Mondadori, Milano 2024, 302 pagine, 20 euro
di Marc Tibaldi
“Lo zingaro che mi appare in sogno ha gli occhi azzurri”, già nell’incipit troviamo tre di molti concetti-chiave di questo romanzo: zingaro, sogno, occhi azzurri. Zingaro come rifiuto dei confini, resistenza a ogni assimilazione, nomadismo, alterità disturbante, assenza di mentalità di vittima. Sogno come immaginazione non sottomessa e verifica critica degli assunti surrealisti – la poesia, la rivoluzione, l’amore – a un secolo di distanza dal Manifesto di André Breton e compagni.
Il ritorno del sogno nella letteratura ci pare già un grande obiettivo, ma, attenzione, senza cadere nel freudismo letterario, storicamente consunto e neanche nella ripetizione formale dell’avanguardia francese, di cui mantiene gli orizzonti della rivolta (trasformare il mondo, cambiare la vita).Occhi azzurri: sono quelli dello Zingaro, coprotagonista del romanzo, l’alterità disturbante. Non so se Giacopini volesse creare anche un riferimento diretto a Profezia, celebre poesia di Pierpaolo Pasolini, tratta da Poesia in forma di rosa, che è stata riproposta e riletta in maniera opposta in occasione delle molte tragedie mediterranee dei migranti, ma la potente immagine di […] Alì dagli occhi azzurri / uno dei tanti figli di figli / scenderà da Algeri, su navi / a vela e a remi. Saranno / con lui migliaia di uomini / coi corpicini e gli occhi / di poveri cani dei padri / sulle barche varate nei Regni della Fame […] è impossibile non ritorni in mente, anche per la genesi di questa poesia dedicata a Jean-Paul Sartre. Alla fine degli anni Cinquanta, il filosofo aveva da poco presentato I dannati della terra di Franz Fanon e aveva raccontato, al geniale e contradditorio poeta bolognese-friulano romano, “la storia di Alì dagli Occhi Azzurri”.
Il romanzo esplora il mondo della marginalità contemporanea attraverso il dialogo onirico e reale tra l’io narrante e lo Zingaro, intrapreso tra le pieghe dell’evento pandemico; adotta una struttura narrativa densa di rimandi e sorprese, suddivisa in tre parti (Sogno, Notte, Viaggio); affronta temi come la guerra, la stasi del presente e le mutazioni del capitalismo; si distingue per un carattere espressionista, dove epifanie soggettive si alternano tra protesta e amore per la complessità del mondo. Il magnifico risvolto di copertina (arte nobile come dimostrarono Italo Calvino, Giorgio Manganelli, Leonardo Sciascia, Elio Vittorini…) ci segnala che
“il personaggio che dice ‘io’ quasi non ha il tempo di presentarsi: lo Zingaro appare subito in scena […] e, salvo rare assenze, la tiene occupata sempre. Lo Zingaro viene da lontano, è il freak, il drop out, il filosofo, il profeta. Entra ed esce portando saggezza e provocazione, gioca, straccia le facili verità, fustiga le eredità culturali, fa linguacce a buonismi e isterismi. […] Stabilisce con l’autore un dialogo serrato” – tanto da sembrare un io sdoppiato, aggiungiamo noi – “uno scambio sbilanciatissimo di opinioni. I due si scontrano e si incontrano, viaggiano lungo le rotte del presente, attraversando la pandemia, la crisi climatica, le migrazioni, lo stimolo costante dell’informazione e il progresso scientifico. Sorta di nano nietzschiano, che porta alla luce la voce degli ultimi, lo Zingaro conduce alla verità negletta, al passato obliterato, alla fine del tempo. I due protagonisti si scontrano e si annientano, fino ad arrivare al limite degli eventi, letteralmente al buco nero destinato a inghiottire il loro addio. Siamo di fronte a un romanzo pamphlet che ruota intorno alla consapevolezza della Storia e del tempo […] Parla a chi vuole intendere, e per una volta questa limitazione deve essere interpretata come una sfida vera, come coraggio intellettuale”.
Se, come scriveva Valerio Evangelisti, “il neoliberalismo è stato capace, attraverso un uso quasi scientifico dei mass media, di penetrare nei nostri cervelli e svuotarli di tutti i contenuti non funzionali. In pochi anni, ha compiuto un assalto senza precedenti alla sfera dell’immaginazione, infettandola con non-valori, false certezze e illusioni ottiche ispirate da una logica mortificante che vede il più forte come avente non solo il diritto di vincere la lotta per la vita, ma anche il diritto accessorio di calpestare il vinto, ignorando la sua umanità”. Se come scriveva Lucien Goldmann: “lo scrittore si muove all’interno di diversi sistemi: uno è quello dell’insieme della letteratura, a cui deve giocoforza rapportarsi, l’altro è quello della società in cui vive”, allora per Giacopini uno dei campi prioritari della battaglia politica è proprio l’immaginario, così come per Evangelisti. Questo significa che non ci serve una letteratura consolatoria o edificante che racconta la realtà in modo intimista-descrittivo o secondo i canoni scontati dell’impegno o dell’autofiction.
Giacopini lo fa in questo suo nuovo romanzo. Significa che la paralisi immaginativa e – dalla pandemia in poi – può essere interrotta con la ripresa di un’azione rivoluzionaria che ribalti il “cronosisma” in cui siamo prigionieri. Per farlo è necessario “capire in pieno l’innocenza dell’immaginazione”, come dice Luis Buñuel in un esergo del romanzo. Ecco allora che il canale di Suez viene bloccato, si forma una Comune internazionalista di marinai ribelli, un circo misterioso vaga per le terre d’Europa, una missione Oms costruita con criteri di gender equality è alla ricerca delle Cause del Morbo, un’astronave fantasma vaga nello spazio verso il gran buco nero. Notre Dame va in fiamme … Scrive l’autore a proposito del suo libro “Un romanzo è (o dovrebbe essere) un caleidoscopio spiazzante, un maledetto dedalo, un labirinto […] l’immaginazione va dove vuole lei (metodo Bunuel) senza giustificarsi di niente, senza alcun perbenismo”.
Fabrizio De Andrè canta in Khorakhané (a forza di essere vento): “Saper leggere il libro del mondo / Con parole cangianti e nessuna scrittura” senza imbalsamare la lingua e l’immaginazione – “come un rame a imbrunire su un muro”, che a nulla serve. Canzone che ha fatto arrabbiare i codificatori della lingua rom, senza capire che in quel brano – come nel romanzo di Giacopini, non è di lingue-madri e di lingue di stato che si tratta, ma di lingue-figlie, che non temono la contaminazione e il divenire. È l’immaginazione frutto di una lingua-figlia quella di L’orizzonte degli eventi, piena di fabulazioni e accadimenti, di invenzioni narrative, linguistiche e concettuali che si rincorrono velocemente prima della calma finale. Una felicità della mente.
“Occhi Azzurri mi assilla, esorta, pungola: è tempo di partire, gaggio, è tempo di andare. Sbattezzati da tutto, fatti zigano”.
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L’ampiezza di riferimenti e rimandi di L’orizzonte degli eventi è rintracciabile nel percorso delle pubblicazioni di Vittorio Giacopini, che comprende saggi come Scrittori contro la politica; Fuori dal sistema. Il linguaggio della protesta; la cura della raccolta di scritti di Albert Camus, Mi rivolto dunque siamo. Scritti politici; Al posto della libertà. Breve storia di John Coltrane; e con Goffredo Fofi: Prima e dopo il sessantotto. Antologia dei Quaderni piacentini; e vari romanzi, tra cui: Re in fuga. La leggenda di Bobby Fischer, Il ladro di suoni, L’arte dell’inganno, Non ho bisogno di stare tranquillo, dedicato alla figura di Errico Malatesta, Roma, e la raccolta di racconti Il manuale dell’eremita, un gioiello memorabile, che narra il rapporto contradditorio tra il mago di Messkirch, ossia Martin Heidegger, con René Char e Paul Celan, in cui si possono trovare alcune delle, anche nostre, debolezze intellettuali ed etiche.