Alastair Crooke
strategic-culture.su
La scorsa settimana il Ministro della Difesa russo Lavrov ha liquidato come insoddisfacenti le proposte di pace per l’Ucraina avanzate dal Team Trump. In sostanza, il punto di vista russo è che le richieste di un conflitto congelato non colgono la centralità della questione: dal punto di vista russo, tali idee – conflitti congelati, cessate il fuoco e forze di pace – non si qualificano come il tipo di accordo basato su un trattato che tenga conto del quadro d’insieme, della “Big Picture“, che i russi sostengono dal 2021.
Senza una fine sostenibile e permanente del conflitto, i russi preferiranno affidarsi a un risultato che esca dal campo di battaglia, anche a costo di rischiare che il loro rifiuto porti a una continua escalation – anche nucleare – da parte degli Stati Uniti.
La domanda da porsi è piuttosto la seguente: è possibile una pace duratura tra Stati Uniti e Russia?
La morte dell’ex presidente Jimmy Carter ci ricorda la turbolenta “rivoluzione” politica degli anni Settanta, incapsulata negli scritti di Zbig Brzezinski, Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Carter, una rivoluzione che ha tormentato le relazioni tra Stati Uniti e Russia da allora fino a oggi.
L’era Carter era stata caratterizzata da un importante punto di inflessione con l’invenzione da parte di Brzezinski del conflitto identitario armato e la sua adesione agli stessi strumenti identitari – applicati in modo più ampio – al fine di portare le società occidentali sotto il controllo di un’élite tecnocratica “[che pratica] una sorveglianza continua su ogni cittadino … [insieme alla] manipolazione da parte dell’élite del comportamento e del funzionamento intellettuale di tutte le persone …“.
Questi fondamentali testi di Brzezinski, in breve, sostenevano una sfera identitaria cosmopolita gestita, che avrebbe sostituito la cultura comunitaria – cioè i valori nazionali. È nella reazione ostile a questa visione tecnocratica del “controllo” che possiamo individuare i problemi odierni che scoppiano ovunque, su tutti i fronti globali.
In parole povere, gli eventi attuali sono per molti versi una replica dei turbolenti anni Settanta. La marcia odierna verso norme antidemocratiche era iniziata con il seminale The Crisis of Democracy (1975) della Commissione Trilaterale – il precursore del WEF (Davos) e del Bilderberg – con le banche internazionali e le multinazionali incoronate (secondo le parole di Brzezinski) come la principale forza creativa al posto dello “Stato-nazione come unità fondamentale della vita organizzata dell’uomo“.
Il cinico atteggiamento di Brzezinski nei confronti della Russia non era una novità. Risaliva infatti all’Hudson Institute degli anni ’70 e al senatore Henry “Scoop” Jackson, due volte candidato alla nomination democratica per le elezioni presidenziali del 1972 e del 1976. Jackson (di origine norvegese) odiava semplicemente il comunismo, detestava i russi e aveva un grande sostegno all’interno del Partito Democratico.
Brzezinski, polacco di origine, condivideva la russofobia di Scoop Jackson. Aveva convinto il presidente Carter (nel 1979) a inserire in Afghanistan una cultura identitaria radicalizzata e jihadista per contrastare la cultura laica e socialista di Kabul, sostenuta da Mosca. L’esito della guerra afghana era stato quindi dipinto come una grande vittoria americana (non lo era stata).
Ma – e questo è il punto – la rivendicazione della vittoria aveva comunque sostenuto l’idea che gli insorti islamici fossero i “risolutori” ideali dei progetti di cambio di regime (idea ancora in voga, come testimonia la Siria di oggi).
Brzezinski aveva comunque ancora altri consigli da dare al presidente Carter. Nel suo Grand Chessboard del 1997, Brzezinski aveva sostenuto che l’America e Kiev avrebbero potuto far leva su antiche complessità culturali e linguistiche (come era stato fatto in Afghanistan) per dar vita al cardine attorno al quale avrebbe potuto essere dissolto il potere dell’Heartland, negando alla Russia il controllo dell’Ucraina:
“Senza l’Ucraina, la Russia non diventerebbe mai una potenza dell’Heartland; ma, con l’Ucraina, la Russia può e vuole esserlo“, aveva scritto.
Perché questa decisione politica era stata così dannosa per una definitiva prospettiva di pace tra Stati Uniti e Russia? Perché Kiev, incoraggiata dalla CIA, aveva promosso l’affermazione identitaria del tutto falsa che “l’Europa finisce in Ucraina” e che al di là di essa si trovano “gli Slavi“.
Questa manipolazione, da sola, aveva permesso a Kiev di trasformarsi in un’icona della guerra culturale-identitaria totale contro la Russia, nonostante il fatto che la lingua ucraina (correttamente nota come ruteno) non sia una lingua germanica. Non si trova nemmeno DNA vichingo (germanico) tra gli ucraini occidentali di oggi.
Nel suo desiderio di sostenere Kiev e di compiacere Biden, l’UE aveva colto al volo questo revisionismo strategico ucraino: l’”Ucraina” concepita come “valori europei” in difesa dei valori “russi” (asiatici). Si trattava di un polo, anche se falso, attorno al quale si poteva forgiare l’unità europea in un momento in cui, in realtà, l’unità dell’UE si stava disfacendo.
Quindi, è possibile una “pace sostenibile” con la Russia? Se si cercasse di sostenere una Ucraina monca come istmo bellicoso dell’”Europa e dei suoi valori” contrapposta ad una “sfera slava regressiva”, allora la pace non sarebbe possibile. Questo perché la premessa su cui dovrebbe basarsi sarebbe del tutto falsa e porterebbe sicuramente a nuovi conflitti in futuro. Mosca rifiuterebbe quasi certamente un simile accordo.
Eppure, tra l’opinione pubblica americana cresce l’inquietudine per il fatto che la guerra in Ucraina sembra destinata ad un’escalation permanente, con il palpabile timore dell’opinione pubblica che Biden e i “falchi” del Congresso stiano portando gli Stati Uniti verso un “olocausto nucleare”.
Noi – l’umanità – continueremo a barcollare sull’orlo dell’annientamento se un “accordo” di Trump – strettamente limitato all’Ucraina – verrà rifiutato da Mosca? L’urgenza di arrestare lo scivolamento verso l’escalation è evidente; tuttavia lo spazio di manovra politica si restringe di continuo dato che la volontà dei falchi di Washington-Bruxelles a sferrare un attacco fatale alla Russia è ancora presente.
Visto dalla prospettiva del Team Trump, il compito di negoziare con Putin è tutt’altro che semplice. L’opinione pubblica occidentale non è mai stata psicologicamente condizionata ad aspettarsi la possibilità che emergesse una Russia più forte. Al contrario, ha sopportato gli “esperti” occidentali che sogghignavano sulle forze armate russe, denigravano la leadership russa come incompetente e la rappresentavano sulle loro TV come fondamentalmente malvagia.
Tenendo presente il contributo fondamentale di Brzezinski sulla democrazia e la sua successiva “concentrazione” in una “sfera identitaria” tecno-gestita da un’élite, non è difficile capire come un Paese così frammentato come l’America si trovi in difficoltà quando il mondo scivola verso una multipolarità basata sulla cultura.
Certo, non è del tutto vero che l’America non abbia una cultura comune, data l’ampia diversità delle culture immigrate negli Stati Uniti, ma è anche vero che quella che viene considerata la cultura tradizionale è sotto assedio. Questo, dopo tutto, è stato il punto cruciale delle recenti elezioni presidenziali – e delle elezioni in molte altre nazioni.
L’idea che, una volta che gli inviati di Trump si saranno recati Mosca e se ne saranno tornati a mani vuote, Trump si precipiterà a concludere un accordo con l’Ucraina non riflette ciò che Mosca ha continuato a sottolineare da sempre. Ciò che serve è un accordo basato su un trattato che definisca l’architettura di sicurezza e le frontiere tra gli interessi di sicurezza dell’Heartland e quelli del Rimland.
Sarà un tale accordo visto da molti americani come una “debolezza”, come una rinuncia alla “leadership” e alla “grandezza” degli Stati Uniti? Certo, sarà percepito in questo modo, perché Trump avrà di fatto suggellato la sconfitta dell’America e riposizionato gli Stati Uniti come un normale Stato tra pari in un nuovo Concerto di Potenze, cioè in un mondo multipolare.
È un compito importante. Riuscirà Trump a farlo – a mettere da parte l’orgoglio americano? Una strada percorribile sarebbe quella di tornare al nodo gordiano originale e scioglierlo: cioè sciogliere il nodo dell’assenza, dai tempi del secondo dopoguerra, di un trattato scritto che delimiti il movimento in avanti della NATO e, così facendo, porre fine alla pretesa che lo spostamento della NATO in qualsiasi luogo da lei scelto non sia affare di nessuno se non suo.
Sfortunatamente, come altro modo possibile per “bilanciare” l’immagine della sconfitta americana e della NATO in Ucraina, i consiglieri falchi di Trump potrebbero prendere in considerazione la polverizzazione dell’Iran – e vederla come un segnale della “virilità” americana.
I negoziati, in ultima istanza, riguardano gli interessi e la capacità di risolvere l’enigma di due parti che si percepiscono come “l’altro” si considera percepito – come debolezza o come forza. Trump, se si trovasse letteralmente in un’impasse sull’Ucraina, potrebbe semplicemente aumentare la scala metafisica e dire che solo lui ha la visione per salvare l’America dalla Terza Guerra Mondiale. Per salvare l’America da se stessa.
Alastair Crooke
Fonte: strategic-culture.su
Link: https://strategic-culture.su/news/2025/01/10/can-trump-save-america-from-itself/
10.01.2025
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org
Alastair Crooke CMG, ex diplomatico britannico, è fondatore e direttore del Conflicts Forum di Beirut, un’organizzazione che sostiene l’impegno tra l’Islam politico e l’Occidente. In precedenza è stato una figura di spicco dell’intelligence britannica (MI6) e della diplomazia dell’Unione Europea.