Neuronormatività e capitalismo cognitivo: in dialogo con Robert Chapman

In seguito alla creazione della nuova rubrica di Psicologia Critica, presentiamo il primo articolo di approfondimento riguardo termini sociali e clinici sempre più presenti quali le neurodivergenze e le neuroatipicità, proponendo una lettura che possa essere critica di come determinate categorie emergono, e allo stesso tempo partecipativa, nella misura in cui essa è narrata da agenti che producono e sono prodotti dalle condizioni in questione.

Il 26 e il 27 giugno, presso il dipartimento di filosofia dell’università veneziana Ca’ Foscari, si è svolto uno dei workshop della serie “Language in Minds, Machines, and Milieus: A Modern Perspective on AI”, parte del progetto ERC Consolidator AIMODELS coordinato da Matteo Pasquinelli (professore associato in filosofia della scienza). Intitolato “The Mismeasure of Mind: Models of Intelligence and the History of Madness”, il terzo workshop della serie esplora il contrasto tra l’ambiente intellettuale che ha dato origine all’intelligenza artificiale e le teorie e pratiche critiche della salute mentale sviluppate nel XX secolo. Quali sono i diritti delle persone con disabilità mentale e delle menti non conformi nell’era dell’IA, un’epoca dominata dalla razionalità computazionale?

Partendo da questa domanda, per delineare possibili orizzonti, si sono svolte una serie di presentazioni di studi e lavori attorno al tema presentato, con la presenza di Franco Basaglia, Carles Guerra, Elena Vogman, Emanuel Almborg, Vladimir Safatle, Giorgi Kobakhidze e Robert Chapman. In particolare, con quest’ultimə si è discusso di neuronormatività, disabilità e menti divergenti nell’era del capitalismo cognitivo.

Neurodivergenza e neurodiversità sono termini di cui si sente parlare sempre più, principalmente in alcuni ambiti clinici, e sempre più attraverso i social media. Difatti, mentre neurodivergenza appare oggi spesso descritto come un vago termine clinico, nasce come concetto politico, che va ad inserirsi all’interno del movimento sociale per la neurodiversità, sorto a fine anni ’90 dagli spazi virtuali dove si ritrovavano persone principalmente autistiche. Si delinea dunque il concetto di “neurodiversità”, il quale significa “variazione nel funzionamento neurocognitivo”, e a partire dallo stesso si sviluppano delle riflessioni che sono epistemologicamente radicate nel modello sociale della disabilità ed affini ai Mad Movements.

Un’importante nota sul linguaggio all’interno di questo paradigma: la neurodiversità indica la variabilità di cervelli tra umani; dunque, una persona neurotipica è neurodiversa rispetto a una persona autistica, come una persona autistica lo è da un’altra persona autistica, e viceversa. La parola neurodivergente è anch’essa un termine politico, in seguito adottato da alcune figure professionali, creato originariamente da Kassiane Asasumasu, per indicare qualsiasi neurotipo che, per qualsiasi ragione, diverga dalla norma. Può essere dunque esteso a persone ADHD, epilettiche, dislessiche, bipolari, ai disturbi di personalità, ecc, ed è, per sua natura, un concetto dinamico. In altre parole, neurodivergenti si nasce (la divergenza nel funzionamento neurocognitivo appare dunque ascritta all’ordine genetico fin dalla nascita) o si diventa (in seguito a un cambiamento nelle stesse funzioni nel corso della vita per qualsiasi ragione, ad esempio, a causa di un cambiamento incidentale, delle condizioni materiali circostanti o dell’invecchiamento).

Robert Chapman, filosofə inglese dichiaratamente neurodivergente e professorə della cattedra di Critical Neurodiversity Studies presso la Durham University, si occupa da tempo di teoria della neurodiversità, di follia e di disabilità. Le sue riflessioni possono essere trovate, oltre che all’interno della sua produzione letteraria accademia, nel suo blog “Critical Neurodiversity”. Il secondo giorno del workshop, presso Ca’ Bottacin, si è svolta la presentazione del suo libro “Empire of normality: neurodiversity and capitalism”, uscito nel 2023 per Pluto Press, testo che segna un momento rivoluzionario nelle discussioni filosofiche e politiche sulla psichiatria e la salute mentale.

All’interno del suo libro, Chapman evidenzia come il lavoro di Francis Galton in statistica, che ha influenzato le moderne concezioni di normalità e deviazione, insieme all’ascesa del capitalismo, abbia imposto norme sempre più rigide sul funzionamento mentale e fisico. Questo ha contribuito all’aumento di varie forme di disabilità, tra cui autismo e ADHD, oltre a un peggioramento della salute mentale con crescenti tassi di depressione e ansia. Chapman sostiene che questo incremento non è un’illusione o una semplice patologizzazione del disagio ordinario, come sembrano sostenere molti critici, ma un fenomeno reale plasmato da forze socioeconomiche e strutturali e inevitabilmente legato al contingente “capitalismo cognitivo”.

Quest’ultima nozione, che si riferisce al periodo sorto a partire del postfordismo, volge a sottolineare il cambiamento dal capitalismo industriale tradizionale, basato principalmente sulla messa a valore del lavoro fisico, verso un modello produttivo che ha la sua centralità nella conoscenza e nell’informazione, andando così a creare un’alienazione “cognitiva”.

La nozione di capitalismo cognitivo non è priva di critiche, come individuato da Tiziana Terranova nel suo saggio “Psicopatologie ordinarie del capitalismo cognitivo”, contenuto all’interno del suo libro “Dopo internet: le reti digitali tra capitale e comune”. Concentrarsi sulle capacità cognitive del lavoro vivo come fonte di valore comporta un’eccessiva enfasi sulle dimensioni simboliche e linguistiche, che rischia di sottovalutare la centralità della dimensione affettiva e precognitiva nei processi del capitalismo contemporaneo, oltre a ridurre l’importanza del ruolo attivo delle macchine tecniche.

Tuttavia, sia nel testo di Terranova che, seppur in maniera minore, nel libro di Chapman, vi è un ritorno anche ai processi libidinali, soggetti alle regole dell’economia. La distinzioni tra casa e lavoro, pubblico e privato, occupato e disoccupato sono difatti crollate man mano che il lavoro diventava precario mentre i lavoratori diventavano sempre raggiungibili tramite telefono ed e-mail. Navigare online oggi significa essere costantemente bombardati da pubblicità, fornire costantemente dati ed informazioni, e pubblicare sui social media crea contenuti che vengono poi trasformati in profitto dal proprietario del sito (in questa analisi Chapman rimanda alle osservazioni di Franco Berardi).

Questo tipo di instabilità e fluidità contribuisce a una costante depressione, ansia e panico, tutti problemi che sono diventati sempre più prevalenti verso la fine del XX secolo, e ha fatto un balzo in avanti nelle economie post-Fordiste dopo la svolta del millennio. E, come nota Terranova, durante i primi anni Dieci del Duemila, l’investimento sulla “svolta neurologica” ha scalzato le scienze della vita tipiche degli anni Novanta per spostare l’investimento sulle scienze del cervello e le tecnologie dell’intelligenza artificiale. Non solo, la rivoluzione digitale, scrive invece Chapman, ha comportato una conseguente restrizione della definizione di normalità, innescando un processo a catena: “L’intensificazione sensoriale e cognitiva del capitalismo ha fatto sì che un numero molto più elevato di persone fosse escluso dall’istruzione o dal lavoro, almeno in misura diversa, e quindi danneggiato in modo diverso. Piuttosto che essere posizionati come lavoratori ‘ordinari’ con problemi di salute mentale, sono stati disabilitati e spinti verso la popolazione in eccedenza, anche se alcuni sono riusciti a lavorare nonostante questo. In questo contesto, le nuove diagnosi di disabilità, chiamate “shadow sindromes” (versioni più “leggere” delle diagnosi esistenti) hanno cominciato ad essere applicate sempre più durante l’infanzia e anche agli adulti. Un numero maggiore di persone è stato considerato inadatto ai bisogni e all’organizzazione della nuova economia e alle sue esigenze sensoriali, cognitive ed emotive. Un esempio chiave è definitivo della nostra epoca: l’autismo. Quando si tratta di esigenze di socialità, iper-flessibilità e lavoro emotivo, non è solo che i livelli di stress sono aumentati nella popolazione generale. La diagnosi di autismo, che in precedenza era stata limitata a un numero relativamente limitato di casi, è stata radicalmente ampliata. L’ampliamento dell’autismo in uno spettro è stato suggerito per la prima volta provvisoriamente nel 1979, anno in cui Thatcher divenne primo ministro, e ha cominciato ad espandersi nel decennio successivo”.

In seguito, continua: “Non sono rilevanti qui solo le esigenze emotive dell’economia dei servizi, ma anche gli ambienti sensoriali e informativi invasivi del mondo moderno, dove le relazioni economiche richiedono un bombardamento costante di luci, pubblicità, schermi e così via”: Il cervello flessibile e neuroplastico è dunque la nuova immagine del capitalismo di rete. Con la sua analisi, Chapman sviluppa una visione del marxismo neurodivergente, offrendo un’interpretazione della storia e della politica della neurodiversità attraverso la teoria marxista.

Prima dell’inizio della presentazione del suo libro, ho avuto modo di conversare con Chapman attraverso una breve intervista.

MB: Nel tuo libro, sei criticə di alcuni approcci comunemente definiti come pensieri antipsichiatrici, che definisci come una “critica borghese” la quale mira a sostituire le etichette diagnostiche con formulazioni psicologiche. Mentre ci sono validissime ragioni per criticare il costrutto di diagnosi, tu stessə, anche in un articolo in “Psychology Today” incentrato attorno alla biopolitica della diagnosi, sottolinei alcune problematiche di questo cambio di paradigma. Negli ultimi anni, alcuni professionisti della salute mentale, come psicologi, psichiatri e psicoterapeuti critici, hanno messo in discussione la validità scientifica e l’utilità delle diagnosi psichiatriche, proponendo la formulazione psicologica come alternativa. In particolare, nel Regno Unito, questa idea ha guadagnato terreno, con importanti istituzioni come la British Psychological Society che promuovono la formulazione come un’opzione superiore. I critici sostengono che le diagnosi psichiatriche sono costruzioni normative decise da comitati, spesso influenzate da interessi personali, e usate per controllare il dissenso, depoliticizzando il disagio mentale per rafforzare il controllo sociale. In risposta, propongono la formulazione psicologica, che cerca di comprendere il disagio in un contesto più ampio e umano, come alternativa epistemicamente liberatoria. Tuttavia, questa critica presenta delle problematiche. In realtà, tutte le diagnosi mediche, non solo quelle psichiatriche, sono normative e decise da comitati, e sono il risultato di un continuo processo di co-creazione influenzato anche da chi è classificato. Inoltre, il rifiuto totale delle diagnosi in favore della formulazione potrebbe essere dannoso, poiché la formulazione dà più potere a pochi professionisti rispetto al processo di revisione pubblica delle diagnosi, che coinvolge una varietà di voci e minimizza i bias. Infine, le classificazioni come autismo o sono cruciali per il riconoscimento e l’organizzazione politica di gruppi marginalizzati. Eliminare tali categorie rischia di negare la realtà delle forme specifiche di discriminazione e abilismo che questi gruppi affrontano. Perciò, l’abbandono totale delle diagnosi in favore della sola formulazione psicologica non sembra offrire un potenziale radicale o emancipatorio significativo. Ma da dove deriva questa tradizione antipsichiatrica?

RC: Sì, quelle analisi sono state davvero sviluppate principalmente negli anni ’60 e’ 70, a partire dal lavoro di Thomas Szaz, un medico libertario di destra, che alla fin fine, sosteneva che la malattia mentale non esiste. Un’antipsichiatria che poco se non nulla aveva a che fare con l’italiano Basaglia, che non avrebbe mai negato la realtà della sofferenza delle persone ed era un’antifascista. Il problema è che le critiche odierne, principalmente anglo-americane, ispirate a Szaz, sono pressoché rimaste immutate, mentre il mondo è cambiato molto. Ora abbiamo i diritti della disabilità, che sono stati conquistati a fatica dalle persone disabili. Questi diritti richiedono un riconoscimento ufficiale per essere effettivamente accessibili. Non è una situazione ideale, ma è la realtà in cui viviamo: senza questo riconoscimento, le persone non possono accedere ai diritti, apportare cambiamenti sul lavoro o nell’istruzione, o respingere le norme oppressive del capitalismo.

E chi odia tutto questo? I capitalisti, che fanno di tutto per negare la realtà di queste disabilità, perché riconoscerle significherebbe dover fare accomodamenti che minano il loro potere. Non è un caso che un simile approccio sia sostenuto da un sacco di politici e giornalisti di destra molto ricchi. Inoltre, queste analisi furono sviluppate, i diritti della disabilità non erano neanche lontanamente in vigore, e ciò cambia tutto. La vecchia visione dualistica del mondo, dove o qualcosa è reale e naturale oppure è una semplice etichetta, non regge più, non è così semplice.

Negli ultimi decenni, studi critici e di filosofia della scienza hanno dimostrato come concetti come genere e razza non siano naturali o oggettivi, ma costruzioni sociali con un impatto reale sulla nostra vita. Negare queste realtà non fa altro che rinforzare le strutture di potere che ci opprimono. Lo stesso vale per le disabilità neurodivergenti: non sono, per forza, naturali o oggettive o “innate” nel senso tradizionale, ma sono disabilità reali prodotte storicamente e materialmente. Ecco il punto: negare le diagnosi, pur riconoscendo che ci sono ottime ragioni per criticarle, è una strada senza uscita. Le diagnosi possono essere dannose ed epistemologicamente violente, certo, ma rifiutarle del tutto impedisce, in questo momento storico, l’organizzazione collettiva e l’accesso ai diritti.

Non è utile né emancipatorio dividere il mondo in categorie rigide come neurodivergenti e neurotipici, ma nemmeno è utile negare la realtà delle disabilità. Dobbiamo riconoscere queste realtà per poterle combattere e cambiare il mondo, altrimenti continueremo solo a perpetuare lo status quo.

MB: Insomma, si può riconoscere che la diagnosi, o l’autoidentificazione in essa, è un costrutto contingente in tempo e spazio e non strettamente empirico o ascritto a funzionamenti innati, e allo stesso tempo riconoscerne l’utilità epistemologica, materiale e collettiva. Riguardo a questa, forse apparentemente rigida, distinzione neurodivergente-neurotipico invece, mi domando: nel capitalismo cognitivo, chi è il neurotipico? Si tratta, anche qui, di un neurotipo organico riscontrabile, o più un ideale galtoniano di funzionamento?

RC: Non esiste una definizione naturale o universale di neurodivergenza. È una costruzione sociale che cambia con le norme culturali, non una caratteristica fissa del cervello. La neurodivergenza è identificata principalmente attraverso comportamenti che deviano dalla norma, e viene mappata clinicamente su abilità o disabilità cognitive attraverso metodi scientifici, come le mappature cerebrali (ad esempio, l’MRI), ma non è rilevante per questo dibattito.

Tuttavia, tutto ciò è intrinsecamente sociale, senza una linea di demarcazione naturale. Ad esempio, essere mancini potrebbe essere visto come una forma minima di neurodivergenza, perché cade leggermente al di fuori delle norme, ma non al punto da essere considerato una disabilità. Chi è autistico o ADHD è considerato più prototipicamente neurodivergente. Ma queste norme cambiano: 100 anni fa, l’essere mancini era molto più stigmatizzato, quindi sarebbe stato considerato più neurodivergente. Nulla è cambiato nel cervello delle persone, solo le condizioni sociali e culturali sono mutate. La neurodivergenza, quindi, non è un concetto binario rigido, ma dinamico, in continua evoluzione come le norme sociali e le definizioni di disabilità.

MB: In sostanza, il “neuro” in neurodivergente, neurotipico, neurodiversità, non ha dunque un carattere biologicamente essenzialista, al contrario, è un tentativo di politicizzare quello stesso “neuro”. Ed essendo, appunto, concetti dinamici ed in relazione agli elementi del nostro tempo, forse un giorno questi stessi termini non saranno più d’uso per delineare un concetto o un’organizzazione collettiva. Infine, volevo chiederti, nel tuo libro delinei che il movimento per la neurodiversità, sebbene abbia portato a un cambio di paradigma nella ricerca e nella descrizione delle persone neurodivergenti, sia ancora asservito a logiche neoliberali. Per questo, nel tuo libro, emerge la necessità di un delinei ciò che hai denominato “marxismo neurodivergente”. Come si è delineata questa necessità?

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RC: Il movimento per la neurodiversità è emerso in un periodo storico specifico, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, quando dominava l’idea che non esistesse alternativa al capitalismo. In questo contesto, l’azione politica si è limitata a piccole riforme interne al capitalismo, migliorando la vita di alcuni gruppi senza sfidare le strutture fondamentali del sistema. Il movimento per la neurodiversità ha adottato queste ipotesi dominanti, concentrandosi sui diritti, che sono utili ma non sufficienti a cambiare le strutture profonde della società.

Il capitalismo, sostengo, è il principale determinante della neuronormatività; quindi, non si può uscire da questa condizione senza superare il capitalismo. Le modifiche che si possono apportare sono limitate e localizzate; la vera liberazione richiede un approccio più radicale. Inoltre, è cruciale discutere di abilismo negli spazi rivoluzionari di sinistra. L’eugenetica, spesso associata all’estrema destra e al nazismo, è in realtà un’ideologia che ha attraversato tutto lo spettro politico, inclusi liberali e socialisti. Per esempio, ci sono alcuni conservatori cristiani che sono molto contrari all’eugenetica perché hanno un certo tipo di credenze religiose che lo contraddicono.

Anche oggi, molte persone di sinistra adottano inconsapevolmente logiche eugenetiche. Ad esempio, affermare che le persone autistiche non dovrebbero essere soggette all’eugenetica perché possiedono abilità utili alla società implica che chi non è utile dovrebbe invece esserlo. Questo tipo di logica è eugenetica, anche se non lo si riconosce. L’eugenetica è ancora molto presente e pervasiva, attraversando tutto lo spettro politico, ed è qualcosa che dobbiamo riconoscere come un problema attuale, non relegato al passato o a un’unica ideologia politica.

In conclusione, l’obiettivo della neurodiversità è, semplicemente, aiutarci a capire un’altra forma di dominio, che riguarda la nostra capacità in termini di funzionamento mentale, cognitivo, emotivo e tutto ciò che vi è correlato, come i nostri desideri, gli affetti e, a volte per procura, anche i nostri comportamenti, perché le persone leggono le nostre menti attraverso i nostri comportamenti. La neurodivergenza riguarda un’emergente e sempre mutevole classe di persone leggermente (o più) distinta, che respinge un paradigma scientifico e culturale che impone la normalizzazione e la normalità come ideali e che fa sembrare la normalità naturale e giusta, piuttosto che qualcosa che è storicamente specifico e socialmente e materialmente prodotto, verso una liberazione collettiva.

Referenze:

Empire of normality: neurodiversity and capitalism, Robert Chapman, 2023, Pluto press

Neurodiversity and the biopolitics of diagnosis, Robert Chapman, 2021, Psychology Today

Dopo internet: la reti digitali tra capitale e comune, Tiziana Terranova, 2024, Edizioni Nero

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