Ossessioni familiari e deficit di forza vitale

di Franco Pezzini

All’edizione del ToHorror di quest’anno è stato presentato al cinema Massimo un interessante film giapponese (sottotitoli inglesi più, per la manifestazione, quelli italiani) a tema case infestate. Qualcuno dirà – per il vecchio stolido pregiudizio che il fantastico debba reggersi su una novità di trama, laddove si tratta semmai di una novità di chiave e di modo di narrare – che lo spunto non è così originale: e invece House of Sayuri (Sayuri) di Kôji Shiraishi, 2024, è un film originalissimo, che mixa vertiginosamente linguaggi, filoni narrative, emozioni. Basato su un manga horror di Rensuke Oshikiri, sa combinare felicemente toni diversi: non necessariamente in questo ordine, dalla paura al grottesco, al comico, al patetico, al delicato, all’avventuroso e in ultima analisi al satirico, perché mira in modo corrosivo contro alcuni punti fermi del panorama sociale nipponico (e non solo nipponico). Il topos filmico dell’infestazione si lega in tal modo ad altri, da quello della vendetta più o meno pirotecnica alla Park Chan-wook ai motivi della commedia di costume, con intersezioni su storie manga e anime di adolescenti e batticuori a scuola, iniziazioni alle arti marziali e alla vita, malinconie da lutto; e nell’impossibilità di raccontare senza svilire a suon di spoiler, che in questo caso sarebbero criminosi perché la sorpresa fulminante ha qui efficacia di cifra stilistica, merita dedicare riflessione a qualche tema sviluppato.

Il primo oggetto della satira del film è la famiglia, con due esemplari – una buona e più estesa, i Kamiki (genitori, tre figlie e i nonni), l’altra cattiva e motore dell’infestazione (genitori e due figlie). Ma la famiglia buona ha le sue magagne: al di là della nonna rimbambita e di vivace caratterino – lo cogliamo all’inizio da commenti fuggevoli – che a suo tempo aveva fronteggiato nientemeno che gli uomini della yakuza, il peccato più grave del clan Kamiki è di essere totalmente prono a un modello di vita asfittico. Il padre che si danna (così i sottotitoli, occorrerebbe vedere eventuali sottotesti metafisici del verbo giapponese utilizzato) col lavoro per comprare la casa fatale; la madre che, alle più che ragionevoli osservazioni del figlio dopo le prime vittime – lasciamo la casa e torniamocene in un appartamento – lo aggredisce a tavola perché svilisce l’acquisto di suo padre buonanima; il nonno che, alla domanda del nipote più piccolo se sia male pensare alla morte, offre una risposta in sé di buonsenso, ma che in realtà denuncia un vivacchiare: ora siamo vivi, cerchiamo di farlo al meglio… Laddove il fantasma sarà invece sconfitto (questo si può dire, senza dettagli – gustosissimi) proprio puntando sull’accrescere la forza vitale.

La casa infestata ha più piani, virtualmente quanti le generazioni coinvolte, a rendere l’edificio un simbolo della famiglia; il giardino presenta i suoi lugubri segreti, che sta agli anziani disvelare – e il recupero delle ossa del fantasma non basta a placarlo. Mentre a combatterlo, in forme forse non troppo ortodosse ritualmente ma efficaci, saranno le categorie non produttive, anziani e ragazzi, nella sostanziale débâcle degli adulti integrati – padri lavoratori indefessi, ometti dall’aria perbene ma con turbe disgustose, esorcisti sussiegosi a pagamento. Anche la vicina “amichevole” è nei fatti il corrispettivo nipponico di una beghina impicciona.

Gli stigmi dell’ossessione demoniaca sono quelli dell’orizzonte hikikomori, cartocci di cibo-schifezza a tappezzare il pavimento e trasmissioni demenziali senza soluzione di continuità; e lo stesso body shaming, nel grassofobico Giappone, assume nella vicenda valenze critiche interessanti.

Gli attori sono molto bravi, anche se probabilmente ignoti a chi non frequenti il cinema giapponese. Zen Kajihara interpreta Akio Kamiki, il padre un po’ gnocco che acquista la casa; a interpretare la bella, desolata moglie Masako è Fusako Urabe; le parti dei nonni sono rette dall’anziano Kitarô, e dalla straordinaria Toshie Negishi. Keiko (Kokoro Morita) è la figlia avvenente da cui si avvia il rapporto di ossessione – e la scelta non sembra dettata solo dalla stanza che occupa. Molto simpatici risultano i personaggi dei due figli maschi, Norio (Ryôka Minamide) e il piccolo Shun (Rei Inomata), e la preoccupata, incantevole compagna di scuola Sumida (Hana Kondô), con una descrizione delle dinamiche affettive tra adolescenti estremamente delicata.

Ma in primo piano, potremmo dire, è il tema del deficit di forza vitale. E qui la società ammodo del Sol Levante sembra inquietantemente vicina alla nostra, che non a caso spurga fantasmi. Nonché cadaveri viventi: un paese depresso come il nostro ormai ragiona (forse il verbo non è sempre giusto) e sceglie sulla base della paura, cioè vivacchia – ma non riesce a lavorare sulla forza della vita, a fare scelte coraggiose e vitali, a progettare futuri che non siano la fotocopia spiegazzata dei passati più asfittici. Una haunted house nazionale: e la retorica, anche recentissima, del “fare la Storia” – cioè rassegnarsi a esponenti e priorità di ideologie già marcite nel Novecento, tra scandali e intrallazzi – puzza delle peggiori pagine del passato. Un fenomeno che impatta a tutti i livelli, collettivi come personali.

Come Luca Rastello scriveva nella sua ultima lettera alle figlie:

Se c’è un augurio che posso farvi, allora, è di non cadere mai nella trappola della rassegnazione e dell’accettazione: quasi sempre quella che si presenta come «la vita com’è», secondo un’espressione cara ai realisti (gente che in segreto ama la schiavitù), è una truffa. Si può uscire, scartare, fare ancora un giro, magari due, magari di più, e poi sorprendersi di come era facile e possibile quello che sembrava impedito dalla logica ferrea di un mondo che ci mettiamo addosso come una prigione ed è invece solo fantasia, malata fantasia che si spaccia per realtà. […] Secondo me, meno volte direte «meglio di no», meglio sarà.

Se riusciamo a metabolizzare tutto questo, potremo ricacciare i fantasmi cattivi da dove sono venuti.

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