Israele è uno dei paesi del mondo che fa più abuso della detenzione amministrativa rendendola parte integrale del suo sistema legale, come denuncia l’associazione palestinese Addameer[1]. Per i palestinesi che vivono nei territori occupati (OPT), la possibilità di diventare un detenuto amministrativo è una minaccia costante.
I palestinesi sono stati soggetti alla detenzione amministrativa sotto il mandato britannico, in Israele dal 1948, e negli OPT dal 1967. L’utilizzo di questa pratica ha seguito varie fluttuazioni in base ai momenti storici attraversati. I picchi più importanti sono stati raggiunti con lo scoppio della seconda Intifada nel settembre del 2000, durante la guerra a Gaza del 2014 e le conseguenti escalation dell’ottobre 2015. Lo vediamo più che mai dopo i mesi di genocidio nella Striscia di Gaza, a partire dal 7 ottobre, dove ormai 40.000 persone sono state uccise dall’esercito Israeliano, che sta usando la detenzione amministrativa come deterrente per le proteste scoppiate in Cisgiordania.
Abbiamo parlato di tutto questo in un’intervista con Triestino Mariniello, professore associato di diritto penale internazionale alla Liverpool John Moores University e parte del team di rappresentanza legale delle vittime di Gaza dinanzi alla Corte Penale Internazionale (CPI). Dal 2017 al 2019 si è dedicato alla conduzione di un progetto di ricerca, promosso dalla Hedge University di Liverpool, sulla detenzione amministrativa in Israele dinanzi alle corti militari[2].
Come viene considerata la detenzione amministrativa nel quadro del diritto internazionale e in che modo queste pratiche vengono inserite nella legislazione israeliana?
Prima di andare al caso di Israele, bisogna premettere che oggi tantissimi paesi fanno uso della detenzione amministrativa, anche l’Italia, nei confronti delle persone migranti, e questo vale per tanti paesi dell’Unione Europea e del consiglio di Europa. Il diritto internazionale di per sé non vieta questa pratica, ma la regola. In un contesto di occupazione, il regime politico applicabile è quello del diritto umanitario internazionale, che consente, a determinate condizioni una limitazione della libertà personale, riconoscendo questa facoltà all’autorità occupante. Il problema principale è che Israele ne fa un uso in violazione di una serie di diritti fondamentali. In alcuni casi tale pratica può configurare non soltanto una violazione del diritto internazionale, ma anche costituire un crimine internazionale per cui sarebbero responsabili gli individui e non soltanto lo stato[3].
Israele prevede diversi tipi di detenzione amministrativa: il primo è il cosiddetto Administrative detention order, che è parte della legislazione militare in forza nei territori occupati della Cisgiordania. La seconda è Emergency Power Detention Law, che invece si applica in Israele; c’è poi la unlawful combatants, che si applica nella striscia di Gaza. Quella di cui ci siamo occupati nel report[4], è la prima categoria, perché è quella che viene maggiormente utilizzata dalle autorità israeliane.
Secondo quali meccanismi una persona viene condannata alla detenzione amministrativa?
In primo luogo bisogna specificare che la detenzione amministrativa si basa su prove secretate, vuol dire che la persona non saprà mai i motivi per cui è stata arrestata e poi detenuta. Sulla carta viene garantito un diritto di difesa, ma non viene applicato. La detenzione viene giustificata per motivi di sicurezza e né le persone né i loro avvocati sono a conoscenza delle ragioni specifiche di tale ordine.
Per la legislazione israeliana è sufficiente che un comandante militare sospetti che una persona costituisca una minaccia allo stato di Israele. Il concetto di minaccia risulta molto vago, e soprattutto in un contesto di occupazione è ampiamente soggetto ad abuso. Il capo d’imputazione può essere qualsiasi cosa: un lancio di pietre nei confronti di oggetti, ad esempio il muro di separazione, può comportare pene altissime, così come la pubblicazione di un post sui social media.
Le corti militari sono un ulteriore problema, hanno la competenza di decidere sulla richiesta di detenzione amministrativa presentata dal comandante militare che nella maggior parte dei casi si limitano a ratificare senza mettere in discussione. Sono veramente pochi i casi in cui viene rifiutata la richiesta dell’esercito israeliano e questo dice molto sulla non indipendenza dell’apparato giudiziario militare israeliano.
A cosa vanno incontro le persone sottoposte a detenzione amministrativa in Israele?
I detenuti amministrativi, così come i detenuti comuni palestinesi, sono spesso deportati per l’interrogatorio o per la detenzione stessa sul territorio israeliano. Questo avviene in chiara violazione del diritto umanitario internazionale, in particolar modo dell’art. 49 della quarta Convenzione di Ginevra, che vieta alla potenza occupante di deportare una persona per qualsiasi motivo dal territorio occupato al territorio occupante, in questo caso da quello palestinese a quello israeliano. Non c’è nessuna deroga del diritto umanitario internazionale che Israele possa giustificare con motivazioni di sicurezza nazionale.
Un altro problema è quello delle tecniche di interrogatorio. Vengono regolarmente utilizzati metodi come scuotimenti, costringere i detenuti palestinesi ad assumere posizioni dolorose per lungo tempo, privazione del sonno e del cibo, mancanza di servizi igienici come bagni e docce, e potremmo andare avanti. Anche le condizioni di detenzione presentano una serie di criticità, considerando che spesso i detenuti amministrativi sono rinchiusi nelle stesse carceri con i detenuti comuni, in pieno contrasto con il diritto internazionale.
Un ordine di detenzione amministrativa ai sensi della legislazione Israeliana può variare dai tre mesi ai sei mesi al massimo e una volta approvata può essere rinnovata all’infinito, abbiamo incontrato casi di persone che sono rimaste detenute dodici anni consecutivi. Spesso i detenuti vengono a conoscenza dell’ordine di rinnovo mentre stanno lasciando la struttura carceraria. Per dare un’idea di come questa incertezza di per sé costituisca un trattamento inumano, nel report abbiamo riportato le parole di un ex detenuto: «è peggio del cancro, perché quanto meno quando sei malato sai che dovrai morire, noi in quel caso non sapevamo nemmeno questo».
Credit: Addameer
Cosa succede nel caso di arresto per i minori?
Tutto quello che stiamo dicendo si applica anche ai minori, perché anche i bambini vengono sottoposti a detenzione amministrativa. Gli arresti avvengono soprattutto di notte, con l’esercito che fa irruzione nelle case, urla istruzioni alla famiglia e poi porta via il bambino o altri membri della famiglia.
Il 98% dei bambini dichiarano di essere stati sottoposti ad atti che dal punto di vista del diritto internazionale potrebbero configurare come atti di tortura o inumani o degradanti. Ai sensi del diritto internazionale, andrebbero previste ulteriori garanzie quando si tratta di detenzione dei minori che Israele ignora, anche in violazione della Convenzione sui diritti del fanciullo.
Come gli adulti, anche i minori sono spesso sottoposti a deportazioni, per cui alcuni bambini non hanno modo di incontrare la loro famiglia, subiscono regolarmente minacce di abusi fisici e sessuali nei loro confronti o nei confronti dei loro familiari, per cercare di ottenere informazioni o confessioni.
In diverse occasioni siamo venuti a conoscenza di casi di detenzione amministrativa nei confronti di bambini. Nel gennaio 2019, alle due di mattina, l’esercito israeliano faceva irruzione nella casa di Souleyman Abu Gosh, che abitava nel campo profughi di Qalandiya, durante una classica operazione di raid notturno. Souleyman non si trovava in casa, ma si consegnò poco dopo e venne portato via in una jeep militare, bendato e con le mani legate con dei fermi di plastica.
La prima detenzione durò quattro mesi e venne poi rinnovata. L’arresto avvenne il giorno dell’anniversario dell’uccisione di suo fratello e della distruzione della sua casa da parte delle autorità dell’esercito israeliano. Durante l’udienza di conferma del suo arresto il giudice ritenne opportuno non informare Souleyman e i suoi avvocati dei motivi dell’arresto, sostenendo che le motivazioni non potessero essere divulgate per ragioni di sicurezza. Questo caso non è un’eccezione, ma ci racconta una prassi ordinaria.
Come è cambiata la situazione dopo il 7 ottobre 2023?
Facendo riferimento al contesto di Gaza, andrebbe condotto uno studio specifico sulla situazione. Parlare di detenzione amministrativa significa comunque fare riferimento ad una procedura in qualche modo regolamentata, ma non è questo il caso, a Gaza siamo arrivati ben oltre. Per quanto riguarda la Cisgiordania invece, dal 7 ottobre è stato registrato un aumento esponenziale di casi di detenzione amministrativa.
Al momento sono circa 3.661 i detenuti amministrativi, mentre nel periodo di picco durante la seconda Intifada dal 2002 al 2003 la media era di 1.063, quindi circa 4 volte la media massima che è stata mai toccata nei territori occupati.
Ad oggi siamo arrivati ben oltre quella parvenza di legalità a cui Israele tiene a mantenere.
C’era un abuso di detenzione amministrativa prima e c’è ancora oggi, i problemi da un punto di vista giuridico restano invariati, in contrasto con il diritto internazionale.
Non si tratta di una pratica eccezionale ma di una procedura di cui Israele fa ampio uso nei confronti di rappresentanti della società civile, attivisti per i diritti umani, politici. Nel periodo che abbiamo monitorato, dal 2017 al 2019, circa 15 parlamentari palestinesi sono stati trattenuti in detenzione amministrativa. Quindi dal 7 ottobre in poi possiamo parlare di peggioramento, più che di trasformazione.
Credit: B’Tselem (qui altre statistiche)
C’è una risposta della società civile, sia palestinese che israeliana, rispetto all’abuso di queste pratiche? Quali possono essere delle azioni per cercare di prevenirle?
Per quanto riguarda la società civile, la complessità sta nel fatto che sarebbe un errore analizzare la detenzione amministrativa in modo asfittico rispetto al contesto di occupazione e di apartheid, come ormai varie organizzazioni internazionali lo hanno definito (Amnesty International[5], Human Rights Watch[6], Beit Salem[7]), e secondo il report della relatrice speciale Francesca Albanese[8].
Israele fa uso della detenzione amministrativa quando non è in grado di poter costruire un procedimento penale con delle prove e la applica spesso nei confronti di rappresentanti della società civile. Molti human rights defenders sono stati sottoposti a detenzione amministrativa, politici, tra cui ricorderei Khalida Al Jarrar[9], parlamentare palestinese che è stata sottoposta varie volte alla detenzione amministrativa, e la cui colpa più grande per le autorità israeliane è stata quella di avvicinare la Palestina alla CPI.
Cosa si può fare? Sostenere quelle organizzazioni che si occupano di protezione dei diritti fondamentali dei detenuti palestinesi tra cui B’Tselem, organizzazione israeliana per l’osservazione dei diritti umani nei territori occupati e l’associazione Addameer, che svolge un lavoro incredibile in Cisgiordania, a livello interno ma anche internazionale. Quest’ultima ha anche portato alla Corte Penale Internazionale delle testimonianze in merito ai crimini internazionali compiuti contro i palestinesi e proprio per il suo impegno è stata designata come associazione terroristica da parte di Israele, in un altro dei numerosi attacchi di Israele contro la società civile palestinese.
È fondamentale sostenere queste organizzazioni senza le quali non verremmo a conoscenza delle violazioni e degli abusi a cui sono sottoposti i detenuti palestinesi, sia amministrativi che non. Senza società civile gli strumenti del diritto sono importanti ma rischiano di rimanere sterili. Quindi c’è bisogno di entrambi.
Perché, nonostante le prove e i rapporti che condannano le pratiche illegali israeliane, non si riesce ad ottenere una vera condanna internazionale rispetto ai crimini perpetrati da Israele, dopo 76 anni di colonialismo e occupazione in Palestina e dopo sette mesi di genocidio a Gaza?
Qui il discorso è più ampio della sola detenzione amministrativa, l’impunità è quello che caratterizza l’intera esperienza israeliana, a diversi livelli. Il sistema giudiziario, soprattutto quello militare, come ampiamente riportato da diverse agenzie delle Nazioni Unite (NU) e diverse commissioni di inchiesta indipendenti delle NU, non ha la funzione di accertare la responsabilità in caso di violazione di crimini internazionali, ma ha l’obiettivo di proteggere gli eventuali responsabili di queste violazioni. Questo vale in merito a tutta una serie di atti che possono configurare crimini internazionali.
Per esempio durante la guerra di Gaza del 2014 nessun israeliano è stato condannato per la commissione presunta di crimini internazionali, c’è stato un solo caso di militari israeliani condannati per il furto di una carta di credito nei confronti di un palestinese. Un altro caso, documentato da Beit Salem, riguarda la grande marcia del ritorno, durante la quale sono stati uccisi oltre 240 civili palestinesi dai cecchini israeliani.
Le indagini condotte da Israele erano fondamentalmente volte a coprire la commissione di questi crimini piuttosto che accertare responsabilità. Anche laddove vi sono dei processi non riguardano mai i leader politici o militari, ma si fermano ai cosiddetti esecutori materiali. Non essendoci indagini genuine a livello interno, a quel punto la competenza sarebbe di un organismo internazionale, in particolar modo della CPI, che è competente a intervenire e accertare la responsabilità degli individui.
In 15 anni (da quando la Palestina entra nella CPI), non è si è riusciti a chiedere un mandato di arresto, un ordine di comparizione, che è la fase in cui si dà vita al procedimento penale di fronte alla CPI, mentre in altri contesti è stata sicuramente più celere, per esempio nel caso Ucraina e Russia. In questo contesto, la decisione della Corte internazionale di giustizia (CIG) del 26 gennaio 2024, che ha ritenuto plausibile che Israele stia commettendo atti di genocidio nei confronti della popolazione palestinese di Gaza, costituisce un precedente fondamentale: per la prima volta un tribunale internazionale ha posto fine all’impunità di Israele dal 1948 ad oggi.
È molto preoccupante da giurista e da cittadino italiano leggere che non si tratterebbe di genocidio «perché non è paragonabile alla Shoah, perché il livello di sofferenza non è simile». La definizione di genocidio a livello internazionale non richiede alcun paragone, non richiede una soglia minima di sofferenza. La CIG ha anche posto varie misure cautelari, che Israele sta ampiamente ignorando.
Quindi gli strumenti del diritto internazionale ci sono, il problema principale è che la comunità internazionale, in questo caso intesa come buona parte di stati occidentali, da sempre contribuisce e sostiene l’eccezionalismo del caso di Israele, ponendolo al di sopra del diritto internazionale e della legalità internazionale. Questo eccezionalismo giuridico ci ha portato a dove siamo oggi, a poter pensare che ci sia uno stato che può muoversi al di sopra della legalità internazionale, e gli effetti li vediamo in quello che sta succedendo in questo periodo, con il genocidio in corso a Gaza.