Breve storia del pensiero antipsichiatrico

… non immaginate che si debba essere tristi per essere militanti, anche se quello che si combatte è abominevole. È il legame del desiderio con la realtà (…) a possedere una forza rivoluzionaria 

Foucault, Prefazione all’Anti-Edipo, 1977

È il 1973 quando medici, internate e infermiere ballano intorno a un fuoco lanciando le camicie di forza che dalla metà dell’800 rinchiudevano le donne nel manicomio di via Giulio 22 a Torino. È una giornata di festa, perché tutti gli orrori vissuti in quel manicomio finiscono grazie al movimento basagliano, un movimento che si schiera contro un modello di cura oppressivo e istituzionale. Certo ancora non si sapeva cosa ne sarebbe stato dei loro corpi guardati, analizzati, riempiti di farmaci e soggiogati da altre pratiche di contenimento, sfiniti da quel potere psichiatrico che ancora oggi, in alcuni contesti, sa ghettizzare e opprimere chiunque non corrisponda a un’idea di produttività e conformismo sociale. Non si sapeva cosa ne sarebbe stato delle loro vite e di quell’edificio che le rinchiudeva, ma le speranze erano molte.[1]A marzo del 1979 l’ex manicomio abbandonato dal 1975 fu occupato da un gruppo di femministe torinesi, tra le quali operaie, sindacaliste e studentesse universitarie, che decisero di creare una Casa delle Donne, all’insegna dello slogan “La liberazione non è un’utopia. Donna, gridalo:«Io sono mia!»”. Quel luogo divenne il simbolo dell’insufficienza della chiusura di un manicomio che era poi stato abbandonato senza mettere in atto altre pratiche di cura. [2]

Questa storia ci permette di mettere in luce come i primi movimenti antipsichiatrici abbiano sviluppato una critica alle dinamiche oppressive, arrivando talvolta a nuove leggi come nel caso italiano, ma siano state manchevoli rispetto alla gestione e alla presa in carico delle persone, e, almeno in parte, rispetto alla capacità di creare le condizioni per cui le persone psichiatrizzate potessero far sentire la propria voce.

Una definizione univoca di antipsichiatria non è facile da trovare, e forse non esiste nemmeno. Il termine indica la critica alla psichiatria intesa sia come scienza medica sia come istituzione sociale, nonché i movimenti sviluppatisi a partire dagli anni ‘60 che aspiravano a un capovolgimento del sistema di cura predominante nei paesi del Nord globale fino a quel momento. Analizzare la storia di questi movimenti richiede di restare nella tensione tra il considerare tutte le figure che chiedevano un rovesciamento del sistema e il riconoscere che, in queste prime fasi, non emergono movimenti di massa che diano voce diretta alle persone psichiatrizzate. A dimostrazione di questo, basti pensare che negli anni ’80 il movimento femminista italiano criticò il processo di deistituzionalizzazione basagliano, sottolineando come, senza il coinvolgimento delle persone psichiatrizzate, il potere di critica alla psichiatria sarebbe rimasto in mano agli psichiatri, impedendo un reale cambiamento del paradigma di cura.[3]

Possiamo affermare che l’antipsichiatria è un movimento composto da molteplici voci, accomunate dalla volontà di far emergere la rottura epistemologica attorno a cui si è costruita l’esistenza storica e sociale del malato mentale. L’obiettivo è rovesciare il discorso psichiatrico sulla base di una critica sociale, defeticizzando il concetto di malattia mentale, che il pensiero scientista aveva assolutizzato. Questo significa voler dare voce all’umanità dietro l’etichetta di malato mentale. Il movimento si presenta con sfaccettature differenti: alcuni sostengono che la malattia mentale sia una risposta sana a una società malata, altri intrecciano la critica alla psichiatria con la lotta contro la segregazione e il controllo sociale.[4]

In un contesto in cui le contestazioni della società tramite le lotte operaie, studentesche, femministe, anticoloniali fioriscono in tutto il mondo. Si afferma la critica comune secondo cui: la psichiatria non è solo una pratica medica, ma un dispositivo di controllo sociale. I manicomi vengono denunciati come istituzioni totali, spazi di segregazione dove il disagio viene isolato anziché compreso. La medicalizzazione della sofferenza trasforma il conflitto sociale in patologia individuale, con diagnosi imposte e trattamenti forzati.[5] Nei paesi occidentali, la psichiatria è uno strumento per disciplinare corpi e comportamenti devianti dei soggetti non conformi che vengono etichettati come malati e sottoposti a elettroshock, psicofarmaci e internamenti.

La lotta antipsichiatrica si oppone a queste pratiche coercitive, denunciando la psichiatria come tecnologia del potere e rivendicando il diritto all’autodeterminazione delle persone psichiatrizzate. Il pensiero di Foucault, in particolare nelle opere: “Storia della follia” (1961) e “Sorvegliare e punire” (1975), ha avuto un impatto cruciale. Foucault analizza come la psichiatria abbia contribuito a definire e marginalizzare la follia, etichettando determinati comportamenti come patologici e disciplinando i soggetti considerati devianti.[6]

Il potere psichiatrico deriva dalla totale autorità del medico sul paziente, che non è soggetto ma oggetto malato e viene sovrapposto alla sua malattia, annullando qualunque altro aspetto della sua persona: viene quindi ridotto ad un corpo malato che necessita della pratica medica per tornare alla normalità.

La critica antipsichiatrica è fortemente basata sulle analisi sul biopotere e sulla medicina moderna fatte da Foucault.[7] Definendo la medicina come una disciplina normante che ha il compito di regolare l’ordine sociale, alla psichiatria viene riconosciuta la capacità di incarnare perfettamente questo compito. Tramite l’osservazione dell’individuo, la psichiatria guarda ogni aspetto della vita normando quello che è accettato o meno dalla società. Foucault chiama questo concetto “microfisica del potere”, ovvero il potere di rendersi invisibile e condizionare ogni aspetto della vita umana regolando i gradi di accettabilità e normalità delle esperienze umane. Un  potere che poi diventa biopotere in quanto la fonte primaria su cui si esercita è il corpo, una dimensione che, tramite la medicina, plasma e crea i comportamenti.

Secondo Foucault il corpo umano è quindi il luogo dove il potere politico invade il soggetto fino a dominare i suoi comportamenti. Il potere politico è però al contempo determinato dalle situazioni economiche. E’ in base all’interazione di questi che si costituisce la normalità, uno stato determinato dai criteri di produzione economica che la psichiatria e la medicina devono preservare. La malattia è perciò un fattore sociale in quanto si lega alla capacità di forza lavoro dei corpi stessi. Possiamo riassumere che per Foucault la psichiatria differenzia la normalità dalla follia tramite le norme di possibilità di partecipazione all’ambito lavorativo.

Dunque, la società contemporanea si basa sulla medicalizzazione della vita, cioè sull’idea che la salute e la malattia siano usate per controllare le persone. Questo avviene attraverso la psichiatria, che impone una visione della normalità influenzata dall’economia. Perquesto il sistema si regge su un razzismo di tipo scientifico, che classifica e discrimina le persone in base alla loro conformità a certi standard di razionalità. Foucault afferma che la biopolitica è il modo in cui il potere si è trasformato in biopotere, cioè un potere che controlla ogni aspetto della vita e utilizza il razzismo come strumento centrale per la propria espansione e il proprio funzionamento. L’utilizzo della parola razzismo va inteso nei termini di discriminazione e stigma rappresentato dalla malattia mentale per tutti coloro che non si conformano alla norma della ragione.[8]

Per l’autore l’antipsichiatria è la considerazione della psichiatria come esclusione sociale, che mette in pratica delle regole derivanti dal potere economico che stabilisce la legittimità della conduzione sociale.

In Inghilterra, il libro di Foucault Storia della follia è stato apprezzato e ripreso da una comunità di psichiatri e psicoanalisti, tra cui Ronald Laing e David Cooper, che hanno sviluppato un pensiero fortemente critico verso la psichiatria tradizionale. Questo ha portato alla creazione di esperienze alternative come la gestione del padiglione 21, iniziata nel 1962 in un ospedale psichiatrico di Londra, e la fondazione delle households, centri di accoglienza esterni ai manicomi.[9] L’antipsichiatria inglese rifiuta la scienza tradizionale, considerandola responsabile di una pratica violenta nei confronti della follia, inserita in una più ampia ideologia repressiva esercitata dalla società, dalla famiglia e da altre istituzioni.

David Cooper è il primo che parla di “antipsichiatria” pubblicando il testo “Psychiatry and antipsychiatry” nel 1967[10], dove mette in luce come le diagnosi psichiatriche possano diventare un’etichetta sociale di invalidazione dal momento che quelli delle persone psichiatrizzate sono corpi imprevisti in un sistema di produzione capitalista. Per Cooper la psichiatria è lo strumento violento usato per indurre il conformismo sociale e un sistema di oppressione che produce follia invece di curarla,il manicomio è uno strumento politico per eliminare soggetti scomodi.[11]

Laing, invece, sviluppa un’altra prospettiva: non nega la sofferenza psichica, ma la considera una risposta sensata a un mondo malato. Nei suoi studi sulla schizofrenia, sostiene che il trattamento psichiatrico, invece di aiutare, distrugga l’individuo, quindi immagina e sperimenta delle comunità terapeutiche in cui convivono sia psichiatri che pazienti, rifiutando ogni forma di contenimento e costrizione.[12]

Queste diverse correnti di pensiero delineano come saranno formati i movimenti che chiederanno in alcuni casi delle riforme, in altri l’abolizione del sistema stesso. In altri aiuteranno lo sviluppo di programmi di cura alternativi e influenzeranno i movimenti antipsichiatrici degli ultimi 20/30 anni, che sono molto differenti da quelli di questa prima fase.

In Italia il movimento si sviluppa attorno al concetto di deistituzionalizzazione, con un approccio riformista e istituzionale: Franco Basaglia e i suoi collaboratori lottano per superare il manicomio, visto come un istituzione repressiva, e per creare un sistema di salute mentale basato sull’integrazione nella comunità. Basaglia però ne “Le conferenze brasiliane scrive: “Io non sono un antipsichiatra perché questo è un tipo di intellettuale che rifiuto. Io sono uno psichiatra che vuole dare al paziente una risposta alternativa a quella che gli è stata data finora”[13]. La legge 180 del 1978, detta legge Basaglia, sancisce la chiusura dei manicomi e la creazione di un nuovo sistema di cura che si pone su altre basi: “riconsiderare lo spazio e il tempo vissuti dai malati e ridonare al malato stesso la responsabilità dei propri gesti e della propria cura”.

In Francia, invece, l’obiettivo non è l’abolizione dei manicomi, ma la loro trasformazione. La psicoterapia istituzionale, sviluppata da François Tosquelles e Jean Oury, propone una modifica interna delle strutture psichiatriche, rendendole più aperte e democratiche. [14]Parallelamente, anche il gruppo fondato da Foucault, il Groupe d’Information sur les Prisons, collega la lotta contro gli istituti psichiatrici a quella contro il sistema carcerario, denunciando entrambe come strumenti di disciplinamento sociale.[15]

Negli Stati Uniti il movimento è più radicale e decentralizzato. Thomas Szasz nega l’esistenza stessa delle malattie mentali e denuncia la psichiatria come una forma di controllo sociale. Ne “Il mito della malattia mentale” scrive: “La malattia mentale è un mito; gli psichiatri non si occupano di malattie mentali e del loro trattamento ma, nella prassi effettiva, hanno a che fare con difficoltà di carattere personale, sociale ed etico”. [16]Questa lettura, sebbene abbia dato una spinta teorica al pensiero antipsichiatrico statunitense degli anni 60 e 70, è stata formulata strumentalmente alla negazione dell’accessibilità e della necessità delle cure e del welfare state. Thomas Szasz è stato un medico libertario di destra che negando la malattia mentale rifiutava anche l’accesso alle cure.

Negli anni ‘70 e ‘80 emergono movimenti di sopravvissuti alla psichiatria, come il Mental Patients’ Liberation Front e Survivors of Psychiatry, che rifiutano totalmente il sistema psichiatrico e rivendicano l’autodeterminazione. Se in Italia e Francia la critica alla psichiatria passa anche per le istituzioni, negli Stati Uniti c’è un rifiuto netto: nessun riformismo ma l’abolizione.

Nel frattempo anche la psichiatria decoloniale si sviluppa a partire dalla critica del ruolo della psichiatria nei contesti coloniali e postcoloniali, mettendo in luce come essa sia stata usata per giustificare il dominio coloniale e patologizzare le resistenze. Frantz Fanon, psichiatra e rivoluzionario, ha analizzato gli effetti psicologici della colonizzazione sulla popolazione algerina, mostrando come la violenza coloniale generi traumi profondi, ma anche come la psichiatria coloniale consideri la ribellione un sintomo di malattia mentale. Decolonizzare la follia significa allora riconoscere il carattere politico della sofferenza mentale e smantellare le strutture di oppressione che la producono.[17]

Oggi, questa eredità è ripresa da figure come Samah Jabr, psichiatra palestinese che analizza l’occupazione israeliana in termini di trauma collettivo, resistenza e salute mentale. Jabr mostra come la psichiatria in Palestina sia politicizzata, usata per tentare di spezzare la volontà di resistenza, mentre la resilienza dei palestinesi viene spesso medicalizzata e trasformata in disturbo mentale.[18]

La particolare genesi del movimento antipsichiatrico appare in forte antitesi se confrontata con quella di altri movimenti che hanno avuto origine nella stessa epoca, mossi da mobilitazioni dal basso e partecipati maggiormente da soggetti oppressi. Le ragioni di questo tipo di origine si può ricondurre alla genesi del movimento ed ai suoi iniziatori, persone con una posizione di potere e privilegio all’interno del sistema psichiatrico. E’ stato grazie alle pubblicazioni di psichiatri teorici e pensatori che si sono sviluppate negli anni 60 e 70 le prime sperimentazioni di un nuovo modo di intendere il malessere mentale e la cura di esso. Successivamente questo paradigma ha iniziato ad invertirsi, portando le persone psichiatrizzate ad avere una voce sempre più preminente. Movimenti quali Mad e Crip Pride, il movimento Post Basagliano, le Comunità di Cura Collettiva, si sono sviluppati su un continuum e una critica ai primi pensatori e psichiatri.

Noi riteniamo che interrogarci sulla storia del movimento antipsichiatrico e sul ruolo delle persone psichiatrizzate all’interno di esso, sia fondamentale per trarre spunti di evoluzione e crescita per i movimenti di oggi.


Bibliografia

[1] Davide Lasagno, “Il falò delle cinghie. Lotte nei manicomi a Torino nel 1968-1969,” Zapruder 16 (2008)

[2] La nostra storia,” Casa delle Donne Torino, https://casadelledonnetorino.it/la-nostra-storia/

[3] Assunta Signorelli, Donne, psichiatria e potere (Roma: Edizioni delle Donne, 1983)

[4] Francesco Codato, Che cos’è l’antipsichiatria. Storia della nascita del movimento di critica alla psichiatria, 2019

[5]  I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Mondadori, Milano, 1976

[6] Mario Colucci, “Isteriche, internati, uomini infami: Michel Foucault e la resistenza al potere

[7] Michel Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), a cura di Jacques Lagrange, trad. M. Bertani e V. Zini (Milano: Feltrinelli, 2004)

[8] Michel Foucault, Il faut défendre la société (Parigi: Gallimard, 1977)

[9] Andrea Terracciano, “Breve storia dell’antipsichiatria inglese,” pubblicato il 20 marzo 2018

[10]  Cooper, Psichiatria e antipsichiatria (Roma, 1978)

[11] Cooper, La grammatica del vivere (Milano 1976)

[12] R. Laig, L’Io divio, Einaudi, Torino 1969

[13] Franco Basaglia, Conferenze brasiliane (Torino: Einaudi, 1982)

[14] Tommaso Mozzati, Francesc Tosquelles, la psichiatria fra il dire e le dita, Il manifesto, 2023

[15] V. P. Babini, “Lo studio della mente: momenti di un dialogo tra Francia e Italia,” in Francia/Italia. Le filosofie dell’Ottocento, a cura di R. Ragghianti e A. Savorelli (Pisa: Edizioni della Normale, 2007

[16] Thomas Szasz, Il mito della malattia mentale (Torino: Einaudi, 1977)

[17] Frantz Fanon, Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale, a cura di Beneduce

[18] Samah Jabr, Dietro i fronti. Cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione

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