di Giacono Casarino
Una doverosa premessa per chi vorrà leggere questo testo, breve ma alquanto ruvido se non urticante: ci sono momenti, per lo più non cercati, in cui l’otium vede precipitare e prendere forma in un discorso compiuto frammenti di pensiero maturati in tempi diversi e che si predispongono e che chiedono una qualche forma di sistematizzazione. Probabilmente gli adepti del post-moderno cui ripugnano le “vecchie (?) ideologie” faranno fatica ad entrare in quest’ordine di idee: ad essi chiedo tolleranza (e perdono!). Rimarcando anche il fatto che io non intendo avventurarmi nell’esercizio sciocco delle previsioni, destinate alle facili repliche della storia, ma semplicemente provo a mettere a fuoco fatti e tendenze difficilmente oppugnabili. Fatti e tendenze che mi paiono vistosamente assenti in quel poco di dibattito pubblico che possiamo riscontrare nel nostro Paese.
Il pessimismo della ragione
“Sentinella, a che punto è la notte?” Una domanda oggi più che mai angosciante, tra il “vecchio” in affanno, ma che non muore, ed il “nuovo” (un’alternativa di sistema) che tarda a profilarsi.
Del resto, in quanto a transizioni sistemiche, abbiamo alle spalle una pesante eredità di fallimenti o, meglio, di regressioni a forme, diverse, di capitalismo di Stato o di capitalismo tout court: persino laddove le condizioni soggettive erano più favorevoli (la Cina di Mao carica delle pulsioni egualitarie derivanti dalla “rivoluzione culturale”) si è registrata la sconfitta della “sinistra”.
Salvo pensare, come fanno non pochi illusi, che un’economia pianificata, meglio se gestita da un partito comunista al potere, sia sinonimo di socialismo.
En passant, come è stato che la classe operaia pretesa al potere, nell’ultima Unione Sovietica, si sia lasciata depredare fabbriche ed aziende senza colpo ferire?
Di fatto, la rottura storica dell’Ottobre ’17 ha realizzato una duplice eterogenesi dei fini: da una parte lo sviluppo economico (industria pesante) è stato provvidenziale, risolutivo nella guerra contro l’aggressione nazista, dall’altro, e su una più lunga lunghezza d’onda, è stato ispiratore delle lotte di liberazioni anticoloniali in tutto il mondo: su questo aspetto è stato lungimirante il genio di Vladimir Lenin.
Anche a seguito del naufragio del “socialismo reale”, oggi l’umanità sembra avviarsi senza freno alcuno verso l’autodistruzione vuoi per un ecatombe nucleare vuoi per un’inarrestabile, progressiva catastrofe climatica. Il movimento pacifista, vent’anni fa protagonista su scala mondiale, è annichilito, colpito ingiustamente, tra l’altro, dall’accusa di filoputinismo.
Quel che poteva convenzionalmente essere creduto come diritto internazionale, per quanto precario, è a pezzi; il potere regolatore dell’ONU annullato, sostituito artatamente dalla potenza, aggressiva in ogni continente, della NATO; l’Unione Europea sopravvive in quanto autolesionisticamente “sdraiata” sugli USA. L’assenza di un vero ordine internazionale è tale che Israele può impunemente continuare nei suoi sistematici massacri del popolo palestinese, al limite del genocidio.
Tuttavia, a livello globale si manifesta la tendenza, contrastata dall’Occidente (in opposizione al “resto del mondo”), verso il multipolarismo, agìto in particolare dai Paesi BRICS, che attuano nei loro scambi commerciali un processo di de-dollarizzazione, cioè di concreta contestazione di una incontrastata egemonia non solo economica. Ovviamente un’alternativa di società è altra cosa.
La logica ineluttabile dell’accumulazione capitalistica confligge con la realtà di un “mondo finito”, della limitatezza di risorse naturali, non riproducibili: iato acuito dall’accresciuta produttività assicurata dall’automazione e dall’intelligenza artificiale. E’ come dire che la contraddizione capitale – lavoro, pur permanendo ed allargandosi, trascenda producendosi nella forma di una non più ricomponibile crisi ambientale, nel disastro.
Nel contempo un equilibrio quasi secolare connotato dall’egemonia USA (Bretton Woods) si è rotto, l’unipolarismo imperiale è incrinato dall’emergere prepotente di nuovi centri ed economie-mondo: un passaggio lungo e tormentato quanto inevitabile che solo una guerra generalizzata può bloccare, a spese dell’intero pianeta e a costo della sua rovina. Poiché la Cina è l’obiettivo vero e finale dell’offensiva occidentale, chi si augura una sconfitta della Russia in Ucraina non si rende conto che essa può indurre quel Paese asiatico ad anticipare le mosse dell’avversario entrando direttamente in guerra a fianco della Federazione Russa.
La globalizzazione, oggi in crisi per ragioni geopolitiche di cui sopra, ha visto imporsi a livello mondiale il modello neoliberista, onnipervasivo e tendenzialmente totalitario, modello che ha ridefinito in senso fortemente individualistico il profilo dell’homo oeconomicus (la concorrenza purchessia come paradigma, variante economico/politica del conflitto armato: vincitori e vinti, vivi e morti): da qui la privatizzazione dei beni comuni ed il venir meno dell’welfare. Di più il predominio della finanziarizzazione, se da un lato espone il sistema mondiale a ricorrenti crisi speculative, dall’altro oscura, rende anonima l’identità, il volto del padrone di turno (fondi di investimento) rendendolo sfuggente ad un potenziale scontro di classe.
Sul piano delle forze politiche le vecchie discriminanti, come quelle in Occidente tra europeisti e sovranisti, sono ormai un ricordo del passato; nell’affermarsi delle democrature e della “società del controllo” la vecchia discriminante antifascista post-seconda guerra non può che cadere, l’estrema destra rientra dunque pienamente nel gioco politico, anche se con una postura di alternativa neo-reazionaria. Quando il declino di una società incombe, come è ora il caso degli Stati Uniti d’America, la collaudata alternanza di potere assicurata dal bipartitismo perfetto entra irrimediabilmente in crisi, tanto che l’auspicata vittoria presidenziale della democratica Kamala Harris non è pensabile possa avvenire senza gravi sconvolgimenti, al limite della guerra civile.
L’alternativa “socialismo o barbarie” sembra sciogliersi in maniera inequivocabile.
Nel tentativo di governare la spinta neoliberista e di addomesticarla in una “terza via” (Tony Blair), i due poli in cui classicamente si era diviso il movimento operaio, stalinismo e socialdemocrazia, entrambi inchiodati su un paradigma sviluppista, si sono degradati in social-liberalismo: è il caso di dire, come in effetti è accaduto, simul stabunt vel simul cadent.
L’imperialismo persiste nella forma di economie di rapina nei confronti del Terzo e del Quarto Mondo (quasi una seconda accumulazione originaria?), anche se prosegue la tendenziale unificazione capitalistica del pianeta (l’Africa?) nel segno di un’altissima socializzazione del lavoro, segnata da una diffusiva economia della conoscenza e da una crescente produttività garantita dalle tecnologie, specialmente da quelle derivanti dalla rivoluzione informatica e robotica.
Nel contempo il lavoro precedentemente concentrato in grandi agglomerati di manodopera risulta ora spazialmente frantumato e governato da algoritmi unilateralmente imposti e dunque di difficile controllo e contestazione; mentre riemergono forme di lavoro schiavistico, permane il lavoro gratuito di cura, specialmente ad opera delle donne. A queste asimmetrie corrisponde un’inaudita concentrazione verso l’alto delle ricchezze ed uno sventagliamento delle diseguaglianze che non si era storicamente mai verificato.
In passato era il conflitto, agito dai sindacati e non solo, a frenare tali tendenze e a garantire tramite il fisco una certa redistribuzione verso il basso: oggi, anche laddove la sinistra ha assunto connotati liberali regna l’atomizzazione sociale: essa in qualche modo subisce l’ideologia americana del “siamo tutti (e ciascuno in maniera diversa) proprietari, tutti imprenditori di se stessi”, ciò che rende impossibile la ri-formazione di una coscienza di classe. La contraddizione capitale – lavoro viene oscurata anche laddove, sotto regimi ferocemente autoritari (tipicamente in Estremo Oriente), lo sviluppo delle forze produttive e della manifattura è decisamente più intenso, manifestandosi sotto forme fabbrichistiche.
Se parliamo dell’Occidente, in particolare dell’Italia la contraddizione capitale – lavoro evoca il movimento operaio, una soggettività antagonista, comunista, ma oggi del tutto latente: nel breve/medio periodo non si intravedono le condizioni della rinascita di una coscienza di classe, per le ragioni già enunciate. Forse quando diventasse egemone la consapevolezza per via ecologica dell’intollerabilità del sistema, nuove ragioni antagonistiche potrebbero arricchire e fare riemergere la contraddizione capitale – lavoro.