Andate dall’andrologo… e decostruitevi!

Lorenzo Gasparrini è filosofo, specializzato in studi di genere, impegnato da diversi anni nella divulgazione rivolta in particolare a un pubblico maschile. Ha pubblicato diversi libri sul tema, tra cui per Eris (Perché il femminismo serve anche agli uomini), D Editore (Ci scalderemo al fuoco delle vostre code di paglia) e Tlon (Filosofia: Maschile Singolare). Giovedì 4 e venerdì 5 aprile è stato ospite del Laboratorio Occupato Morion a Venezia e del Centro Sociale Bruno di Trento, per degli incontri formativi in cui si è discusso di responsabilità collettive, stereotipi di genere, privilegio e decostruzione maschile.

Per iniziare a riflettere sul proprio ruolo all’interno della società patriarcale, e per poter quindi costruire una coscienza femminista, sono fondamentali la politicizzazione del personale e la capacità di riconoscere, in primis, come gli episodi che siamo abituati a considerare come atomizzati siano in realtà frutto della stessa matrice culturale.  Di conseguenza, è necessario comprendere l’onnipresenza di un sistema di potere che, conferisce privilegi al maschile sulla base dell’oppressione di tutte le altre soggettività, gerarchizzando identità e caratteristiche.

Dall’incontro sono emersi i più comuni argomenti e obiezioni che gli uomini usano per evitare di mettere in discussione la propria posizione di privilegio all’interno del sistema patriarcale. Argomentazioni basate su difficoltà economiche, relazionali e, in generale, sul rifiuto di riconoscere la problematicità – e la matrice patriarcale – di comportamenti apparentemente innocui o comuni. Questa reticenza a riconoscere la pervasività degli effetti del patriarcato, nella società e su se stessi, sembra facilmente ascrivibile alla difficoltà che si incontra nel dover ammettere di occupare un posto privilegiato nelle dinamiche di potere della società e nel doverci quindi rinunciare. 

Si può allora dire che gli uomini hanno paura dei femminismi? Gasparrini individua una paura dettata, in parte, dall’idea errata che questi vogliano smantellare il maschile o creare una contrapposizione ostile tra maschile e femminile, ma causata in realtà principalmente dalla scomodità di dover abbandonare il proprio posto sicuro e privilegiato, riconoscendo come pari chi si è sempre considerato come “altro” – o addirittura “subordinato”. Un altro elemento che influisce in questa dinamica è un’interpretazione fallace del concetto di “privilegio”, che viene inteso non come una maggiorazione di opportunità o una rimozione di ostacoli a parità di situazione, ma come una totale assenza di problemi. 

Se certamente è importante lavorare in direzione di un’assunzione di responsabilità maschile, è altrettanto fondamentale sottolineare come questa non coincida con un’ammissione di colpa. Dalla sovrapposizione di questi concetti, infatti, nascono considerazioni tanto ottuse quanto sbagliate, come la celebre frase “sì, ma non tutti gli uomini”. Altrettanto errata è la generalizzazione che vede chiunque parli di femminismo condannare tutti gli uomini in quanto tali, idea spesso utilizzata come pretesto per evitare di approcciarsi ai movimenti femministi e di dover ascoltare, mettendosi in discussione,  le problematiche che pongono. Di conseguenza, Gasparrini identifica la chiave per rompere il permeante condizionamento sociale nella volontà di ascoltare la prospettiva di chi subisce il sistema di potere: è l’esperienza delle soggettività oppresse a mettere in luce le enormi contraddizioni del sistema patriarcale. È tuttavia molto raro che questa volontà si manifesti da parte maschile, in quanto gli uomini vengono spesso educati a spiegare, piuttosto che ad ascoltare, in un’ottica di mantenimento del potere. Questa mancanza culturale spesso si traduce in dichiarazioni disinformate, originate dall’idea che, essendo il “genere” un elemento comune a tutte le persone, non sia necessaria una formazione specifica per trattare delle questioni di genere e femministe. 

Si tratta di un’educazione, quella patriarcale, zeppa di paradossi e contraddizioni, che scolpisce un modello di uomo stoico e non emotivo ma allo stesso tempo incapace di contenere il proprio desiderio sessuale, provando a convincere i bambini fin dalla più tenera infanzia non solo della bontà e coerenza interna del regolamento della virilità, ma anche della perfetta coincidenza tra il loro “essere se stessi” e l’adeguarsi pedissequamente alla mascolinità vigente. L’alternativa a questo modello culturale che i movimenti transfemministi continuano a portare al centro del dibattito si propone di partire dalle scuole, e dai programmi di educazione al consenso e alla sessualità. Altrimenti, ogni trasgressione alla norma finirà per essere additata come innaturale, irrigidendo i confini di oppressione di soggettività femminili e queer, ad esempio nel lavoro di cura. Sono riaffiorati aneddoti di corsi di paternità pieni di uomini incapaci di moderare la propria forza e agire con cura: non l’hanno mai fatto, non gli è mai stato chiesto di farlo e con ogni probabilità la contravvenzione alle norme della mascolinità tossica egemonica che delega il lavoro di cura al di fuori della sfera maschile li porterà a sentirsi “mammi” nel momento in cui faranno il minimo indispensabile come padri. Non c’è nulla di innaturale se non paradigmi e strutture culturali che perpetuano gerarchie su un concetto inventato.

Quindi, gli uomini come possono partecipare a queste lotte essendo veramente solidali e complici? Le risposte sono molteplici: innanzitutto, imparando a farsi da parte e ad evadere dalla logica capitalistica del “cosa ci guadagno”; in secondo luogo, costruendo un discorso di genere al maschile che finora non è stato sviluppato poiché gli uomini non si sono mai considerati come “un genere”, ma come “lo standard”. La distruzione della narrazione culturale patriarcale passa attraverso l’accettazione del rifiuto in quanto espressione della libertà dell’altra soggettività e non come attentato alla propria infallibilità, pericolosa norma imposta dalla mascolinità tossica. 

Perchè queste discussioni siano possibili sono necessari percorsi di decostruzione maschile  in cui vengano riconosciuti i modi in cui il modello culturale patriarcale danneggia anche gli uomini, senza delegare alle altre soggettività oppresse la proposta di un’alternativa, partendo sempre dall’ascolto delle rispettive esperienze. Da questi spazi si deve formulare una presa di responsabilità collettiva che metta in discussione il cameratismo tipico dell’omosocialità patriarcale e la violenza che implica, rifiutando la disciplina e la riduzione del valore di un individuo alla sua perfomance patriarcale-capitalista.

La decostruzione, però, non è il punto di arrivo di un discorso di genere al maschile: si tratta del punto di partenza per poter poi costruire una vera collaborazione tra i generi verso una prospettiva transfemminista che abbracci tutta la società.

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