Contro il patrocinio della partita Italia-Israele la popolazione scende in piazza

Per affermare i propri interessi, le potenze non si avvalgono solo della forza militare. Accanto e oltre alla guerra sul fronte, molte e diverse altre guerre vengono combattute, sul piano economico, della comunicazione e della diplomazia. Infatti, essendo la guerra così costosa in termini umani ed economici, è naturale che qualsiasi Paese vi prenda parte con altri mezzi per acquisire influenza nel contesto internazionale. 

Forse l’opzione migliore è quella di assicurarsi una buona immagine, un prestigio e un’aura di rispettabilità. Naturalmente, l’immagine migliore può variare a seconda del contesto regionale. L’Arabia Saudita, ad esempio, non è vista in Europa come in Medio Oriente, così come la Russia non è vista in Asia come in Nord America. Ma, e questo è stato indiscutibile almeno fino a quando la Cina non è diventata una vera minaccia per l’egemonia globale degli Stati Uniti, per migliorare la propria posizione negoziale le potenze hanno cercato di acquisire appoggio e sostegno da parte dell’Occidente. Le dinamiche politiche interne di chi si trova in questo campo, tuttavia, rendono l’opinione pubblica un fattore ancora più decisivo che nei Paesi in cui il potere è limitato a particolari saghe familiari o lobby. Ma mantenere buone relazioni con l’Occidente è nell’interesse dei Paesi quanto restituire ai propri cittadini la buona immagine che questi si aspettano. Queste forme di relazioni diplomatiche si inseriscono nelle dinamiche belliche e fanno il loro pezzetto come lo fanno l’impiego delle armi o il finanziamento di risorse militari.

Un Paese può cercare di ripulire o migliorare la propria immagine in molti modi; deve solo far sì che il suo nome non venga associato ai patti sporchi che vorrebbe evitare di mostrare, ma piuttosto a successi di vario tipo.

Il ruolo che il mondo accademico o gli istituti di ricerca svolgono in questo senso è evidente, ad esempio, nel caso di Israele, molte delle cui università sono ai vertici delle classifiche di qualità della ricerca; o dell’Arabia Saudita, che negli ultimi anni ha optato per una politica di attrazione dei ricercatori più citati in ogni specialità, per aumentare la presenza delle sue università nelle pubblicazioni di maggiore impatto. Lo sport si inserisce in queste logiche di pulizia dell’immagine di un Paese. Ci sono esempi storici, come le Olimpiadi tenutesi nella Germania di Hitler, i Mondiali di calcio tenutisi nell’Italia di Mussolini o gli Europei di calcio del ’64 nella Spagna di Franco; o esempi più recenti, come i Mondiali di calcio tenutisi in Qatar, dove sono stati documentati fino a seimila morti tra i lavoratori immigrati impiegati nella costruzione degli stadi realizzati per l’occasione.

Si dice spesso che lo sport è neutrale, non politico, che al contrario è un mezzo per costruire ponti. Se gli esempi precedenti non bastano a convincere del contrario, un’altra prova che lo sport, almeno ad alti livelli, non è affatto neutrale, è il suo utilizzo come arma politica: pochi mesi dopo l’invasione dell’Ucraina, la FIFA ha vietato alla nazionale maschile russa di partecipare alla Coppa del Mondo di calcio. Quindi, in effetti, gli eventi sportivi di particolare importanza sono una vetrina che offre ai loro partecipanti l’opportunità di ripulire la propria immagine, sponsorizzati da questa idea che lo sport è, in sostanza, uno strumento per unire persone diverse, ma anche il pulpito da cui si può condannare una nazione negandole il diritto di partecipare. Ma allora, se giustamente Russia non meritava partecipare ai Mondiali, con quale pretesto si può permettere a Israele, ad esempio, di partecipare alla Nations League? Perché Israele, colpevole dell’invasione e dell’annientamento sistematico della popolazione nativa dei territori che occupa da quasi otto decadi, non è stato espulso da questa competizione? La ragione è chiara: se le competizioni e istituzione sportive possono servire come strumento politico, allora la FIFA, la UEFA, ecc. saranno usate come tale. Ma quindi le sue azioni avranno la direzione del campo di cui fanno parte: la Russia non è un alleato del campo dell’Europa, a cui la UEFA appartiene, ma Israele lo è. Le istituzioni europee, permettendo la sua partecipazione a competizioni sportive, festival ed eventi culturali, riciclano l’immagine pubblica di Israele in Europa, ignorando, minimizzando e banalizzando i suoi crimini, paragonandoli a quelli della Russia e decidendo che non meritano la stessa durezza.

Ma sappiamo dei crimini di Israele. La sua potente e abile propaganda, a cui l’Occidente dà voce, non è più in grado di mettere a tacere le atrocità commesse. Possiamo quindi affermare, sicuri che la verità è con noi, che lo sport, la cultura in generale, non è neutrale. È un altro campo di lotta. E ci obbliga a partecipare con determinazione e a lottare contro discorsi vuoti, quasi stupidi, dove la parola pace, usata come elemento decorativo, viene privata di tutta la sua forza.

Il 14 ottobre a Udine verrà disputata la partita Italia-Israele della Nations League. La regione Friuli Venezia Giulia e il Comune di Udine hanno concesso il patrocinio all’evento. Secondo le istituzioni, una posizione diversa sarebbe risultata divisiva e avrebbe così disatteso l’intento profondo dello sport come occasione di unione tra popoli e Nazioni. Ma il rifiuto da parte delle istituzioni di prendere una posizione netta in merito alla partecipazione della squadra di calcio di Israele alle UEFA Nations League nasconde, in realtà, la legittimazione dell’operato di Israele nei confronti del popolo palestinese in una guerra sanguinosa iniziata ormai un anno fa. Per questo motivo, lo stesso giorno della partita, alle 17 il Comitato per la Palestina – Udine, la Comunità palestinesi del Friuli e del Veneto, l’ODV Salaam ragazzi dell’olivo e Giovani Palestinese Italia – Friuli Venezia Giulia GPI-FVG invitano tuttə a Udine a partecipare al corteo contro la partita Italia-Israele, per mostrare che, se non saranno le istituzioni, sarà una parte sempre più grande della popolazione a prendere una posizione netta, a esprimere il dissenso, a rifiutare il paradigma della forza esercitato dalle potenze egemoni ai danni del popolo palestinese.

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