Tra limiti e potenzialità, in un contesto di paura, odio e violenza, il 1° luglio 2024, alla Menora Arena di Tel Aviv si svolgeva la prima conferenza di pace organizzata dopo il 7 ottobre. Sebbene si tratti del più grande raduno del centrosinistra israeliano dai tempi di Oslo per rilanciare un programma pacifista e di dialogo tra israeliani e palestinesi, sono in molti a ritenere che le possibilità di evolvere in un progetto di massa siano scarse. Un’analisi critica dell’incontro e delle sue prospettive future. Articolo originale da +972, traduzione Elisa Brunelli.
A prima vista, la conferenza di pace israelo-palestinese tenutasi a Tel Aviv il 1° luglio appariva scollegata, quasi delirante. E sotto alcuni aspetti lo era davvero.
Con circa 6.000 partecipanti, l’evento è stato il più grande raduno anti-guerra del paese dall’ottobre scorso, al di fuori delle proteste di piazza. Mentre la gente entrava nella Menora Arena, schermi giganti proiettavano un video del 2019 su un gruppo di musicisti della città meridionale di Sderot che si erano uniti a un gruppo di Gaza per creare insieme un video musicale e di danza. Come per sottolineare ulteriormente la netta distanza tra quel periodo e l’attuale, è seguito immediatamente un segmento della canzone “Imagine” di John Lennon.
Questa atmosfera idilliaca all’interno dello stadio è stata infranta dal primo gruppo di oratori che sono saliti sul palco: cittadini israeliani e palestinesi, i cui familiari sono stati uccisi o rapiti nell’attacco guidato da Hamas nove mesi fa, o uccisi nel successivo bombardamento di Gaza da parte di Israele. Una delle oratrici, Liat Atzili, è stata lei stessa rapita e tenuta in ostaggio fino alla fine di novembre.
Ascoltare le storie personali di orrore di ciascun oratore era come ricevere pugni nello stomaco ripetutamente. Non c’era quasi un occhio asciutto nel pubblico — soprattutto quando leggevano collettivamente la poesia “Revenge” del defunto poeta palestinese Taha Muhammad Ali, come una dichiarazione collettiva contro la vendetta. Tra una storia e l’altra, in quello che sembrava un divario emotivo incolmabile, venivano cantati inni di pace per tutto l’evento, tra cui l’ispirante “Today”, “The Prayer of the Mothers” e “Song for Peace” — associata per sempre all’assassinio del Primo Ministro Yitzhak Rabin — accolti con applausi festosi e danze entusiaste.
Era difficile conciliare la dissonanza tra questi momenti di giubilo e la realtà esterna. L’offensiva di Israele ha ucciso quasi 40.000 palestinesi, distrutto l’intera Striscia di Gaza, costretto centinaia di migliaia di persone a vivere in tende senza cibo e imprigionato migliaia di altri in campi di prigionia in condizioni di tortura e abuso. Nel frattempo, dall’attacco del 7 ottobre che ha ucciso circa 1.200 israeliani, decine di migliaia di persone sono ancora sfollate dalle loro case nel nord e nel sud del paese, e il destino degli ostaggi rimasti in cattività continua a destare forte preoccupazione.
Inoltre, mentre la folla nello stadio stava ballando, l’esercito israeliano ha ordinato a migliaia di persone nella città di Khan Younis di fuggire in vista di un’altra incursione di terra. Nessuno degli oratori ha parlato di quanto stava accadendo in quel momento, e si è parlato molto meno degli orrori della guerra di quanto ci si sarebbe aspettato.
La dissonanza è stata ulteriormente esacerbata dall’assenza di soluzioni reali ai grandi problemi che affrontano oggi le società israeliane e palestinesi. Molti degli oratori hanno chiesto un cessate il fuoco immediato e uno scambio di ostaggi-prigionieri, alcuni hanno menzionato vagamente un “accordo politico”, e pochi altri hanno parlato di “due stati”. Ma per tre ore, nessuno dei numerosi oratori ha delineato un piano concreto per il campo pacifista che questo evento intendeva resuscitare.(Gli attivisti per la pace Maoz Inon e Aziz Abu Sarah, tra i promotori della conferenza, hanno assicurato che stanno lavorando a un piano dettagliato che sarà presto reso pubblico.)
Dal punto di vista pragmatico, qualsiasi grande mobilitazione israeliana per la pace deve inevitabilmente tener conto delle esigenze di sicurezza, e questo è un dibattito che dobbiamo continuare a sviluppare a sinistra. Ma nessuno alla conferenza ha suggerito come affrontare le sfide di Hamas e Hezbollah oltre il breve termine, né la crescente illegittimità dell’Autorità Palestinese tra i palestinesi — questioni molto reali e urgenti per tanti israeliani.
Per la maggior parte, la migliore risposta della sinistra israeliana è che queste minacce scompariranno quando l’occupazione finirà e sarà raggiunto un accordo di pace. Ma questo non placa le paure esistenziali della maggior parte degli israeliani, che sono ancora traumatizzati dal 7 ottobre e temono che possa accadere di nuovo. In assenza di tali risposte, sarà difficile offrire un’alternativa all’egemonia assoluta della destra nella politica israeliana.
“Speranza come verbo”
Nonostante tutto questo, c’è un altro modo di guardare a questo evento. Oltre alla guerra, c’è un contesto sociale ed emotivo in cui la conferenza si è svolta: una società permeata da paura, odio, disperazione, razzismo e crudeltà.
Gli israeliani si trovano di fronte a un panorama politico in cui c’è praticamente un rifiuto totale — da parte di figure come Itamar Ben Gvir e Yair Lapid — della necessità di un accordo politico, di giustizia per i palestinesi e di una vera collaborazione ebraico-araba. Stiamo affrontando un mainstream mediatico che per anni ha cercato di nascondere l’occupazione e l’assedio al pubblico israeliano, e ora sta occultando la verità sui terribili crimini di guerra che Israele sta commettendo a Gaza e nelle sue strutture detentive, mentre reprime qualsiasi voce critica per la pace e la giustizia.
Anche la conferenza per la pace ha ricevuto scarsa attenzione dai media locali; l’unica menzione in un telegiornale ha mostrato frammenti dell’attacco del 7 ottobre intervistando un partecipante alla conferenza, quasi a suggerire agli spettatori chi questi attivisti desiderano coinvolgere nella pace.
Di conseguenza, un incontro che potrebbe sembrare distante, con discorsi apparentemente banali ripetuti per ore, ha rappresentato in realtà qualcosa di rivoluzionario.
L’evento ha riunito sopravvissuti ebrei e palestinesi, sfollati, ex prigionieri, famiglie in lutto, attivisti, funzionari della sicurezza, figure religiose e culturali, intellettuali e parlamentari attuali ed ex per riaffermare un impegno comune per la giustizia, la nonviolenza, la collaborazione, l’uguaglianza, la democrazia, l’autodeterminazione, la sicurezza, la libertà e la pace per tutti coloro che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. È stata una proposta radicale di speranza.
Come ha sottolineato Maoz Inon sul palco quella sera, la speranza non è qualcosa che si trova o si possiede, ma piuttosto deve essere vissuta come un’azione. In un momento in cui il discorso pubblico è pervaso da idee genocidarie, riaffermare i nostri valori fondamentali condivisi e ricostruire un senso di comunità sono rituali vitali e urgenti.
Senza una visione che riconosca l’esistenza di due popoli destinati a convivere per sempre su questa terra, e che la convivenza è possibile, sarà impossibile costruire un movimento alternativo alle correnti predominanti dell’ultranazionalismo. Senza consenso su questi valori fondamentali, sarà impossibile proporre soluzioni sostenibili che beneficerebbero entrambi i popoli.
Ma anche a livello politico, ci sono stati momenti importanti alla conferenza. Diversi palestinesi che sono saliti sul palco hanno parlato della Nakba e del suo significato personale — come i membri delle loro famiglie estese furono sfollati a Gaza nel 1948 e come quegli stessi parenti oggi sono vittime delle bombe israeliane. Questa connessione del popolo palestinese in tutte le sue parti, attraverso i confini, è raramente compresa dalla società ebraico-israeliana, e c’è valore nel portarla in primo piano. L’insistenza sul trattamento equo di tutti coloro che vivono tra il fiume e il mare è anche uno sviluppo positivo nel più ampio discorso di sinistra in Israele.
Due video proiettati durante l’evento hanno mostrato come la speranza possa passare da un concetto astratto a passi concreti. Il primo ha presentato attivisti e organizzazioni palestinesi nei territori occupati che lottano contro l’apartheid insieme a gruppi israeliani impegnati per l’uguaglianza e la pace. Il secondo ha evidenziato una serie di conflitti sanguinosi — come in Sudafrica, Irlanda del Nord, Rwanda e tra Israele ed Egitto — in cui porre fine all’oppressione e all’ingiustizia, e cercare la riconciliazione, ha contribuito a risolvere quei conflitti.
Immaginare un futuro
Per iniziare a discutere del futuro, è essenziale prima fermare la guerra, la distruzione e la prigionia. Ma per il campo pacifista, per raccogliere il potere e l’influenza necessari per portare un cambiamento reale in Israele-Palestina, c’è ancora molta strada da fare, con numerosi ostacoli da superare lungo il cammino.
Sviluppare un piano dettagliato su come garantire sicurezza e uguaglianza per entrambi i popoli è una sfida. Il notevole divario tra la presenza significativa dei palestinesi sul palco e il limitato numero di palestinesi nel pubblico sottolinea un problema urgente che il movimento deve affrontare (Inon e Abu Sarah hanno promesso futuri eventi anche nella Cisgiordania occupata).
Solo quattro membri in carica della Knesset hanno partecipato all’evento (Ayman Odeh, Ofer Cassif, Naama Lazimi e Gilad Kariv), mentre Yair Golan, il leader della nuova fusione tra il Partito Laburista e Meretz chiamata “I Democratici”, non era presente; ciò dimostra quanto sia distante questo movimento dai centri di potere.
Un discorso commovente dello scrittore palestinese Muhammad Ali Taha, ricco di umorismo e compassione ma tagliente nella sua critica sia verso Israele che verso Hamas, è in grado di cogliere l’essenza di ciò che la conferenza cerca di far rivivere. Parlava degli orrori della guerra attuale, dei principi di una soluzione politica e di un futuro immaginato in cui entrambe le nazioni giocheranno a calcio, ascolteranno musica e celebreranno la vita “a Gerusalemme Ovest, capitale di Israele, e a Al-Quds Est, capitale della Palestina, così come a Tel Aviv, Ramallah, Beer Sheva e Gaza.”
Taha può sembrare un sognatore, ma nelle parole di Lennon, e come dimostra la conferenza, non è l’unico.
Immagine di copertina: foto di Oren Ziv