di Franco Pezzini
Barbara Guazzini, Il corpo inverso, pp. 192, € 16, 8tto, Milano 2024.
Una rara anomalia è quel situs inversus riscontrato dai radiologi nel piccolo Dante Fanti, sei anni nel 1984: gli organi, all’interno del suo corpo, sono collocati al contrario. In sé l’anomalia non comporterebbe particolari problemi e Dante, in modo pragmatico, trova nello specchio un modo per invertirli “raddrizzandoli”: ma è chiaro che si tratta di una tattica per accettarsi più facilmente, gli organi non vengono veramente ricollocati. Peccato che situs inversus diventi anche lo spazio della sua vita, travolta dall’arresto del padre per un delitto che lo vede incastrato (non spoileriamo), con deflagranti ricadute negli equilibri familiari. Tutto prende ad andare storto, a partire dal comportamento di una madre fragile che non sa superare le proprie debolezze neppure quando la espongono al giudizio sdegnato del figlio (e del lettore): e di lì impatti sociali fin da dinamiche scolastiche, stigmi, commiserazioni sghembe, ipotesi relazionali da cui negli anni pare sorgere un amore…
Il problema è che, in tutti i casi che potremmo definire metaforicamente come di situs inversus, a correggere il tiro non basta un amore ordinario, impastato di limiti e ritardi. E neanche un amore speciale come quello della psicologa che prende a carico Dante e si lascia sfondare la vita professionale accogliendolo in casa come un figlio. Neanche un amore speciale come quello del padre (una figura bellissima) che sapeva gestire fragilità ed egoismi della moglie e far crescere Dante sereno, e prova ancora a farlo dal carcere: la sua assenza – irreversibile da un certo punto – lascia un messaggio di intensa positività e un ricordo da conservare, ma il figlio era troppo piccolo per beneficiare di qualche lascito di solidità. Perché il problema è identitario e un terreno solido può essere creato solo superando in prima persona rimozioni, “raddrizzamenti” forzati o sentimentalistici, verità addomesticate che prima o poi emergono, e coltivando dimensioni vitali fuori dal perimetro delle ombre e dei morti. Di nuovo, Dante trova tante brave persone sulla sua strada, compresa un’affettuosa guardia carceraria che aveva stimato il padre, ma non bastano: è se stesso che deve trovare.
Barbara Guazzini scrive un romanzo coinvolgente ed emotivamente forte, che certo parla – molto bene, con una scrittura dura e formalmente controllatissima – di una vicenda individuale: ma la società che l’ha prodotta è come la straordinaria e desolata periferia descritta al cap. 26, e non basta la presenza di assistenze istituzionali più o meno efficienti e di funzionari di buon cuore (quando le une e gli altri ci siano). Non basta perché c’è una dimensione di fatalità nella vita, e non basta perché neppure il sacrificio personale arriva a sanare le situazioni – che anzi, a volte, peggiora. Dante cerca anzi, goffamente, di non amare, intuendo che tanti vulnera passano di lì: emblematica la penultima scena, con la crisi convulsa davanti alle tre donne della sua vita, ciascuna delle quali portatrice di un fragile progetto di farlo rinascere – ma sempre all’ombra del passato. Una soluzione almeno parziale – questo si può dire senza eccessivi spoiler – arriverà dal ricostruirsi un’identità autonoma, attraverso un lavoro e lo sforzo di vedere avanti, fin dove arriva con gli occhi. A quella distanza il situs non appare più inversus rispetto a qualche asse imposto, ma libero e altro.