Una finestra sull’Europa, oltre l’Europa

Ci avviciniamo alle elezioni europee in un clima quasi surreale, come se la guerra e un’escalation nucleare mai così tangibile ci proiettino indietro di oltre 80 anni o in avanti, verso un futuro post apocalittico degno della migliore (o peggiore) tradizione sci-fi. Ma è proprio qui, in questa sospensione del tempo e del reale, che gli incubi possono prendere forma. E lo snodo elettorale del 6-9 giugno ha tutte le caratteristiche di un incubo politico che si sta per materializzare, quello di un’Europa completamente in mano alle destre.

Gli incubi, però, vengono sempre da lontano, vanno contestualizzati e – allo stesso tempo – mai letti come cul de sac senza scampo. Siamo consapevoli di essere nel bel mezzo di un ciclo reazionario, di vivere il dramma di una guerra globale mutante che si intreccia con la transizione egemonica più incerta della storia dell’umanità, di aver perso da tempo l’ultimo treno che ci consentiva di arginare gli effetti della crisi climatica. La cartografia politica che emergerà dalle urne rappresenta almeno la combinazione di questi tre fattori, e di altri più contingenti, che vanno sempre situati in una dimensione che non è mai statica, ineluttabile.

C’è un elemento di fondo che accompagna tutte le previsioni elettorali, ossia la saldatura che si sta dando – detto in soldoni – tra la destra estrema e quella liberale. Una saldatura che ha una sua processualità di lungo periodo, ma che ha fatto emergere negli ultimi mesi alcune novità di posizionamento che sono rilevanti. Le recenti dichiarazioni di apertura all’estrema destra fatte dal Presidente del Consiglio Europeo (ed ex Primo Ministro del Belgio) Charles Michels all’ultimo Forum per la democrazia tenutosi a Copenaghen sono solo l’ultimo tassello di una strategia non sempre lineare, ma ormai abbastanza chiara.

Che non stiamo parlando di cartelli elettorali, ma di uno spostamento di asse politico è lampante da tempo. E questo non riguarda solamente l’ascesa di vecchi e nuovi partiti etichettati come estrema destra, neo o post fascisti, nazionalisti. Ma anche l’assunzione da parte delle tradizionali forze liberal-conservatrici continentali dei principali contenuti dell’offerta politica reazionaria. Le elezioni spagnole del 2023 rappresentano un esempio lampante, quando paradossalmente l’argine allo sfondamento di Vox fu rappresentato dalla capacità del Partito Popolare di raccogliere «quelle domande anti femministe, anti trans, anti indipendentiste e di un forte liberismo nella situazione del post pandemica» che avevano connotato l’affermazione del partito di Abascal (si veda Tra instabilità, tendenza a destra e ruolo dell’indipendentismo: cosa ci dicono le elezioni generali in Spagna. Intervista a Raul Sánchez Cedillo, Globalproject.info 26 luglio 2023).

Ilaria Salis: un voto che va oltre l’etica

Per questa ragione le prossime elezioni rappresentano un momento cruciale non solo per il quadro politico europeo, ma anche per i suoi riflessi sia nazionali che globali. A sinistra, probabilmente l’unico elemento di interesse è rappresentato dalla candidatura di Ilaria Salis avanzata in Italia da Alleanza Verdi Sinistra. L’unico, perché in effetti riflette la pochezza politica che a livello europeo sta esercitando tutta l’area a sinistra del campo socialdemocratico. Un’inconsistenza che è tanto numerica quanto di prospettiva politica e che risente in primo luogo nell’incapacità di costruire una reale alleanza “rosso-verde”, anche sulla scorta di quanto di buono era avvenuto in Francia con la Nupes (Nouvelle Union Populaire écologiste et sociale) alle politiche del 2022.

Il voto a Ilaria Salis non può dunque essere visto come un tentativo di dare boccate d’ossigeno a progetti politici inconsistenti. Ma ha una sua valenza che non è solo etico-morale. Diamo per scontato che spingere collettivamente Ilaria nel Parlamento Europeo significa concederle quella immunità che significa libertà; non servono troppe spiegazioni posticce sul “voto utile” per sostenerlo. Ciò che andrebbe sottolineato è che la sua elezione potrebbe rappresentare una breccia all’interno di uno scenario politico che si preannuncia a tinte molto fosche, soprattutto perché rappresenterebbe uno smacco tanto per il governo ungherese che per quello italiano. Uno smacco non da poco, visto che proprio Ungheria e Italia rappresentano i due modelli simmetrici che in qualche modo hanno incubato la probabile Europa del prossimo lustro.

Un altro schiaffo al governo italiano, seppur su un tema diverso, sarebbe anche l’elezione di Domenico “Mimmo” Lucano, tra l’altro candidato da Avs nella circoscrizione del Nord-est. È utile ricordare che con il suo modello Riace, proprio perché ha fatto vedere a mezzo mondo che è possibile praticare accoglienza, ha subito una campagna diffamatoria e di criminalizzazione che probabilmente non ha precedenti.

Il regime di guerra

Inseriamo altri due elementi di riflessioni, che ci sembrano altrettanti cardini per provare a orientarci non solo verso le prossime elezioni, ma in generale nella fase che sta attraversando lo spazio europeo. La prima questione, la più dirimente ma allo stesso tempo la più difficile da districare, riguarda la guerra. È indubbio che l’inizio della guerra in Ucraina ha reso esplicita la debolezza europea, non tanto e non solo per essere stata completamente succube nei confronti degli Stati Uniti nella gestione degli equilibri militari e geopolitici (cosa che non rappresenta affatto una novità), quanto per l’assoluta incapacità di emergere con una voce corale.

Si pensi, ad esempio, alla lunga trattativa per l’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO e a come l’Europa sia stata relegata al ruolo di spettatrice in una partita che si è giocata principalmente sull’asse Washington-Ankara. O a come la risposta alla crisi del Mar Rosso sia stata esclusivamente di carattere militare e neppure il rischio di compromettere il 40% delle transazioni commerciali con l’Asia abbia spronato l’Unione Europea ad attuare un’azione diplomatica congiunta che fermasse la follia genocida israeliana a Gaza. Tant’è vero che il peso europeo nei negoziati del Cairo tra Israele e Hamas è stato pressoché nullo.

Si potrebbe continuare, ma il punto della questione non è legato a contingenze. Ha ragione Andrea Fumagalli quando scrive che le ragioni del “nanismo” dell’Europa – che si esplicita ad esempio in una grande debolezza dei suoi mercati finanziari e della sua valuta o nel modo in cui le sanzioni alla Russia abbiano comportato una crisi speculativa del gas totalmente riversatasi su sé stessa – affonda le radici nell’inesistenza di un vero progetto di costruzione comune dell’Europa politica (A. Fumagalli, La crisi del progetto europeo nel III millennio, Effimera.org 23 maggio 2024). Questo vulnus genealogico, nell’attuale congiuntura in cui la chiave del riassetto capitalista è la guerra, rischia di generare una piena deflagrazione dello spazio europeo.

Una deflagrazione non solo politica, ma anche militare e sociale, in particolare in un quadro globale in cui la costituzione di un blocco europeo liberal-reazionario venga affiancata, il prossimo novembre, dalla rielezione di Donald Trump negli Stati Uniti. Come hanno recentemente scritto Sandro Mezzadra e Micheal Hardt, l’attuale regime di guerra nutre anche un tentativo di rafforzare l’obbedienza all’autorità a molteplici livelli sociali. La risposta repressiva dei movimenti in solidarietà alla Palestina ne è una dimostrazione plastica, ma ciò che preoccupa maggiormente è che l’alleanza tra militarismo e autoritarismo diventi l’assioma di una nuova governamentalità globale (S. Mezzadra e M.Hardt, Un regime di guerra globale, Euronomade 23 maggio 2024; articolo pubblicato in inglese per New Left Review con il titolo “A global war regime).

La crisi climatica

L’altro grande tema da affrontare riguarda la crisi climatica. Se è vero che la narrazione politica che precede le elezioni europee è dominata dalla guerra, è vero anche che l’altra grande partita che si gioca nelle urne e dopo le urne si chiama Green Deal. Non è una partita facile e neppure di scontata lettura.

È passato poco meno di un anno dall’approvazione della Nature Restoration Law, passato in Parlamento Europeo il 12 luglio 2023. Perché quello che doveva essere un provvedimento quasi di routine riguardante il ripristino della biodiversità è stato quasi uno spartiacque? Perché ha segnato il primo vero terreno di scontro politico a livello istituzionale che si è dato in Europa sulla questione ambientale. Quella spaccatura ha segnato anche una sorta di prova generale dell’alleanza liberal-reazionaria che chiaramente assumeva l’impianto “negazionista” come uno dei principali terreni di strategia politica comune.

La narrativa che tiene insieme questo blocco è in realtà abbastanza scontata: la sovranità nazionale, e quindi l’opposizione a politiche climatiche imposte dall’esterno, le critiche ai costi e la percezione che la transizione ecologica sia dannosa per l’industria e l’occupazione nazionale, la resistenza a regolamentazioni che vengono viste come restrittive del libero mercato.

Ma il punto della questione è un altro, perché sul piano diametralmente opposto si è costituito un altro blocco che ha assunto una visione quasi fideistica del Green Deal. Se manca il giusto contrappeso che pone come centrale la fine dell’attuale modello di sviluppo per contrastare la crisi ecologica, il Green Deal rischia di essere la più grande operazione di greenwashing che il mondo abbia mai conosciuto. Anzi, rischia di far diventare il greenwashing fondativo di una nuova fase storica del capitalismo, in cui la stessa distinzione tra economia verde ed economia fossile si sfumerà fino ad annientarsi. Cosa che abbiamo già abbiamo visto concretizzarsi sul piano normativo nel luglio del 2022, con l’assunzione in Parlamento Europeo dell’atto delegato sulla tassonomia che ha aperto la strada all’inclusione di gas e nucleare tra le tecnologie sostenibili.

In tutto questo c’è un’altra grande questione che rischia di essere oscurata, se non espulsa, dalle cosiddette politiche climatiche. Stiamo parlando della questione di classe, che è intrinsecamente legata all’evoluzioni delle relazioni socio-ecologiche nel corso della storia. Se giustizia sociale e climatica non vanno di pari passo, sarà sempre dietro l’angolo la creazione di sacche di resistenza alla transizione ecologica che assumono un carattere interclassista, se non marcatamente reazionario, come accaduto lo scorso gennaio e febbraio con le proteste europee degli agricoltori.

Movimenti e rottura dei blocchi

Crisi ecologica e guerra evidenziano come la rottura dei blocchi sia la principale strada che i movimenti devono percorrere per poter essere all’altezza di questa fase, a partire proprio da come si riconfigurerà lo spazio politico europeo dopo le elezioni. Le mobilitazioni globali per la Palestina, con tutto il loro portato di contraddizioni e possibilità, sono sicuramente uno stimolo per produrre avanzamenti in questa direzione. La ricerca di una connessione transnazionale e intersezionale delle lotte e dei linguaggi politici – che per noi deve avere l’ambizione anche di allargare l’idea dell’Europa come “spazio minimo” per i movimenti – è l’orizzonte verso il quale dobbiamo muoverci. È chiaro che ora come non mai è necessario rielaborare collettivamente le tante domande politiche che le mobilitazioni in atto ci stanno ponendo. In primis il grande tema delle identità decoloniali e del loro alimentarsi nel processo di crisi del concetto stesso di Occidente, ossia della dimensione storico-culturale che ha prodotto e riprodotto l’eredità coloniale.

Un passaggio che riteniamo importante in quest’ottica sarà il dibattito che abbiamo organizzato a Sherwood Festival il prossimo 17 giugno “l’Europa dopo le elezioni: il futuro esiste ancora?”, che vedrà come ospiti Raul Sanchez Cedillo (filosofo, attivista spagnolo), Sandro Mezzadra (Euronomade), Judith Revel (Université Paris Nanterre) e moderatore Sandro Chignola (Euronomade).

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