Venezia81 – “El Jockey”, la recensione della strana e surreale commedia gangster al sapore argentino

Il regista argentino in Concorso alla Mostra in conferenza stampa ha dichiarato che “è una storia che cerca di rispondere a una domanda molto complessa: quante volte bisogna morire per liberarsi di sé stessi?”.

E continua “quando uno è giovane pensa che prima o poi capirà qualcosa sulla vita, ma crescendo fa pace con l’idea che non ne capirà nulla. Il mio film si concentra proprio su questo: non è necessario sapere tutto, la vita è un miracolo che non ha bisogno di troppe spiegazioni”. 

“El Jockey”, una coproduzione tra Argentina, Messico, Spagna, Danimarca e Stati Uniti, ha come protagonista Remo Manfredini (Pérez Biscayart) un fantino leggendario, che dello sportivo di alto livello ha molto poco, ma tanto ha di genio e sregolatezza che lo portano a prediligere alla vita da atleta i cocktail di whisky e ketamina.

Il suo comportamento autodistruttivo non solo mette in ombra il suo talento, ma inizia a mettere a repentaglio la sua relazione con Abril (Úrsula Corberó).

Il giorno della gara più importante della sua carriera, che lo libererà dai debiti col boss mafioso Sirena (Daniel Giménez Cacho), ha un grave incidente e la storia travalica i confini dell’ippodromo: Remo fugge dall’ospedale e si aggira per le strade di Buenos Aires, inseguito da una fidanzata incinta che lo rivuole indietro e da un gangster che lo vuole morto.

Essere un fantino vuol dire tante cose, al di là della questione dello sfruttamento degli animali, dei maltrattamenti e di uno sport ormai fuori da tempo, che altro non serve ad alimentare un giro di soldi malato, chi monta dei cavalli per professione ha il controllo ma allo stesso tempo si deve adattare ai movimenti e agli impulsi animali. Ortega usa questo espediente per far scivolare Manfredini in una ricerca di sé stesso: libero dalla propria identità di fantino, inizia a scoprire il suo vero io.

“El Jockey” è un film chiaramente progettato per impressionare i cinefili, architettato per far girare la testa ai cultori d’essai di tutto il mondo, a prescindere dai premi che possa collezionare o meno. Alla fine, tutto sembra un po’ un film di moda che passa  con disinvoltura da una farsa frenetica a un gangster movie, fino a portare in scena una riflessione sull’identità di genere.

Il tratto di Ortega, al suo ottavo lungometraggio, è ormai definito come lo è anche il contributo distintivo di Timo Salminen, direttore della fotografia abituale di Aki Kaurismäki, creando una novità stilistica che mescolano l’assurdismo senza senso dell’artista finlandese con le vene del melodramma latino.

Passando da silhouette esagerate e sportive ad abiti da mercatino dell’usato, da tute in acetato dai colori saturi fino al cappotto di visone, si assiste alla continua trasformazione di Remo, che si trascina nell’universo irrazionale dei sogni, mettendo in luce la moltitudine di sé che possono essere ospitati in un unico corpo, a turno o contemporaneamente, per evoluzione naturale o per scelta. 

Remo a un certo punto dice che le persone vanno a cavallo per i motivi più disparati. Cavalcano per arrivare più velocemente a destinazione o per fare la guerra in modo più efficace. Ma soprattutto, dice, cavalcano per fuggire. Questo è quello che fa il protagonista del film, salta una staccionata per scappare: ci prova a costo di morire nel tentativo di farlo.

In cerca della salvezza, il fantino cambierà più volte identità, cercando di raggiungere la libertà grazie all’una o all’altra. Ma sono tutte identità tormentate. Luis Ortega ha dichiarato di aver fatto questo film con l’intenzione di far capire che per essere liberi dobbiamo uccidere uno per uno tutti i nostri personaggi, anche se poi tutto ricomincia da capo. Ci si sente unici e speciali convinti che la nostra sia l’avventura di un individuo, mentre in realtà è un’avventura collettiva. 

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