di Franco Pezzini
Dietmar Dath, L’abolizione delle specie, cura e trad. dal tedesco di Paola Del Zoppo con la collaborazione di Elena Germani, Marta Pacciani e Beatrice Sensini, pp. 496, € 32, Nero, Roma 2024.
“Un’allegoria politica grandiosa, come non se ne vedevano dai tempi della fantascienza russa di metà Novecento”, scrive il “Library Journal”, e per un testo tanto particolare non è male vagliare la recezione, i commenti e gli eventuali imbarazzi della stampa. Ma forse, per cominciare, è meglio spingersi un passo indietro, al primo passaggio di L’abolizione delle specie in lingua italiana: perché tradurre un testo estremo e diluviale come questo è anzitutto un atto straordinario di fiducia nella parola e nella sua capacità di aprire a mondi diversi, impensati e impensabili – un co-creare con l’autore e, ancor prima, un con-sentire con lui. Più che un abolire, dunque, un creare nuove vie, fluide il necessario, per pensare la realtà: e non si tratta di un correre dietro ad antispecismi non privi di qualche dimensione equivoca, ma di provocare sull’utilizzo ingenuo di categorie. In un’epoca oltretutto in cui l’idea di razza è tornata a emergere con tracotanza dalle fognature della storia.
Proseguiamo col dire che Dietmar Dath, classe 1970, è narratore, poeta e drammaturgo con ottime conoscenze musicali (è stato collaboratore del duo di musica elettronica Mouse on Mars) e riconosciuta statura letteraria e culturale ad ampio raggio (vincitore del Premio Günther Anders per il pensiero critico, 2018, e del Premio culturale Reinhold-Schneider a Friburgo, 2020): abilità e sensibilità che emergono tutte nella sua scrittura. Critico per il “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, ex caporedattore della rivista “Spex”, ha pubblicato una quindicina di romanzi e vari saggi su temi politici e scientifici. Per “Die Welt”, Dath è “l’ultimo vero profeta della letteratura tedesca, un esploratore del linguaggio per il quale non esistono limiti o barriere: il suo mondo è completamente folle”; e per il suo orizzonte a base di “Marx, Darwin, fantasy, heavy metal, zombie e genetica”, “Der Spiegel” ha parlato di “un mix selvaggio”. Folle e selvaggio… Ciò che specialmente vale per il suo capolavoro, questo Die Abschaffung der Arten, 2008, che ha vinto nel 2009 il Premio letterario Kurd Laßwitz, il più prestigioso riconoscimento per la SF tedesca.
La storia si articola su un arco temporale di 1500 anni, grondanti insieme incanto e disillusione. Il mondo degli uomini – l’età della Noia – è tramontato, e in una riscrittura di ogni teoria evoluzionistica a subentrare nel Vecchio Mondo sono stati i Gente, creature in parte umane e in parte animali (possono scegliere come cambiare, senza vincoli morali) governate dal distaccato, carismatico e ingombrantissimo Cyrus Golden, il Leone. Senza impedire però che altre forze si mettano in moto: non solo le ultime resistenze degli umani, ma i misteriosi Atlantidi delle profondità marine e alcune fazioni animali ribelli. In più, oltre l’oceano, nella giungla amazzonica inizia l’ascesa di una nuova civiltà postbiologica, i (più o meno cyborg) Ceramici che assemblano corpi di donne umane sopravvissute con elementi appunto di ceramica: aspirano a soppiantare i Gente e ci riescono, conquistando il pianeta e costringendo gli avversari a costruirsi civiltà su altri corpi celesti. Il romanzo segue – all’incirca, perché il focus cambia continuamente – le cangianti vicende della stirpe del Leone. Ma emergono anche lì nuovi profili di specie, quei Creaturetti che aspirano a mimare l’umanità estinta con le solite brutalità: come scrive Paola Del Zoppo nella splendida Postfazione che prende avvio dalla dimensione utopica di quest’opera e dà conto anche della problematicissima traduzione, “Risuonano qui i pensieri di Horkheimer e Adorno, secondo cui il processo per diventare umani o più precisamente diventare soggetti umani, è sempre e inevitabilmente interconnesso e intrecciato con l’azione del potere, le dinamiche di violenza e forza”.
D’altra parte il quadro è talmente complesso e irriducibile a spiegazioni totalizzanti da proporsi al lettore come macchina per pensare e spazio aperto, nella rimozione di una serie di punti fissi per noi scontati e nello spostamento della sfida verso altri ed estremi limiti: un affresco immenso la cui peculiare letterarietà flirta proprio con la sovrabbondanza esorbitante, la gratuità di vicende mai imprigionate in una griglia di genere troppo rigida, il continuo rilancio di soluzioni che sono provocazioni alla nostra capacità d’immaginare. Come rimarca la Postfazione:
L’abolizione delle specie, allora, non è un testo che vuole essere interpretato, ma una pratica di lettura, che, se seguita, può consentire ai lettori di raggiungere l’emancipazione politica tramite l’autonomia del pensiero immaginativo. Innanzitutto, la fruizione deve essere attiva: la scrittura non è solo un sistema di connessione. Ai lettori è richiesta l’immaginazione dei mondi possibili nel romanzo, alcuni elementi del quale (salti nel tempo, spazi multidimensionali, comunicazione olfattiva) non possono essere rappresentati in altri media (per esempio delle immagini). È così che nell’atto della lettura il romanzo consente e richiede un processo di emancipazione per i lettori, che lentamente acquisiscono una visione d’insieme: la conoscenza necessaria per comprendere la trama del romanzo e le sue implicazioni politiche viene decodificata in larga misura solo nella parte finale, quando ormai il senso di una codifica si è in parte divincolato dalle idee di categorie e di definizioni. […] il testo ci rende, come lettori e grazie alla fruizione estetica, in grado di misurare, soppesare, ciò che è possibile in futuro e come vogliamo reagire politicamente. La lettura diventa una “prassi aperta”.
Una storia insomma vorticosa, dove in primo piano è la vertigine del testo, narrato e siglato via via con sorta di glifi animali dal sembiante insieme arcaicissimo e postmoderno – essi pure parte del tutto. Una vertigine evocata a cenni dagli strilli giornalistici che in questo caso non sparano troppo alto ma semmai mancano di qualcosa:
In L’abolizione delle specie troverete il weird, il cyberpunk e le grandi epopee alla H.G. Wells sul declino e la rinascita delle civiltà. Non solo: Dath si spinge ancora oltre, affrontando questioni estremamente attuali come la biopolitica e l’impatto delle biotecnologie. Per quanto pazzesca possa sembrare, la storia riesce a saltare avanti e indietro nel tempo e nello spazio con una tale, giocosa facilità da non poter essere descritta in altro modo che: Grande Arte.
Così la “Berliner Gazette”, alle cui parole va recato però il correttivo che la facilità sta solo nella straordinaria mente dell’autore: la lettura è impegnativa, niente affatto “facile” a dispetto di un passo sornione, spesso ironico, e costringe il lettore a confrontarsi con la complessità del reale e anzi a mettere continuamente, creativamente del proprio. Quanto al giocosa, vi torneremo.
Dunque weird, cyberpunk, Wells… verissimo, ma l’elenco di riferimenti è ben più ampio. Da quell’esplosivo poema di erotica queer che è Le metamorfosi di Ovidio, a mille altre opere, profezie bibliche, fiabe e favole, il tutto frullato a superare non solo i concetti di specie o di genere (socioantropologico, ma anche narrativo perché si tratta di un cyberpunk davvero tanto particolare) e gli stessi punti fissi sugli stati della materia. Come vi entrano, per esempio, la matematica e la musica che hanno ruoli fondamentale in questa epopea? Come c’entra la ricerca del sacro? Ma soprattutto, in questo contesto di fluidità assoluta (Dama Livienda, sposa del Leone, è stata per un periodo uno sciame di api e poi si trasforma in albero) e scontri feroci, cosa resta dell’identità? E qual è il fine ultimo dell’evoluzione nonché – se c’è – il senso della vita? A complicare il tutto, l’atlante non si esaurisce sul pianeta Terra per allargarsi su Luna, Venere e Marte, con viaggi frenetici e favolosi che fanno pensare alla protofantascienza utopica, e implica interventi non solo sullo spazio ma sul tempo.
Perché è chiaro verso cosa portano questo e altri romanzi di Dietmar Dath: verso un’immaginazione che non chiude nessuna porta. Sono opere di ispirazione pura, boccate a pieni polmoni nella soffocante attualità sociale, tra ansia ecologica, violenza intellettuale e instabilità politica. Dietmar Dath invita a non aver paura del cambiamento, a immaginarlo infinito e pervasivo e a percepirci trasformabili per riscoprirci più liberi sul limine delle nostre soggettività.
Così la curatrice. Mentre, tornando agli strilli, la fulminante definizione del “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, “Un’epica storia di amore e morte, una lotta per la sopravvivenza in compagnia di Darwin, Lenin e Marx” ci ricorda che la dimensione giocosa di cui sopra – vero, ma chiariamoci – non esclude una sua tremenda serietà di presupposti. Al netto di uno stile talvolta fiabesco, il romanzo parla di una storia faticosa, feroce: in questione è una lotta per la sopravvivenza che riguarda vita e morte di intere popolazioni, a proseguire in fondo la Storia che conosciamo. Oltre che appunto di amore, qui declinato in un ventaglio delicato e torrido di variazioni che avrebbero deliziato Ovidio: qualcosa persino più fluido e sorprendente (ma questo lo sappiamo) di tanti altri presunti punti fermi.