Quadri viventi

di Franco Pezzini

“Ora, ovunque andiate, voi incantate il mondo. Sarà sempre così?…”.

(Lord Henry Wotton, in Il ritratto di Dorian Gray).

Si può ben non essere proni al mito mediatico del quadro Monna Lisa – un must per turisti fotomuniti assiepati al Louvre – con tutta la palestra di banalità, boiate da freudismo precotto e Codici ecclesiothriller caricata sul quadro del povero maestro. Eppure un evento recente ha permesso a chi scrive di capire qualcosa (mi pare) di più interessante.

Nella prima parte di quest’anno è stata esposta a Torino alla Promotrice di Belle Arti, con una sontuosa e filologica documentazione visiva delle (tante, a dispetto degli scettici) prove a sostegno dell’attribuzione fino all’autenticazione del 2012, La Prima Monna Lisa (la cosiddetta Monna Lisa di Isleworth, o come è chiamata nei paesi anglosassoni Earlier Mona Lisa), concepita dal maestro di Anchiano circa un decennio prima della versione più nota. Abbiamo avuto la fortuna di vedere la mostra a sale semivuote (un giorno di morta dopo Natale), regalandoci in varie ore di visita il dettaglio dell’itinerario che ricostruiva con foto e video puntualissimi l’avventura dell’opera e la sua scoperta, ma anche una serie di informazioni storiche, di costume – come l’abbigliamento in tessuto prezioso che sostituisce gioielli e altri orpelli delle dame d’epoca – o tecnico-artistiche (a partire dalla questione dello sfondo dove il dipinto era stato lasciato incompiuto, prima di passare alle mani di qualche integratore di buona volontà) – e solo in ultimo abbiamo avuto accesso al quadro. Incontrando una Lisa del Giocondo giovanissima e fresca, come appena fermata sulla tela a richiesta del committente: ma la foto del pieghevole di presentazione già la mostrava, quindi prevedevo da quell’incontro poche sorprese. E invece.

Buttiamo via estetismi d’accatto o sensazionalismi facili. Quel che nella sala parcamente illuminata appariva era una persona. Ovvio, in questo giocava la maestria eccezionale dell’autore, ma in quel momento mi arrivava addosso il ricordo di tutti i quadri viventi della letteratura gotica e fantastica, coi loro palpiti, gli sguardi oltre la tela, la luce di una vita vicaria. Non era solo un quadro di pregevole fattura (su tela anziché su tavola come la Gioconda più nota), ma si coglieva la persona dietro l’immagine con il suo respiro di emozioni, di storie personali, se vogliamo di speranze e di attese. Qualcosa (si passi il termine, che però se non colto alla luce dell’etimo, rischia di suonare svilente) di medianico: avevamo davanti, tramite il medium della tela, proprio Lisa del Giocondo. Eppure le foto della locandina, in sé anche buona, non avevano affatto preparato a quello: era come se la riproduzione a stampa nettasse dal fantasma, lo esorcizzasse bandendone gli echi e il respiro. Constatazione banale? Forse, a livello generalissimo. È ovvio che una resa a stampa appiattisca colori e luci. Ma a colpire era l’intensità dello scarto – dove in questione non è, beninteso, un conflitto tra arte pittorica e arte fotografica. Ma piuttosto la distanza tra fantasmi diversi.

A stupire ulteriormente, a quel punto, era la conclusione che la Gioconda più nota, quella del Louvre, fosse stata invecchiata dall’autore – rispetto al primo quadro dal vivo – grazie ai suoi studi eccellenti del corpo umano, permettendogli di evocare non più in presenza e a distanza anche di tempo, madonna Lisa come presumibilmente era diventata. La vita non solo reale ma possibile… Un lavoro sul tempo e il suo gioco meditabondo che dà conto non soltanto di una maestria eccezionale, ma di ciò che un quadro può diventare, una macchina del tempo, una sorta di meccanismo weird sui fantasmi di tempi differenti.

Ma mettiamo anche che quel giorno chi scrive potesse essere (non credo) un tantino su di giri per conto proprio, fino a farsi emozionare troppo. Una conferma è però arrivata in tempi recenti, poche settimane fa, quando siamo tornati a vedere Leonardo, stavolta alla mostra alla Biblioteca reale di Torino L’autoritratto di Leonardo. storia e contemporaneità di un capolavoro a cura di Paola Salvi. Lì la base era – di nuovo – un’immagine celeberrima, appunto il notissimo autoritratto a sanguigna esposto insieme a sei disegni del periodo francese, appartenenti al Codice Atlantico, e al diario della visita che il Cardinale Luigi d’Aragona tributò a Leonardo, ad Amboise, nel 1517. La mostra presentava però anche una serie di “seguiti” all’autoritratto, pregevoli dipinti di artisti di buona mano (Sodoma, Giovan Ambrogio Figino, Giuseppe Bossi, Raffaele Albertolli e Pompeo Marchesi) a esso ispirati per volti di figure “leonardesche”, anche in senso lato; e poi fotografie del medesimo, da quella famosa scattata dai fratelli Alinari in avanti. Ma di nuovo: il volto delle fotografie o dei quadri ispirati non era quello autografo, ne alterava variamente la vita.

Nell’originale non si trovano incattivito corruccio o desolazione – come in alcuni quadri che lo accigliano in tono severo o addirittura gli rigano il volto di lacrime disperate a incarnazione d’attore di qualche volto di antico filosofo: si tratta di interpretazioni forzate. Come le foto, di nuovo, privano l’immagine del fantasma di vita presente nella sanguigna (forse quella degli Alinari è ancora la riproduzione più rispettosa dello spirito della tavola). Con tutta la soggettività di qualunque lettura di un’opera d’arte, a fermarvisi davanti cercando di capire cosa quell’uomo speciale avesse in mente, si coglieva sotto le folte sopracciglia un velo di malinconia anziana, una consapevolezza perplessa e meditabonda irriducibile a emozioni più definite anche nello sfumare dei tratti. Si coglieva la vita intellettuale ed emotiva di un uomo, per l’epoca, più che maturo, pieno di domande: il retroterra della sua esistenza, la perplessità sul presente, le prospettive sul futuro forse breve. Mentre le foto, per quanto buone, appiattivano le sensazioni enfatizzando il contrasto tra bianchi e linee a sterilizzarne la vita. E di nuovo, non si tratta di svilire lo (straordinario) strumento fotografico, ma di riconoscergli specificità diverse. Coglie altri fantasmi, diciamo.

La letteratura fantastica brulica di quadri vivi, eredi di affreschi palpitanti di un miracolismo devoto ma in realtà nel solco di più arcaiche vivificazioni e animazioni d’opere d’arte, statue, dipinti. Il castello d’Otranto tira le fila del meraviglioso dei papisti e insieme delle proiezioni fantasmatiche della tradizione inglese: dove gli spettri folklorici spesso camminano nei corridoi del castello di competenza mettendo semplicemente in movimento – e in ripetizione compulsiva – la propria immagine, come in una pellicola del muto. Nel gotico le immagini scendono dai quadri e si relazionano coi discendenti o gli spettatori del loro teatrino come figure di fantasmagorie, lasciando sulla tela il buio nudo. Più avanti il fantastico affinerà la suggestione: il quadro di Mircalla – in Carmilla di Le Fanu – si limita a costituire l’ennesimo doppio della visitatrice oltretombale, senza alcunché di sovrannaturale, ma con tanta vita dentro da generare dinamiche tra i personaggi. Nel Ritratto di Dorian Gray il ritratto recepisce le conseguenze della vita del modello, in uno schizoide rapporto di doppio; nella Casa del giudice di Bram Stoker la figura del cattivo magistrato scende dal quadro a uccidere, e siamo di nuovo alla compulsione perché agisce in eco a una pratica di tutta la vita. Ma, come al solito nel fantastico nero, in questi casi la soluzione echeggia le crisi di un rapporto identitario, non il suo statuto sano: quello che permette, come dice Lord Wotton e vale per i quadri di un artista eccellente come Leonardo – ma in fondo anche per tanti molto minori – di continuare a incantare il mondo.

Gli esempi qui proposti hanno riguardato opere (certo) di un mattatore assoluto della scena artistica, ma in effetti è legittimo pensare che quella vita tanto palpitante e avvertibile nelle due tavole citate non sia qualcosa che solo Leonardo sapeva insufflare (per assurdo, potrebbe persino interessarci poco l’autenticità della Prima Monna Lisa, a dispetto di una sgarbata canea critica: il nodo non sta lì). È persino banale riflettere che il procedimento magico di mettere la vita in un’opera – come nelle antiche pratiche dei teurgi su statue e altri oggetti materiali, che acquisivano così una dimensione perturbante – sia legato a stretto filo all’arte in sé della buona pittura. Che però presuppone uno spettatore, il più possibile attivo e in dialogo. Come diceva a proposito dei suoi film un attore che era anche buon pittore (ma paesaggista, non ritrattista), Peter Cushing, “molto è lasciato all’immaginazione, che penso sia importante perché l’orrore, come la bellezza, è negli occhi di chi guarda”. A quel punto, azzardo, il pittore fa la sua parte (tutte le arti sono a loro modo forme di magia, dicono gli occultisti) ma poi la palla passa allo spettatore: è lui a gestire l’operazione necromantica di interfacciarsi alla vita proiettata nei quadri. È lui a parlare con quei morti tutti intenti alla fictio/fiction di essere vivi, e a permettere – in ultimo – la verità di quella vita. Se non la cerca con rispetto e senza pregiudizi, non può lasciarla palpitare.

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