
È passata poco più di una settimana dal (re)insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca e l’ecosistema politico-mediatico è stato invaso da una quantità di input probabilmente senza precedenti. Dal braccio teso di Elon Musk alla foto shock dei migranti in catene in aeroporto, passando per la presunta “americanizzazione” di TikTok e il piano di “pulizia” di Gaza dai palestinesi, sembra che il mondo intero si trovi nel vortice di un tornado destinato a ingigantirsi sempre di più. La sensazione è talmente forte e diffusa da scatenare a destra e manca sproloqui messianici che parlano, in ordine sparso, di fine della guerra, della NATO, della globalizzazione. Per i fideisti della geopolitica, non poteva esserci occasione più ghiotta per fantasticare su come questo tornado possa stravolgere la cartina del risiko.
Ma più che un gioco strategico con pedine che si muovono su un planisfero, quello che si sta delineando è una partita giocata su un campo che non ha più confini definiti, dove la posta in palio non è solo il controllo territoriale, ma la capacità di imporre una narrazione dominante. Il ritorno di Trump e l’ascesa di Musk non sono solo un’accelerazione della plutocrazia o della privatizzazione definitiva della sfera pubblica – come scriveva Ida Dominijanni su Internazionale – ma il segnale di una mutazione più profonda: il potere non passa più soltanto attraverso istituzioni e partiti, ma si esercita attraverso un flusso costante di provocazioni, algoritmi e narrazioni personalizzate.
È la politica come spettacolo permanente, una competizione per l’attenzione che non conosce tregua. Con Musk che ridisegna il perimetro del dibattito pubblico e Trump che lo occupa con la sua capacità di incendiare ogni conversazione, siamo dentro quel fenomeno che Anton Jäger chiama iperpolitica: una politica senza strutture, senza mediazioni, fatta di mobilitazioni istantanee, viralità e shock comunicativi. Un’arena in cui tutto è ultra-politicizzato, ma dove la politica viene confinata a puro esercizio di una decisionalità dall’alto.
Probabilmente non si tratta soltanto del fallimento della politica tradizionale, ma di una trasformazione più profonda. L’ascesa del Trump 2.0 segna un punto di rottura, ma allo stesso tempo si inserisce in una frattura sistemica che si è aperta da tempo in cui capitalismo, autoritarismo e tecnologia si fondono, trasformando radicalmente il senso stesso della democrazia contemporanea. Le radici di questo fenomeno affondano nella crisi strutturale del capitalismo neoliberale, su cui torneremo a breve.
Donald Trump è stato il catalizzatore di questa mutazione, affinando una strategia che mescola aggressività e imprevedibilità. Il suo metodo, descritto spesso come “teoria del pazzo” o “strategia del bullo”, si basa su mosse unilaterali e destabilizzanti, pensate per ottenere vantaggi immediati senza preoccuparsi delle conseguenze di lungo periodo. Come abbiamo visto in questi giorni, questa tattica è ancora più aggressiva rispetto al primo mandato. Che si tratti di politica interna o di relazioni internazionali, non fa che accelerare la frammentazione geopolitica, creando nuove faglie di conflitto e alimentando volutamente le incertezze proprie di questa fase di transizione egemonica.
Ma è l’infrastruttura digitale il vero campo di battaglia. Le piattaforme non sono solo più strumento di governo dell’esistente, ma assumono a sé l’esercizio governamentale. Non solo influenzano le opinioni, ma ridefiniscono le condizioni stesse della politica, trasformandola talvolta in una simulazione. La sfilata dei CEO delle big-tech all’Inauguration Day è l’immagine simbolo di questa transizione: non è solo la nuova corte di Trump, ma dissolve i confini tra chi detiene realmente il potere e chi ne è il servitore. Un passaggio che sancisce il superamento del capitalismo delle piattaforme in favore di una fase apertamente oligarchica, in cui il controllo si concentra nelle mani di pochi e la viralità diventa il principale strumento di governo.
In questo contesto, il “fascismo delle piattaforme” non è solo una metafora, ma una realtà concreta: una struttura di potere che usa la tecnologia per normalizzare dinamiche autoritarie, rendendole parte integrante del quotidiano.
Alla luce di queste dinamiche, il vero punto di svolta del Trump 2.0 sta soprattutto nella capacità di accelerare e consolidare un modello di governo che si regge sulla fusione tra potere politico e dominio tecnologico. Questa nuova alleanza tra autoritarismo e tecnocrazia affonda le sue radici nella crisi del capitalismo neoliberale, un’espressione che forse andrebbe maneggiata con maggiore cautela. Più che un crollo, il neoliberalismo sembra essersi adattato, incorporando proprio elementi autoritari e tecnocratici per consolidare la propria egemonia.
Ripensando ad alcune categorie di Michel Foucault, il tandem Trump-Musk rappresenta al meglio quella razionalità capitalista che riorganizza non solo il rapporto tra governanti e governati, ma incarna la fusione tra dominio politico ed economico in una nuova forma di governance: Trump manipola i codici culturali e identitari trasformandoli in capitale politico, mentre Musk si presenta come il simbolo di una tecnocrazia che promette soluzioni futuristiche ai problemi del presente, come dimostra il suo “progetto Marte”.
L’autoritarismo trumpiano non rappresenta una contraddizione rispetto al neoliberalismo, ma ne incarna un’estremizzazione funzionale ai suoi stessi obiettivi. Se il neoliberalismo classico si fondava sulla progressiva riduzione del ruolo dello Stato, lasciando che fossero i mercati a regolare le dinamiche economiche e sociali, la fase attuale segna un’inversione di tendenza: il potere statuale non viene più smantellato, ma riconfigurato come strumento diretto di riproduzione del capitalismo in un’epoca di risorse limitate e crisi sistemiche. Trump, in questa logica, non governa secondo la tradizionale idea liberale di mediazione tra interessi sociali e contrattazione collettiva, ma come un amministratore delegato che vede lo Stato come un’impresa da gestire secondo criteri di efficienza, profitto e branding. I cittadini non sono più soggetti di diritto, ma risorse da ottimizzare, segmentare, reprimere e mobilitare in funzione della produttività economica e della competizione globale.
Non è di certo un modello nuovo, ma questa mutazione risponde oggi a una necessità storica precisa: in un mondo in cui la crescita illimitata si scontra con i limiti materiali del pianeta – dalla crisi ecologica all’esaurimento delle materie prime – il capitalismo non può più affidarsi soltanto al mercato per espandersi. Ha bisogno di un nuovo livello di intervento politico che lo protegga dai suoi stessi squilibri e gli permetta di sopravvivere alla scarsità. Trump, con il suo mix di protezionismo selettivo, deregolamentazione estrema e autoritarismo carismatico, è l’interprete perfetto di questa nuova fase. Il suo modello di governance non si oppone al neoliberalismo, ma lo radicalizza, trasformando lo Stato in una macchina che prova a disciplinare il caos del mercato, assicura il controllo strategico delle risorse e gestisce direttamente il conflitto sociale, neutralizzando ogni forma di opposizione strutturale.
È l’evoluzione necessaria di un sistema che, per sopravvivere alla sua stessa crisi, ha bisogno di ridefinire complessivamente il rapporto tra potere politico, economia e cittadinanza. E forse è per questo – come ha scritto Marco Bascetta su Il Manifesto – che i governi di diversi paesi europei, a partire da Italia e Ungheria, insieme alle forze della destra estrema in ascesa in tutto il continente, vedono nella nuova amministrazione americana un punto di riferimento strategico, condividendo visioni, ideologie e obiettivi politici.
La risposta a questa trasformazione non può limitarsi a un rifiuto sterile né a un ritorno nostalgico a un passato che non esiste più. Occorre costruire un nuovo paradigma politico-economico, capace di ripensare il rapporto tra democrazia, tecnologia e giustizia sociale in un’epoca in cui il potere si esercita non solo nelle istituzioni, ma nei flussi di dati, nella manipolazione dell’informazione e nella gestione algoritmica delle vite.
Sottrarsi alla logica dell’iperpolitica e dell’illusione partecipativa creata dalle piattaforme digitali non è semplice, perché significa andare controcorrente rispetto a un sistema progettato per canalizzare il dissenso senza mai metterlo davvero in grado di incidere. Il problema non è solo l’influenza dei social media sulla politica, ma il modo in cui hanno ridefinito il concetto stesso di azione collettiva: tutto si gioca sulla visibilità, sulla velocità e sulla reazione immediata, mentre i processi di trasformazione reale richiederebbero tempo, organizzazione e radicamento.
L’indignazione che si consuma nel giro di un trend e le mobilitazioni effimere che si esauriscono in poche ore danno l’impressione di partecipare, ma spesso finiscono per rafforzare lo status quo, rendendo il conflitto innocuo e facilmente governabile. Lo spazio pubblico, più che essere semplicemente occupato dal potere, è stato riprogettato per orientare il comportamento collettivo, favorendo dinamiche di frammentazione, isolamento e dispersione del dissenso. In questo scenario, adattarsi alle regole imposte dagli algoritmi significa accettare di muoversi dentro un recinto predefinito, dove ogni gesto è già previsto, analizzato e, se necessario, neutralizzato.
Per rompere questo circolo vizioso, serve ripensare radicalmente il modo in cui si fa politica: non più reazioni immediate a stimoli mediatici, ma la costruzione di pratiche che abbiano un impatto concreto sulle condizioni materiali di vita. Non basta denunciare la tecnocrazia digitale, bisogna sviluppare strumenti autonomi di organizzazione, ricostruire spazi di azione collettiva e ridefinire le forme di conflitto, sottraendole alla logica della performance e della visibilità imposta dal capitalismo delle piattaforme.