglia di vita apprezzabile e la democrazia in una data società. È evidente che chi non ha il potere di contrattare sul proprio lavoro e la sua vita è incentrata, ossia limitata a sopravvivere di fronte a un rapporto iniquo tra salario e potere d’acquisto, tra bollette, mutuo, aumento dei prezzi e via dicendo, non ha neppure la possibilità di incidere con la sua partecipazione di cittadino sulla vita politica del paese, in preda a consorterie, politici corrotti e asserviti e infiltrazioni criminali nelle pubbliche amministrazioni, che su questo potere del capitale, delle sue oligarchie locali e internazionali sul lavoro ci prospera, aumentando il proprio potere decisionale e inquinando le istituzioni, corrompendone i meccanismi decisionali, modificando le leggi e la Costituzione stessa, stravolgendola a favore di una sottrazione sempre più arrogante di democrazia.
Il consenso più o meno passivo all’ideologia dominante (passivizzazione delle masse), di emergenza in emerganza, meriterebbe un intervento a parte e non svilupperò in questa sede questo argomento. Mi basti solo sostenere che il legame tra questione sociale, culturale e questione del lavoro nella società capitalistica della disidentificazione della classe per sé, ha portato alla distruzione di valori, progetti, visioni, che fino agli anni ’70 erano stati il sale di una sinistra che riformista o rivoluzionaria che fosse, si basava su una vasta partecipazione popolare e sui partiti di massa.

Fatte queste osservazioni fuori opera, ma del tutto assonanti alle analisi sul salario minimo poste da Balzano, riguardo la democrazia economica e sociale, possiamo addentrarci su alcuni aspetti e potenzialità di questa opera.

Fissare un salario minimo può sembrare un toccasana per chi vive di salario basso e ha condizioni di lavoro precarie. In realtà, il livello salariale fissato per legge è di fatto totalmente inadeguato a rispondere a quel passaggio della Costituzione che recita:

«Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quntità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.”

Sappiamo benissimo che ciò non sarà così, e che partiti post-socialdemocratici come il PD e sinistreria varia, in inciucio con altre forze che concorderanno al ribasso tale provvedimento, potranno dire: abbiamo ottenuto migliori condizioni di lavoro e di vita per gli strati di lavoro meno abbienti. Potranno così spacciare per vittoria la fissazione per legge dei livelli salariali bassi che il lavoro salariato ha di fatto nel nostro paese, rispetto a tutta l’Europa, lavandosi poi le mani pilatescamente delle reali condizioni di lavoro e conseguentemente del tenore di vita di milioni di lavoratori.

Dunque, il salario minimo che potrebbe passare diverrà un parametro nei contratti nazionali di quelle categorie che andranno a contrattare adeguamenti salariali, che potranno essere così al ribassso. Stanti i rapporti di forza tra capitale e lavoro e lo svilimento del ruolo del sindacato in Italia, una siffatta legge sul salario minimo seguirà i desiderata di un padronato che non ha fatto altro che togliere ai lavoratori con governi complici e sindacati concertativi che hanno concertato la svendita di diritti sul lavoro e salari conquistati nell’onda lunga del movimento operaio del dopogerra fino agli anni Settanta.

Da ciò possiamo trarre due preziosi insegnamenti:

1. lasciare alla volpe l’indagine nel pollaio, ossia a un centrosinistra che da Treu in poi ha fatto politiche di distruzione dei diritti e dei salari andando incontro ai diktat del capitale e dell’UE in materia di lavoro, significa lasciare il campo definitivamente alle forze del capitale dentro la classe lavoratrice e stabilizzare uno stato di cose che nega il conflitto capitale/lavoro.

2. Che senza lotta di classe, senza riprendere un conflitto con il capitale e i suoi governi, contro la sinistra liberale e post-socialdemocratica dentro le fabbriche e nelle istituzioni rappresentative, ogni conquista è falsa e vana. E infatti non è un caso che sulla questione del salario minimo non vi è stata alcuna vertenza, alcuno sciopero e la partitocrazia di sinistra abbia avocato a sé l’iniziativa, esautorando le lotte e le vertenze  che potevano essere un collegamento concreto e in progress per una battaglia sul salario, sia a livello generale che nei contratti di categoria.

Ma sappiamo bene che ciò è possibile solo se riprende un protagonismo operaio, salariato nei luoghi di lavoro e si rende possibile attraverso l’unità dei lavoratori da parte di forze sindacali di base, un’autonomia di classe che rompa ogni tavolo concertativo, iniziando una lotta dura contro la precarietà, per la reintroduzione della scala mobile e per il salario. E a questo punto la battaglia per il minimo salariale va concentrata sui settori del lavoro maggiormente sottoposti a discriminazioni salariali. E non è solo sul minimo salariale, ma per i diritti molto spesso negati sui vari fronti: dalla previdenza (salario differito) agli straordinari, alle ferie, ai servizi (salario indiretto) che lo stato deve garantire ai lavoratori e che invece oggi sono oggetto di acquisizione e saccheggio nelle privatizzaizoni di pezzi di welfare pubblico. Per non parlare della sicurezza nei luoghi di lavoro, dei lavori usuranti. L’introduzione di una legge sugli infortuni sul lavoro, spesso veri e propri omicidi bianchi, è un altro aspetto vertenziale. Ma tutto ciò significa vincere poiché si incide sui rapporti di forza dati tra capitale e lavoro e qualsiasi legge sarebbe semplicemente la ratifica di tale mutamento favorevole alla forza operaia in campo e non dato da una sorta di bontà giustizialista (falsa) di un centrosinistra a guida PD che non sa più nemmeno dove stia di casa il lavoro con le sue problematiche.

Senza l’apertura di una fase di lotta generalizzata ogni avanzamento nei diritti e nei salari è impossibile. E lasciare l’iniziativa a forze che vogliono solo raccimolare voti e seppellire il conflitto in un’ “autonomia del politico” avulsa dalla situazione reale del mondo del lavoro e dal punto di vista dei lavoratori, è solo una coazione a ripetere di una debacle della lotta di classe e sindacale che dura da almeno 40 anni e passa.

Oggi, con queste premesse scarsamente conflittuali e una legge che sarà vestita sulle esigenze padronali, non si andrà tanto in là. Due esempi concreti provengono da due dichiarazioni di due esponenti di Confindustria e della Banca d’Italia.
Carlo Bonomi, presidente di Confindustria ha affermato che l’introduzione del salario minimo lascerebbe indifferenti gli imprenditori italiani, mentre Ignazio Visco, già governatore della Banca d’Italia fino all’ottobre dello scorso anno, si è dichirato favorevole all’idea, considerando quanto sia stato sempre attento al contenimento del costo del lavoro nel rapporto salari/prezzi.

La questione vera è pensare a un minimo salariale che non disturbi il manovratore, ossia restare nella gabbia di misure neoliberiste, significa mettere una pietra tombale a qualsiasi ipotesi di un cambiamento della politica economica nazionale, che invece che puntare alla macelleria sociale della redistribuzione iniqua della ricchezza sociale verso una classe sempre più ristretta di speculatori della finanza, pensi a una politica che punti alla piena occupazione e a una inversione di tendenza nella redistribuzione, verso il rilancio del welfare pubblico e a un adeguamento salariale costante e reflattivo (rapporto equilibrato e controllato tra salario nominale e salario reale).

Banche e Unione Europea

La questione del salario minimo suona addirittura ancora più vergognosa, se pensiamo che le banche ottengono sovraprofitti dall’innalzamento dei tassi da parte della BCE, mantenendo pressoché a zero gli interessi sui depositi. E chi ci rimette sono sempre i cittadini: nel 2023, nei primi nove mesi gli utili sono stati di 16 miliardi di euro per le prime cinque banche italiane, un aumento del 70% dei profitti rispetto al 2022; un trasferimento verso l’alto di gran parte della ricchezza sociale prodotta attraverso l’innalzamento degli interessi sui mutui. Altro che art. 41 della Costituzione “L’iniziativa economica privata è libera…”! Non c’è alcuna iniziativa economica, solo predazione pura con il sostegno incondizionato della Banca Europea a coloro che non rischiano nulla, neppure un centesimo (vedi pgg. 24 e 25). Ma per le classi dirigenti, anche solo la minima tassazione dei sovraprofitti ottenuti dalle banche viene vista come anti-costituzionale. Questo accumulo di ricchezza non può che produrre ulteriore potere nella società. Alla faccia della democrazia. E la costante e progressiva difficoltà a finanziare i servizi ci fa capire come diventi praticamente automatico il trasferimento dei medesimi verso i privati, aziende che sono per lo più controllate dalla stessa finanza che qui come all’estero, beneficia di una tale regalia da parte dell’istituzione bancaria centrale europea.

A livello europeo, il salario minimo disattende i presupposti sociali ed etici per i quali doveva nascere: garantire una soglia retributiva adeguata a un’esistenza decorosa e a un rapporto giusto tra lavoro e compenso. E lo disattende per tre ragioni: la prima è di carattere strutturale e riguarda le politiche neoliberali stesse che l’UE promuove in materia di lavoro, soprattutto il lassez faire sulla precarietà dilagante. In secondo e terzo luogo il dispositivo di Bruxelles prevede due indicazioni: le differenze salariali da categoria a categoria del lavoro e, in caso di emergenza economica, la possibilità di attingere dal salario minimo una quota salariale.
Pertanto qual è la reale ragione del salario minimo per legge, se poi si erode il salario e quindi la garanzia stessa di una soglia adeguata a una vita decorosa e fuori dalla povertà?
 Visto così, il salario minimo costituisce un’arma per contenere una crescita salariale per quelle categorie del lavoro che sono oltre la soglia minima durante le contrattazioni collettive. Ossia la maggior parte dei lavoratori europei.

È per questo che un approccio al salario che non sia legato a una politica di redistribuzione delle risorse e che si limiti a parametri salariali minimali fissati per legge non fa altro che allargare la forbice tra ricchezza per pochi, speculazione sui servizi del welfare pubblico da una parte e salario diretto, indiretto e differito della popolazione dall’altra.

Il salario minimo non può salvare, ma solo reiterare ed aumentare nel tempo e nei modi una condizione di miseria sociale, nell’era in cui ciò che guadagna chi lavora non è più sufficiente per avere una casa, una qualità della vita adeguata e dignitosa. Un ritorno al passato, dove non solo gran parte dei salariati, ma di lavoratori a vario titolo subordinati rappresentano dai ceti medi in giù un nuovo proletariato differenziato, frammentato, ma con un denominatore comune che è quello di un ascensore sociale bloccato ai piani bassi e da un immiserimento progressivo che solo la ripresa di un forte conflitto sociale può sbloccare.

In definitiva, se il salario minimo non è concepito per garantire realmente la soglia di vita dignitosa sotto la quale non è lecito andare, se altresì non incide (di conseguenza) nei rapporti vertenziali tra capitale e lavoro, anzi diviene una pietra di paragone per contrattare al ribasso, se infine non viene introdotto mentre si vanno ad attaccare le politiche neoliberiste, allora questo rappresenta un altro dispositivo normativo di quella che possiamo definire a piena ragione una lotta di classe dell’alto contro il basso.

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NOTE

1. Vedi l’intervista fattagli su Ottolina Tv

2. … e non è un caso che dalla logistica una classe operaia soggetta alla massimizzazione dei profitti nel supersfruttamento in un contesto in cui la circolazione delle merci deve essere sempre più veloce per la valorizzazione del capitale, è da anni che conduce lotte dure e duramente represse: quanto avvenuto a Piacenza, con una magistratura che ha criminalizzato SiCobas e USB per associazione a delinquere associando le lotte operaie e il compito dei sindacati a una sorta di esercizio criminoso finalizzato a un guadagno personale mediante tessere sindacali e ricatto ai datori di lavoro… a questo siamo arrivati…

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