Nulla di cui vergognarmi: Aleister tra talamo e dungeon

di Franco Pezzini

Aleister Crowley, Bagh-i-muattar. Profumi dal giardino di Abdullah, a cura di Vittorio Fincati, pp. 191, € 14, Studio Tesi, Roma 2019.

William Seabrook, Gli oscuri segreti di Aleister Crowley, a cura di Gabriele Scalessa, pp. 260, € 14, Arcoiris, Salerno 2024.

O uomo! come io posso discorrere con te, che non hai giaciuto sopra un letto, aspettando, timoroso, non si sa bene cosa; trepidante, balbettando sciocchezze per far finta di conversare; i tuoi occhi si chiudono per paura che tu non debba vedere la mossa del tuo amante e forse (oh, il peggiore dei mali!) che non si spaventi di te; timoroso, oh! infinitamente timoroso per paura che si spaventi, per paura che potrebbe lasciarlo per te a dire le dolci parole (oh, le guance arrossate, le labbra morsicate!) il cui fuoco interiore accenderà il grande incendio? Come discorrere con te, il cui udito accelerato non lo ha conosciuto strisciare sempre più vicino, ancora spaventato di toccarti, non ha udito il battito del suo cuore, l’affanno del suo respiro? Come discorrere, se non hai provato un piede tremante che ti cerca, una mano furtiva sempre più vicina?

Il punto di forza della mia posizione è che non c’è nulla nella mia vita di cui io debba vergognarmi.

Nella sua sgomitante irriducibilità a qualunque tentativo di lottizzazione ideologica, nella sua impresentabilità a dibattiti moraleggianti, nell’eclettismo lisergico che continuamente sorprende su tanti fronti diversi, Aleister Crowley resta un mattatore delle librerie. E non stupisce che solo nell’ultimo periodo, oltre a tutti gli altri volumi che lo evocano – alcuni evergreen per studiosi di occulture, altri ripescaggi di un certo successo per un pubblico popolare –, siano usciti vari significativi testi legati a lui, sue opere tecnico-occultistiche o invece letterarie o studi sul suo lavoro. Nell’ampio pelago dell’offerta, anche per dar conto della varietà dei materiali, può aver senso ricordare due titoli: uno uscito da un po’ di tempo e l’altro fresco di stampa. Possono trovare un punto d’incontro superficiale su una nota comune un po’ pruriginosa, ma a livello più profondo danno conto della latitudine di un’esperienza culturale.

Bagh-i-muattar (“Giardino profumato” in persiano), concepito in India nel 1905, uscito anonimo a Parigi – non a Londra come in frontespizio, mai avrebbe passato la censura britannica – nel 1910 in sole duecentodieci copie, è un apocrifo varato dal Nostro, a ipotetica traduzione di un inedito persiano, attribuito a un fantomatico Abdullah El Haji, cioè Abdullah il verseggiatore, definito satirist in assonanza con satyr, satiro – il titolo di frontespizio suonerebbe Bagh-i-muattar. Il giardino profumato di Abdullah satirista di Shiraz, “Tradotto da un raro manoscritto indù del defunto maggiore Lutiy e da ‘un altro’”. Curato da uno specialista di esoterica, Vittorio Fincati, il testo si presenta in realtà come un disinvolto mix di prosa e poesia a carattere omoerotico, sul modello di scritti mistici islamici come quelli del verseggiatore Hafez che vedono l’amore per il divino – si pensi solo al biblico Cantico dei cantici – assumere forme di eros vivaciotto (doppi sensi à gogo, una dimensione un po’ luridamente scatologica) per un giovinetto.

Che per il bisessuale Crowley questa figura di fantasia rifranga il suo innamoramento appassionato per Herbert Charles Pollitt – si può non concordare con il curatore quando commenta “ma per amore, conoscendo Crowley, dobbiamo intendere una pura concupiscenza carnale”, a fronte di pagine delle sua vita dove qualche inaspettato sentimento, certo non nel segno della castità, pare paradossalmente emergere – può interessare fino a un certo punto: l’amasio del satirist, da un punto di vista narrativo e poetico, è qui una funzione più che un personaggio reale. E a trionfare in questi versi, tra venature sataniche o piuttosto sethiane, beffe ai monoteismi, affettazioni di conoscenze un po’ farlocche (il fatto che il suo presunto consulente, un preteso erudito indostano, si chiami Tantra come la celebre dottrina filosofico-sessuale, pare dirla lunga) è la sodomia evocata negli aspetti più crudi ma disvelata come la chiave per “il più grande segreto dell’universo”. Dove al netto dell’oscenità (pederastia compresa, “non ha fatto altro che tentare di scrivere dei ‘Priapeia sub specie orientalis”) emerge talora qualcosa del Crowley poeta non disprezzabile. Il tutto glossato da considerazioni e note dal sembiante colto, e cifrato di minuziose informazioni magiche, insieme beffa per scandalizzare e irridere la religione tradizionale e forma di rivelazione esoterica – secondo una spiazzante procedura circolare presente in tutta la sua opera.

L’Introduzione dal sapore di autofiction è come al solito una compilazione dotta infarcita di scherzi maliziosi, dove Crowley si presenta come editore del volume; segue un articolo Sulla pederastia nello stesso spirito, evocando il Sir Richard Burton esploratore e pornografo, i sessuologi dell’epoca, i luoghi comuni puritani della sua Inghilterra. Seguono i testi, lirici e prosastici, con tanto di elenco I servitori di Belzebù, speculazioni sul formalismo religioso e l’incapacità del pensiero di percepire la realtà, ricette di afrodisiaci e tecniche erotiche… Dove l’interesse principale di questo testo semidimenticato, meritoriamente riproposto da Fincati, sta nel peso-chiave di un certo tipo di fantasie – in parte ovviamente ulceranti per la nostra sensibilità, come a proposito di pederastia – in quei pensiero & prassi di Crowley oggi letti in forme spesso un po’ modaiole e soft. Un destino che lo accomuna, in questo nostro tempo di Cinquanta sfumature frufru, a un altro grande provocatore a lungo considerato immenzionabile, cioè Sade.

In chiusura, un’affascinante e originalissima Appendice lumeggia la presenza di Crowley nella stampa francese, a partire dal 1894; e questi testi, insieme ad alcuni versi della raccolta (“Tu mi appartieni; infatti ti ho battuto da farti male: / più della tua bellezza mi piacciono le tue cicatrici”…) e proprio alla memoria di Sade introducono idealmente al secondo volume.

Giornalista su testate importanti e scrittore, William Seabrook (1884-1945) è oggi conosciuto soprattutto per The Magic Island (1929), il suo reportage sul Vudu ad Haiti che ha offerto allo zombie una notorietà pop tramite l’influsso sul film White Zombie di Victor Halperin (1932, con Bela Lugosi). Ma in realtà Seabrook scrive parecchi volumi, di viaggio (in Arabia, a Timbuctù…) e non. Si sarebbe tentati di definire i suoi interessi – è scettico, ma l’occulto lo strega – come di tipo antropologico, se non fosse che si spingono a esiti ben più radicali, coinvolti e torbidi (come quando si impunta per assaggiare la carne umana). Appassionato cultore del S/M in un mondo in cui non si usa parlarne tanto, morirà suicida per overdose di droga nel settembre 1945. Nel 2017 è uscita la sua biografia in forma di graphic novel, The Abominable Mr. Seabrook di Joe Ollmann (Drawn & Quarterly Pubns), testimone di un interesse pop per un personaggio tanto estremo. In compagnia di Crowley – i cui rituali non sono privi di qualche pratica sadomaso – il morbosetto Seabrook si trova senz’altro bene.

Proprio dai dialoghi con la Bestia (ospitata per una settimana nella sua fattoria in Georgia, autunno 1919), Seabrook trae nel 1923 una serie di dodici pezzi giornalistici per “The Indianapolis Star”. A presentarli ora nella bella collana “La Biblioteca di Lovecraft” per Arcoiris è Gabriele Scalessa, già apprezzato curatore di varie opere weird: si parte con un breve saggio illustrativo sul profilo della Bestia 666, utile a contestualizzare i racconti di Seabrook; segue una Nota biografica su quest’ultimo, e poi il testo – riccamente annotato – degli Oscuri segreti di Aleister Crowley, a riprendere liberamente il lunghissimo titolo della serie: anche se in realtà, a leggere attentamente, di Secrets da svelare (anche solo farlocchi, per autofiction del vanitoso Crowley) ormai non ce ne sono molti, il personaggio è studiatissimo. Ma il racconto è gustoso, vivido, e punteggiato di impagabili, eleganti, scandalistiche tavole d’epoca, per cui merita assolutamente la lettura. In Appendice, la traduzione delle pagine dedicate a Crowley nel saggio di Seabrook Witchcraft: Its Power in the World Today (1940).

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