Venezia81 – “Maria”, la recensione del film che spazia tra realtà e finzione, passato e presente

Angelia Jolie è “La Divina” e si trasforma nella più grande cantante lirica della storia: Maria Callas. Diretto dal regista cileno Pablo Larraìn, il film racconta la tragica storia degli ultimi giorni della soprano nel suo appartamento a Parigi. La Callas morì di infarto il 16 settembre 1977, a tre anni dalla sua ultima apparizione canora, ma il film vede la protagonista impegnata in una dieta a base di tranquillanti e concentrata in continue prove per una tournée che non avverrà mai a causa dello stato della sua voce.

Maria, un’immaginazione creativa e un ritratto psicologico dell’omonima leggendaria cantante lirica, è la storia di una donna che ha vissuto dagli anni ’20 agli anni ’70, bruciando la sua voce e la sua vita facendo ciò che amava, vivendo per la sua arte e pagando un prezzo altissimo per la sua devozione.

Pablo Larraìn mettendo in scena gli ultimi giorni in vita della grande soprano, con i suoi cagnolini e gli inseparabili Ferruccio e Bruna (Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher) racconta anche la solitudine e come quel talento si rivelerà croce e delizia, imponendo all’artista una vita di sacrifici: sfruttata come un enfant prodige, non visse l’infanzia, così come non visse la giovinezza, mentre la vita adulta fu permeata da una grande solitudine.

Dopo “Jackie” e “Spencer”, Pablo Larraín – avvalendosi anche questa volta della sceneggiatura di Steven Knight – chiude la sua trilogia di ritratti storici raccontando la tumultuosa, tragica e bellissima storia della vita della più grande cantante lirica del mondo.

Maria Callas ricalca una figura femminile iconica del XX secolo, con una presenza considerevole, che occupa uno spazio rilevante, come Jackie Kennedy, che occupava la Casa Bianca o come “Spencer” che si svolge nella tenuta di campagna della Regina Elisabetta. In “Maria” nonostante gran parte della storia si svolga all’interno del lussuoso appartemento parigino, è tangibile che lo spazio occupato dalla Divina strabordasse. Così come è eccedente la sua ricerca di attenzioni, dove tutto diventa ossessivo e laddove la sua sindrome maniacale la porta a confondere la realtà dall’immaginazione, una sensazione che pervade chiunque, tanto da non sapere alla fine del film cosa in questo biopic sia fedele alla realtà e cosa sia romanzata.

Pablo Larraìn ha però voluto porre l’accento su un aspetto in particolare: la storia di una cantante alla ricerca della sua voce. Maria ha 53 anni e non canta in pubblico da quattro anni e mezzo; è una donna alimentata e consumata dal suo dono, che è quello di cantare l’opera con una voce così sublime, così pura, da raggiungere il cielo. Una maestosità che le permette di scegliersi il repertorio, tanto da essere piena di opere liriche, di cui molti compositori italiani. La colonna sonora è in realtà il film, e viceversa. Cantare perseguita Maria, ascoltare i suoi vecchi dischi “incisi alla perfezione” le provocano dolore, un tempo faceva miracoli, ora non le riesce più.

Angelina Jolie, che durante la conferenza stampa descrive il processo di apprendimento del canto lirico come “la terapia di cui non sapeva di aver bisogno”, si cimenta in una prova estremamente coraggiosa. Riproporre il labiale, la respirazione e le pause di Maria Callas non è una passeggiata, metterci anche la voce senza cadere nella mimica banale è un’impresa non da poco. Jolie si trova incastrata in una serie di tecnicismi complessi, da cui riesce a districarsi bene, con un’interpretazione che ci riporta anni indietro a film come “Ragazze interrotte” o “Changeling”.

Rimane però l’impietoso paragone con i due biopic precedenti, dove “Jackie” esplorava attraverso un violento melodramma il processo di lutto e “Spencer” reimmaginava la principessa del popolo, creando di fatto due profili di coraggio, in cui entrambi i film raccontano in qualche modo – seppur non canonico – un trionfo. A “Maria” manca questo tassello, depotenziando un po’ la figura dell’immensa soprano e normalizzando la sua morte.

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