Per quanto i ritmi a volte siano compassati, i dialoghi piani, sussurrati, avvolti da silenzi, e non si senta il suono di una sola palla di cannone, il film di Gianni Amelio “Campo di battaglia” è di fatto un film – manifesto contro la guerra, e si innesta in quello che è lo spirito dei tempi.
Il film è ambientato nella prima guerra mondiale: Giulio e Stefano sono due ufficiali militari che lavorano in un ospedale militare. C’è un rapporto di amicizia tra loro, ma hanno due concezioni profondamente diverse del lavoro che svolgono. Stefano, in stretto contatto con le gerarchie militari, ha l’obiettivo di rimandare in trincea “i falsi invalidi”, coloro i quali hanno adottate strategie di auto – infortunio per non andare in trincea, oppure hanno riscontrato ferite non così importanti sul campo di battaglia da escludere il loro ritorno. Giulio invece, attraverso una sotterranea opera di intervento, si occupa di mutilare o contagiare i soldati feriti pur di non farli andare o ritornare al fronte. Viene chiamato tra i soldati “la mano santa” per questo motivo. È il protagonista del film ed è simbolo di una presa di posizione anti – bellicista silenziosa, sottaciuta, non strillata, ma ferma e più solida di qualsiasi retorica proferita a voce stentorea.
Nel film si possono individuare tre “campi di battaglia”: il primo è quello della guerra, inesorabile, senza vincitori, un inferno i cui effetti si vedono sui fisici squartati delle persone (quando sopravvivono); poi c’è anche il campo di battaglia contro la malattia diffusasi nel 1918, “la spagnola”, affrontato nell’ultima parte del film. Negli stessi letti dove c’erano prima i soldati mutilati, si vedono anche donne e bambini perire mentre tra i lettini si muovono medici con le mascherine che ricordano situazioni simili (naturalmente con dinamiche del tutto diverse) non troppo distanti da quelle che abbiamo vissuto qualche anno fa durante la pandemia del Covid. E poi c’è un altro campo di battaglia, quello non visibile sul piano materiale, cioè quello ideologico.
Giulio si trova ad affrontare discussioni in cui gli viene riversata addosso la retorica bellicista propria della guerra, una retorica sciovinista, inesorabile e indiscutibile. Eppure la forza dei suoi sguardi e le sue parole stillate con parsimonia sono più convincenti di qualsiasi discorso: la prima guerra mondiale è stata un inutile macelleria di uomini (alla fine del film vengono dati i numeri delle vittime, si tratta di milioni di morti).
Altro aspetto rilevante del film, che il regista Amelio fa emergere, è la varietà di dialetti e quindi la provenienza diversa dei soldati feriti presenti nelle aule di ospedale. La guerra è stato un evento che ha unito l’Italia in modo tragico e traumatico, un aspetto che fa risentire gli echi de “La grande guerra” di Mario Monicelli, altro film contro la guerra che vinse esattamente settant’anni fa il “Leone d’oro” al Festival di Venezia, anno 1959 (anche il film di Gianni Amelio ha partecipato al Festival di Venezia, quest’anno).
Ora, il film di Gianni Amelio si innesta in una serie di film e serie tv che negli ultimi anni hanno avuto come per oggetto la guerra, cassa di risonanza inevitabile del contesto attuale di guerra globale tra l’Ucraina, supportata dalla NATO, e la Russia, sul suolo ucraino. In questi anni abbiamo visto infatti pellicole come “Niente di nuovo sul fronte Occidentale” del 2022 di Edward Berger, premiato agli Oscar con quattro statuette, altro film – manifesto contro la guerra; poi la pellicola di successo “Oppheneimer” di Nolan del 2023, che ci ha parlato della forza distruttrice delle armi nucleari e della storia del “padre della bomba atomica” durante il secondo conflitto mondiale. Un film molto valido certo, ma per essere apprezzato è giusto integrarlo con una critica a latere ed efficace di un altro regista americano, Spike Lee, che ha commentato: “Oppenheimer dura tre ore, potevano aggiungere qualche minuto in più mostrando quello che è successo al popolo giapponese. La gente è stata vaporizzata. Molti anni dopo, le persone erano ancora radioattive. Non è che Nolan non abbia il potere per farlo, dice agli studios cosa fare. Mi sarebbe piaciuto che la fine del film mostrasse gli effetti delle due bombe nucleari sul Giappone sulla popolazione”. In questo breve excursus vale anche la pena menzionare la puntata finale della serie “Black Mirror” del 2023, ovvero “Demone 79” che si conclude con un’apocalisse nucleare tra Russia ed Europa.
Bene, il cinema ci sta dicendo qualcosa forse; e si spera possa scuotere le coscienze in un clima di minacce dell’atomica (con questa minaccia da parte di Putin è iniziata la guerra in Ucraina) e continui rifinanziamenti della guerra senza prospettive di intermediazione diplomatica da parte dell’Occidente. Speriamo in una presa di posizione collettiva e dal basso per la pace, anche attraverso l’aiuto delle opere d’arte cinematografiche diffusesi in questi anni. Siamo già in quello che è oggi un “campo di battaglia”, in periodi in cui abbiamo sentito frasi di chiamata alla leva surrettizia come “o la pace o i condizionatori d’aria”.