“Animali si diventa. Femminismi e liberazione animale” è un libro denso e ricco di contenuti, che a partire da un excursus storico e filosofico sugli incontri che hanno avuto nei secoli le pratiche transfemministe e antispeciste, arriva ad analizzare alcuni sistemi e dinamiche che sono fulcro di dominio e di potere nelle nostre società.
Il libro si articola in sei capitoli, due dei quali sono storici, due teorici e due legati all’attualità. Il linguaggio adottato dall’autrice è introduttivo, proprio per uscire dai circuiti accademici e formali.
«É un libro che pone molte domande e dà poche risposte, accumula complessità», spiega Timeto, che lungo tutti i capitoli si pone interrogativi per includere prospettive altre senza incorrere in risposte semplificate e per dimostrare cosa succede quando si mette in discussione il sistema in cui viviamo, in tutte le sue sfumature.
Viene spiegata l’importanza del rapporto tra i femminismi e le questioni animali.
«L’animalismo – continua l’autrice – ha radici molto lontane che si collocano tra la fine del 1700 e l’inizio del 1900, ed è permeato da un umanesimo di fondo. Già a partire da Mary Wollstonecraft, dunque del periodo del femminismo liberale e riformista, è evidente una particolare attitudine e interesse per altre vite non umane».
Di fronte allo specismo, vale a dire quell’ideologia che considera l’uomo superiore alle altre forme di vita per la sola appartenenza di specie (uomo sapiens), pur con una visione essenzialista, le donne femministe e protofemministe iniziarono a realizzare paragoni tra la condizione delle donne e quella degli animali, e tra persone schiavizzate e animali (riconoscendo una triade donne-persone schiavizzate-animali). Le analogie vertevano sulla situazione di subalternità, che riguardava sia la dimensione privata che quella pubblica, e sulla domesticità. Timeto continua facendo presente che l’addomesticamento dell’animale da compagnia inizia a profilarsi in quel periodo, per esplodere nel XX secolo, la stessa epoca nella quale iniziarono a essere strutturati gli allevamenti intensivi fuori dagli spazi urbani.
In questo senso la questione femminile contribuisce inizialmente alla presa di coscienza rispetto alle questioni animali, che in un primo momento si ponevano in termini di protezione e non ancora di liberazione. Infatti, le prime lotte in questo ambito sono contro la crudeltà, prevalentemente contro la vivisezione, lo sfruttamento per l’impiego come fonte di cibo e l’utilizzo per la produzione di capi di abbigliamento. In concomitanza con l’esplosione del movimento delle suffragette, la lotta per l’emancipazione femminile e il diritto di voto per le donne, insieme all’abolizionismo, si intersecano ed iniziano ad allinearsi le prospettive in maniera protosezionale.
Federica Timeto affronta quindi proprio il tema dell’intersezionalità, in particolare attraverso l’esplicazione dello stretto collegamento tra il razzismo, il colonialismo e lo specismo.
Le radici del razzismo affondano nello specismo, dal momento in cui la schiavizzazione di certe soggettività si basava sull’idea che fosse possibile utilizzare a proprio favore i corpi di coloro che venivano ritenuti inferiori per farne uno strumento volto al lavoro produttivo, riproduttivo e all’estrazione di capitale. Questa dinamica è strettamente legata alla possibilità di sancire la proprietà sui corpi e contemporaneamente fare di questi dei mezzi di produzione, ma anche delle merci (logica che sta alla base del capitalismo e del sistema di piantagioni). I corpi delle persone schiavizzate sono stati animalizzati -“chattel slavery”- per renderli subalterni e sfruttarli, per estrarne il valore.
Il processo di animalizzazione non affonda le sue basi nell’etologia, né nella biologia, ma riguarda il campo degli studi sociali. Tutto è animalizzabile e, prendendo in considerazione l’altra faccia della medaglia, umanizzabile. Vi è la possibilità che l’animalizzazione venga usata in maniere diverse, a volte anche contrastanti. Ad esempio, il processo attraverso il quale si animalizza può essere utilizzato per rivendicare l’identità, in modo diverso da parte dell’oppressore e da parte delle soggettività oppresse: “siete animali / non siamo animali”. Un caso nel quale possiamo osservare questa dinamica è il genocidio del popolo palestinese, che vede la continua animalizzazione delle persone palestinesi da parte del governo israeliano, mentre queste ultime rivendicano di non essere animali; da entrambe le parti, fatte le dovute differenziazioni, persiste una dinamica specista, perché l’animale è considerato un essere degradato.
L’intreccio tra i corpi neri, il processo di animalizzazione, la possibilità di produrre pluslavoro e plusvalore, l’alterizzazione e l’etnicizzazione della questione animale e il dualismo “noi/loro” sono le tematiche centrali del secondo capitolo di “Animali si diventa”.
Si tratta poi il tema del veganismo; di fronte ai diversi tipi esistenti di veganismo e alla domanda su quale tra questi sia femminista, si parte dalla premessa dell’essenza queer del veganismo, in quanto deviazione dalla norma. Il veganismo è una sorta di “coming out”, dal momento in cui consiste in uno stile di vita dirompente che contrasta l’idea di tradizione famigliare e infastidisce, in quanto crea una dissonanza cognitiva che risulta difficile da gestire per le persone che non comprendono o non condividono tale scelta.
Secondo l’autrice il veganismo politico è l’unico che può essere femminista, dal momento in cui si discosta da una semplice scelta di dieta salutare, da un’idea di perfezione e di purezza etica, che corrisponde invece a un veganismo gentifricato, universale e problematico che offre ricette valide per tutti, senza magari preoccuparsi della provenienza del cibo.
Relativamente alle relazioni interspecie e situate, che diventano pratica fondamentale nell’antispecismo, ci si interroga su cosa significhi nella pratica quotidiana, e su come si possano costruire queste relazioni. Quali prassi politiche si possono mettere in atto nella pratica femminista perché si possa definire anche antispecista?
L’autrice premette innanzitutto che è bene ricordare che non sempre il femminismo è antispecista e viceversa. Per quanto riguarda il campo delle relazioni, l’importanza risiede nel modo in cui ci si situa nei due ambiti e nell’attenzione che si ripone nelle relazioni in questione. L’adozione di una prospettiva situata, che sia in grado da un lato di tessere ponti tra le diverse questioni di ecologia politica, di femminismo e di antispecismo e dall’altro di riconoscere anche la propria parzialità, è la chiave per riflettere sul proprio posizionamento e su ciò che connette le lotte tra di loro.
Saper vedere le relazioni e riconoscerle non è solo utile a superare il dualismo che si pone come principale fonte di subalternizzazione, ma è già una prassi di per sé. Metterci in discussione su come ci relazioniamo a ciò che ci circonda e su come ci posizioniamo è un primo passo verso l’assunzione di responsabilità rispetto alle relazioni intraspecie e interspecie.