È un bel dire «apriremo il parlamento come una scatoletta di tonno» e poi quando è il momento del fare, aprono a gentile richiesta, tutti i siti per lo stoccaggio delle scorie nucleari. È una storia finita male, che sarebbe fuori luogo anche in una pièce del “teatro dell’assurdo” Ionesco.
Invece, il ferro si batte finché è caldo e questa porcata dei siti nucleari è l’ultima di una serie di provvedimenti politicamente contestualizzati da una governance in perenne stato di crisi emergenziale. Il circolo è vizioso e le soluzioni vengono formulate dagli stessi che hanno provocato la crisi e che continuano a gestirla in malo modo. L’elenco delle promesse elettorali bucate sarebbe lungo da citare, una tra tutte è la mancata moratoria allo stop delle trivelle per la ricerca di idrocarburi nell’Adriatico, moltiplicatesi in seguito allo Sblocca Italia del governo Renzi. No, non ci stiamo scandalizzando per la miseranda e breve parabola politica della coalizione di governo, anzi è una conferma della forte presenza nei palazzi di figure che fanno capo alle potenti lobby del petrolio.
L’inerzia politica iniziale delle governance mondiali di fronte alla planetaria mobilitazione dei movimenti climatici ha un sussulto con la comparsa del Covid-19, la pandemia e l’accentuarsi della crisi sistemica nei meccanismi che regolano il dominio sulla riproduzione capitalista. Dunque quale migliore occasione per il capitalismo estrattivo per far passare impunemente le peggiori nefandezze politico-economiche, alcune delle quali abilmente camuffate da provvedimenti di rilancio proiettati verso una transizione energetica green (leggasi Recovery Fund)?
Anche qui la lista è lunga, ma sottolineiamo l’elemento forse più insidioso nel rapporto di forza tra capitale e “vivente”: l’acqua, o meglio la sua quotazione in borsa, la paventata capitalizzazione, privatizzazione di un bene universale. Si tratta di una ipoteca decisiva sulle strategie del capitale volta alla ridefinizione “finale” del comando. Strappare di mano l’acqua è quanto mai una operazione politica raffinata da parte del capitalismo estrattivo anche dal punto di vista dell’immaginario collettivo, che la vorrebbe saldamente “pubblica”.
Pochi mesi addietro fu il capo della Nestlè, multinazionale agroalimentare con sede in Svizzera famosa per le malefatte in agroindustria, a sostenere che l’accesso all’acqua non dovesse essere così libero e popolare, ma oggetto di tassazione monopolistica. Detto e fatto: la sporca manovra speculativa si è concretizzata senza troppo clamore, anzi è calato un assordante silenzio che la dice lunga, sulla potenza simbolica che questo evento possiede sul piano giuridico del potere costituito, e del diritto internazionale. Ovvero, fatta la beffa trovato l’inganno: posata la prima pietra, occupandone il suolo si può erigere il santuario alla proprietà privata tant’è che nessun organismo della giurisprudenza internazionale ha sollevato obiezioni. Fatto salvo per l’Unesco che, attraverso un laconico comunicato, ha stigmatizzato l’accaduto, definendolo contrario ai principi etici dell’intera umanità.
Al di là della nebulosità dell’intero processo, iniziano a intravedersi alcuni fatti concreti: da oggi in California esiste un titolare privato dell’acqua. Lo strumento finanziario è stato creato dal CME group in collaborazione con il Nasdaq, e ha un nome che mette i brividi nella sua schiettezza: NQH2O.
Abbiamo de facto un padroncino dell’acqua che ha creato un precedente che in letteratura giurisprudenziale sta come il battesimo all’acqua santa. Ed è “bastato” creare un contesto difficile quale è la California, rovente a causa degli incendi, uno specchio d’acqua, una società che si occupa di risorse idriche, uno strumento finanziario e soprattutto la benedizione del mercato borsistico tra i più quotati al mondo. Il nuovo paradigma profittevole sta tutto nell’equazione: crisi è uguale ad appropriazione indebita dei mezzi di riproduzione del vivente.
Rimanendo in tema, saranno diversi i miliardi di euro destinati all’ENI che usciti dalla porta con i nuovi decreti del Recovery Fund, rientreranno assai probabilmente dalla finestra con i bandi europei chiamati “bond sostenibili”. Quelle stesse mani, ricordiamo, che hanno creato il più grande affaire di corruzione che si conosca. La causale di questa grossa donazione pubblica è lo stoccaggio di CO2 nel più grande sito d’Europa che sorgerà nel sottosuolo alle porte della città di Ravenna.
Sempre sotto terra saranno ubicati i 67 garage per i container delle scorie radioattive che a tutt’oggi vengono prodotte dai reattori delle 4 centrali nucleari italiane spente, che continuano a produrre scorie dal 1995. In quell’anno venne costituita la Sogin che doveva (i lavori in 20anni non sono andati oltre il 2% del totale) occuparsi dello smantellamento delle centrali stesse. Il costo di questi lavori, ci teniamo a dirlo, è lievitato fino a toccare i 10 miliardi interamente prelevati dalle bolletta dell’energia elettrica.
A pensar male non si fa peccato e non solo perché ci hanno abituati al fatto che il malaffare sia diventato una consolidata prassi politica. Anche e soprattutto perché alcune domande sulla autonomia energetica regionale rimangono sul tappeto in ambito europeo, che considera l’opzione nucleare (attualmente equivalente a un terzo della produzione europea di energia, peraltro considerata le meno pericolosa di tutte) all’ordine del giorno nel ventaglio delle diverse fonti energetiche, nonostante la enfasi nei proclami green.
A pensar male non si fa peccato quando pensiamo allo scandaloso invito al tavolo dei relatori sul clima e ambiente al prossimo G20 a Napoli di esponenti ENI e Confindustria. Oppure quando qualcuno storce il naso difronte al secco NO dei Comuni e comunità locali a ospitare i siti di stoccaggio senza chiedersi: perché le 4 centrali non sono state smantellate e che la data ultima, che doveva essere il 2020, è stata prorogata al 2036. E ancora: perché l’Italia importa dalla Francia il 15% di energia nucleare a prezzo esoso nonostante siano intercorsi 25 anni di totale inerzia.
Non saremo certo noi a dover suggerire soluzioni “istituzionali”. Le nostre si costruiscono dal basso e parlano di beni comuni che agiscano all’interno delle comunità energetiche a zero emissioni. Il capitalismo, invece, non può prescindere dalla proprietà privata attraverso la quale “naturalizzare” il tempo e lo spazio per estrarre profitto. Dunque stiamo parlando di un esercizio continuo attraverso il quale il capitalismo estrattivo si trasforma in “creditore” di tutto ciò su cui posa lo sguardo. Sguardo che si è posato sulla crisi climatico-sanitaria come panacea di tutti i mali, vecchi e nuovi.
La desertificazione incalzante è fonte di ulteriore crisi, di caos, di epidemie virulente, ingovernabilità, di pratiche di respingimento alle frontiere per milioni di esseri viventi, conflitti e guerre. Così mentre nel “sud del mondo” la terra diventa polvere, negli imperi occidentali la domanda di acqua si fa impellente al punto da forzare gli argini etici e travalicare nel terreno mercantile della domanda e dell’offerta.
Nelle mani del capitalismo qualsiasi materia diventa merce: l’acqua il sole il vento, lo stesso respiro degli esseri viventi. Tornando all’acqua, essa è fondamentale nel processo trasformativo intenzionale, sia a catena fossile che in quella interamente compatibile. Monopolizzare e accentrare i processi produttivi è intrinseco nella mortifera presenza del capitale.
A pensare male non si fa peccato, anzi, sarebbe un peccato non farlo.