Fahrenheit 1660. Il decreto della fenice

di Marco Sommariva

Nel febbraio del 2021, una suora fu fotografata in ginocchio, con le mani giunte, davanti a un gruppo di militari birmani mentre li implorava di non sparare contro i civili disarmati in protesta: divenne l’immagine simbolo del Myanmar in rivolta dopo il colpo di stato che portò all’arresto del Premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi. Quanto sopra successe perché all’insurrezione a livello nazionale, la polizia rispose arrestando, picchiando e sparando alle persone.

Nel giugno del 1989, in questo caso senza implorare nessuno, a opporsi al potere fu un ragazzo cinese che, armato di un sacchetto della spesa in ciascuna mano, sfidò l’avanzata dei carri armati in piazza Tienanmen; il giorno prima, l’Esercito di Liberazione Popolare aveva ucciso a Pechino centinaia di studenti e lavoratori, soffocando nel sangue le proteste dei cittadini che chiedevano democrazia, salari più equi, insomma, una vita migliore.

Non di certo due codardi, la suora e il ragazzo; lo penso io, ma credo lo penserebbe anche Gandhi visto che ne L’arte di vivere scriveva: “Quando c’è una scelta da fare tra fuggire, fingendo di non vedere il peccato, o uccidere il potenziale stupratore, è dovere uccidere o essere uccisi, senza mai abbandonare il posto del dovere. Un codardo non rischia la vita”.

In questo stesso libro, il Mahatma ci dice qualcosa anche sulla resistenza nonviolenta: “Che i deboli non si affidino mai ad un uomo armato. Un tale aiuto li renderebbe più deboli. Se sono capaci di resistenza nonviolenta, imparino l’arte di difendersi. Non si richiede un corpo robusto, ma un cuore forte”.

Non si richiede un corpo robusto per la resistenza nonviolenta, ma un cuore forte, quello che sicuramente ebbe la popolazione di Praga quando, nell’agosto del 1968, centinaia di migliaia di soldati sovietici e migliaia di veicoli corazzati invasero la capitale per fermare il tentativo dell’allora segretario generale del Partito Comunista di Cecoslovacchia, Alexander Dubček, di concedere nuovi diritti ai cittadini: “I sovietici sono entrati in Cecoslovacchia. Sono arrivati in aereo e su carri d’assalto. […] i sovietici vengono a mettere un po’ d’ordine in un regime di cui si credono i padroni e la cui evoluzione attuale appare loro una seccante deriva che è opportuno normalizzare rapidamente. Arrivano, insomma, con gli eserciti di cinque Paesi del patto e si insediano, ecco tutto. […] l’occupazione fisica del Paese ha luogo in meno di ventiquattr’ore”. Lo scrive Jean Echenoz in Correre.

In Correre, Echenoz scrive anche: “A Praga, la popolazione oppone una resistenza passiva. All’inizio prova a discutere coi soldati, ma visti gli scarsi risultati comincia a prendere le contromisure. Se dei soldati sovietici si perdono in città e chiedono la strada, viene spontaneo a tutti mandarli nella direzione opposta. Ci si premura, inoltre, di spostare sistematicamente i cartelli indicatori per confondere gli intrusi”.

Nel rileggere questo passaggio, mi torna alla mente un episodio che amava ripetere mio padre. Nato nel 1931, i suoi primi quattordici anni di vita furono segnati dal regime fascista e dalla Seconda guerra mondiale e benché, per esperienze personali, conservò un ricordo molto più brutto dei fascisti italiani che dei soldati tedeschi, la Germania non rientrò mai fra le sue simpatie. Nel 1946 successe che una delle poche auto che circolavano all’epoca, si fermò accanto al ragazzo che diciassette anni dopo diventerà mio padre, per chiedergli da che parte andare per raggiungere il Centro di Genova; riconoscendo immediatamente la cadenza, mio papà fu lestissimo a indicare all’autista la direzione opposta.

Certo, mio padre avrebbe potuto tacere, fare come i tanti che avevano dimenticato cos’era accaduto neanche un anno prima, e invece no: resistere sempre, anche passivamente, era uno dei suoi principi, così come lo era per mia madre che ancora non aveva conosciuto. Sempre da Correre di Echenoz: “Dal momento che la gente non ha più il coraggio di parlarsi né di ascoltarsi, ci si evita scrupolosamente a vicenda, non ci si conosce più neanche in famiglia. La stampa è imbavagliata come non mai […] e ascoltare radio straniere può esporre a dure rappresaglie. Il terrore si è ormai comodamente insediato nelle coscienze, sicché la scelta è semplice: tacere e rassegnarsi o unirsi alle manifestazioni di fanatica adesione al regime e al culto del presidente Gottwald – un’altra bella àncora di salvezza è iscriversi al Partito, che in pochi mesi ha visto le sue fila ingrossarsi di oltre un milione di nuovi membri”.

Mio padre non s’iscrisse mai né al Partito Comunista Italiano che votò per una vita né ad alcun sindacato: la sua àncora di salvezza era resistere quotidianamente, ogni minuto, in ogni occasione, senza alcuna indicazione dall’alto, anche a costo di ritrovarsi solo al momento dell’azione. Capita spesso anche a me: sarà una tradizione di famiglia, vai a sapere.

Correre è un romanzo sull’atleta cecoslovacco Emil Zatopek, un uomo che, tra la fine degli anni Quaranta e la prima metà degli anni Cinquanta, nessuno poté fermare: né sulla pista di atletica – rimase imbattuto per quattro anni – né dal regime che invano lo spiava, limitava le sue trasferte, distorceva le sue dichiarazioni.

Zatopek, eroe nazionale, a un certo punto si sentì in dovere di dire la sua, denunciando, condannando l’invasione delle forze del Patto di Varsavia: “Le conseguenze di tali dichiarazioni non si fanno attendere. Già il giorno dopo Emil perde il posto al ministero. E nei giorni successivi è escluso dal Partito, radiato dall’esercito, costretto a lasciare Praga. Non è l’unico: insieme a lui trecentomila membri del Partito sono espulsi dai suoi ranghi, altri trecentomila non comunisti sono esclusi dalla vita pubblica, altri trecentomila, infine, licenziati o ricollocati in posizioni inferiori. Emil si ritrova così disoccupato”.

Tranquilli, non rimase a lungo senza lavoro: pochi giorni dopo il regime gli trovò una nuova occupazione mandandolo in una miniera di uranio; per punizione, ovviamente.

La Storia è piena di esempi di persone che non accettano ingiustizie subite o viste subire, a volte li abbiamo persino in famiglia ma non lo sappiamo perché non siamo più capaci di fermarci ad ascoltare chi ha qualcosa d’interessante da raccontare.

Nell’Elogio della disobbedienza civile, scrive Goffredo Fofi: “Un’ingiustizia subita o vista subire da altri è una forma di violenza che, dice Thoreau e insiste Gandhi, non va accettata e a cui è doveroso ribellarsi. La differenza tra Thoreau e Gandhi comincia con il discorso sui mezzi. Thoreau non esclude affatto […] il ricorso ai mezzi violenti; Gandhi […] si è limitato a dire che soltanto in casi davvero estremi, il ricorso alla violenza può essere giustificato (ma entrambi hanno anche affermato che peggio del violento è l’ignavo, il vigliacco)”.

Per trasformare le persone in vigliacche, ignave, codarde, è funzionale spaventarle.

Lo scorso mese di settembre, la Camera dei deputati ha approvato il Disegno di legge 1660 recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”.

Leggo su L’Indipendente un’intervista all’avvocato Eugenio Losco del Foro di Milano, attivo nella difesa di cause relative a proteste e movimenti sociali, in cui il legale dichiara: “È un disegno di legge caratterizzato dalla volontà evidente di reprimere qualsiasi forma di lotta e di conflitto sociale, andando a colpire i vari movimenti e le lotte sociali in maniera specifica e dettagliata. C’è una norma studiata per reprimere gli eco-ambientalisti, una contro i lavoratori della logistica, una contro Ultima Generazione, una contro il movimento per la casa, una contro chi si oppone alle grandi opere, una contro i detenuti che protestano nelle carceri, e una contro gli immigrati nei centri di detenzione. Si tratta di un decreto repressivo concepito in modo organico, che costituisce quindi un salto di qualità rispetto ai precedenti decreti sicurezza”.

Personalmente, non riscontro intorno a me grande preoccupazione per questo Disegno di legge; immagino sia per il “solito” motivo, quello che in passato non ci ha fatto alzare il sedere dal divano per scendere in strada a manifestare contro la chiusura o riduzione delle strutture mediche pubbliche perché non ritenuto un problema di tutti, per poi scoprire che, anche grazie a queste chiusure e riduzioni, chi comandava riusciva a chiudere in casa per mesi un intero pianeta, o poco meno, magari mentre le stesse persone al comando – vedi l’ex primo ministro del Regno Unito, Boris Johnson – organizzavano feste durante il lockdown violando le norme anti-Covid da lui stesso emanate e ipotizzavano operazioni anfibie alla 007 nei Paesi Bassi per recuperare milioni di dosi AstraZeneca.

A fronte della nostra passività, ottusità, opacità nel recepire la portata di certe decisioni imposte dal potere o addirittura, in alcuni casi, della nostra collaborazione col potere perché questo ci controlli di più, c’ingabbi meglio – ricordo nel marzo del 2020 i colleghi entusiasti d’esser stati autorizzati a lavorare da casa, chiamare qualche settimana dopo il sottoscritto rimasto scientemente alla scrivania, denunciandogli un forte stato depressivo – dicevo… a fronte di tutto questo, mi viene in mente un altro passaggio dell’Elogio della disobbedienza civile, libro edito nel 2015, dove l’autore ci fa notare la pochezza di chi muove i fili aumentando, così, la misura della nostra sconfitta, visto che una generazione di analfabeti che ci aveva preceduto aveva saputo fare meglio: “Ciò che si muove, che cerca positivamente di reagire all’alienazione imposta dal potere e dai suoi funzionari e propagandata dai suoi servi, ha di fronte a sé un’ottusità e un’opacità che sono la conseguenza del “trentennio”. Il ventennio fascista, al paragone, aveva una vitalità diversa e aggressiva, una chiara proposta negativa, antidemocratica, mentre il trentennio recente si è affermato per via democratica presentandosi come sommamente razionale (ché il nostro è l’unico mondo possibile, anzi il migliore) ed è stato benedetto dal popolo – che rispetto a quello del ventennio non aveva identità e storia diverse da quelle del potere, non era più composta da contadini, operai, artigiani, impiegati, in gran parte analfabeti e i cui bisogni erano inconciliabili con quelli del potere”.

Credo siano almeno trent’anni che predico di fare attenzione al potere perché non commette, e non penso commetterà più, l’errore di mostrarsi visibilmente aggressivo, impugnando manganelli e olio di ricino o mandando i dissidenti in una miniera di uranio, ma che s’è evoluto a tal punto che i malmenati dei nostri giorni scoprono i lividi e le emorragie interne che li hanno ridotti a larve quando ormai è troppo tardi, quelle stesse larve che non riescono ad alzarsi dal divano per scendere in strada; che poi, diciamocela tutta, non è strettamente necessario calcare il selciato, si possono fare un mucchio di cose per non risultare opachi, ottusi, passivi, tra cui sedersi su un divano, sì, ma per leggere attentamente qualche libro e poi magari alzarsi per scrivere un articolo frutto di quelle pagine – sì, lo ammetto, non ho un corposo curriculum di manifestazioni.

Ma sarebbe anche sufficiente, semplicemente, non collaborare: “È con la disobbedienza civile e con la noncollaborazione a ciò che non ci sembra bene, con il “non accetto” che si fa azione, che si può intervenire nella storia mettendo in discussione l’ordine imposto dal potere, i suoi modi di gestione […]” – sempre da l’Elogio della disobbedienza civile.

Mi raccomando, però, di non confondere il non collaborare con lo starsene seduti con le mani in tasca; non cambierà nulla esitando, rammaricandosi, aspettando che altri pongano fine alle ingiustizie, magari dando il voto alla persona che ha gracchiato lo slogan più ruffiano; anche perché, spesso, se questa persona mette fine a un problema è perché, di quel problema, era rimasto poco o nulla. E lo fa legiferando.

A tutti coloro che pensano, redigono e votano (o non votano) leggi, chiedo la cortesia di soffermarsi a ragionare su un passaggio tratto dal romanzo Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar: “Ogni legge trasgredita troppo spesso è cattiva; spetta al legislatore abrogarla o emendarla, per impedire che il dispregio in cui è caduta quella stolta ordinanza si estenda ad altre leggi più giuste”.

A tutti coloro che hanno pensato, redatto, votato (e voteranno al Senato) il Ddl 1660, ma anche a coloro che non si sono opposti a questo Disegno di legge (e non si opporranno in Senato), dedico un passaggio del romanzo One Big Union di Valerio Evangelisti, che ho riletto ultimamente accovacciato nell’angolo di un comodo divano, appunto: “Hai un’idea vaga di cosa sia la democrazia… In sostanza una catena di interessi”.

Se siete arrivati in fondo a questo pezzo significa che non è ancora stato redatto e votato un Ddl che vieti di scrivere articoli sui Ddl; che, però, non l’abbiano già pensato ho seri dubbi.

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