[Ospitiamo una riflessione del nostro compagno Plv – insegnante in quel di Bologna e membro della Rete Bessa – sulla débacle organizzativa e comunicativa a cui stiamo assistendo alla vigilia della riapertura/richiusura della scuola pubblica. Questo articolo è la prosecuzione ideale di quello che la Rete Bessa ha scritto per Giap il 20 aprile scorso. Tra l’altro quell’articolo aveva un postilla scritta da noi Wu Ming che oggi, alla luce dell’immobilismo del governo nei mesi appena trascorsi, suona terribilmente premonitrice. WM]
di Plv
17 agosto 2020. Estratto da una conversazione realmente avvenuta.
– Oh, poi mi spieghi la faccenda di come si torna a scuola?
– Oggi i giornali titolavano che si ritornerà a scuola in sicurezza.
– Ah, quindi?
– Nessuno aveva mai messo in dubbio che si ritornava a scuola in sicurezza, non c’era motivo per ribadirlo. Se lo fanno è perché stanno insinuando il dubbio.
Il lunedì dopo Ferragosto il Governo ha gradualmente esplicitato il suo piano per la scuola. Repubblica ha dedicato la prima pagina alla riapertura della scuola per 6 giorni di fila. Un’attenzione inesistente quando, poco più di un mese prima, le proteste per chiedere una riapertura della scuola in sicurezza erano nelle piazze e non sui social. Ma da Ferragosto in poi, ciò che fino a quel momento non era mai stato messo in dubbio è diventato prima discutibile, poi problematico, infine quasi impossibile.
Le premesse per quel lunedì mattina c’erano già da tempo: da marzo il Governo non aveva fatto le uniche cose utili per tentare una riapertura della scuola con il minimo rischio possibile. Delle misure strutturali opportune nessuno aveva mai parlato.
Non che non si fosse fatto niente. Si è fatto eccome, si è creata un’emergenza che si poteva evitare o quantomeno inibire. Perché non ci sono scuse: di come riaprire la scuola in sicurezza si poteva parlare tranquillamente a marzo, poi ad aprile, poi a maggio, poi a giugno a scuole chiuse, e pure a luglio. Arrivare al 17 agosto per aprire il dibattito a suon di “mascherina sì/mascherina no” è criminale.
Il governo ha, di fatto, creato un’emergenza nell’emergenza e al contempo speso soldi e tempo per costruire trappole discorsive. Tocca fare attenzione, perché in quelle trappole ci caschiamo in molt@ e le conseguenze potrebbero essere disastrose.
1. Cosa si poteva fare
Fin da aprile, il movimento di Priorità Alla Scuola ha affermato che permettere un ritorno a scuola voleva dire adottare misure strutturali. Occorre riprendere queste idee, non solo per prevenire accuse di disfattismo, ma per sottolineare che a livello pubblico la discussione su come riaprire è iniziata ben prima del 17 Agosto. Le proposte sono state urlate nelle piazze di maggio, di giugno, di luglio. Sono state inviate a Comuni e Regioni. Sono state espresse sulla stampa. Dal basso il lavoro è stato fatto. È dall’alto che non si è mai affrontato sistematicamente il problema, per questo Priorità alla Scuola ha deciso di tornare in piazza a Roma il 26 settembre.
Per farlo era sufficiente partire da una semplice domanda: un virus che si trasmette per via aerobica circola di più in ambienti dove ci sono 26 persone o dove ce ne sono 13? Purtroppo non è una domanda retorica.
Alla richiesta di aumentare in modo significativo l’organico, per permettere la formazione di classi meno numerose, il Governo ha risposto con conferenze stampa altisonanti. Del miliardo promesso si è saputo poco o niente fino a quando non è stata annunciata l’immissione del «personale-Covid» (è la stessa ministra Lucia Azzolina a usare questa espressione). Ad oggi nessuno sa bene come e con che logica questo personale sarà assunto, visto che esistono delle graduatorie cui attingere. È molto più chiaro che su questa figura si rovescerà la responsabilità di un ipotetico lockdown, dal momento che nell’ordinanza si legge che «in caso di sospensione delle attività didattiche in presenza, i contratti di lavoro attivati si intendono risolti per giusta causa, senza diritto ad alcun indennizzo». A queste condizioni, ve lo immaginate un lavoratore precario che ammette di avere la febbre? Qual è la causa dell’emergenza o chi ne facilita la propagazione?
Inoltre alle richieste di molti sindacati di assumere, in modo definitivo, chi insegna da più di tre anni, il Governo ha deciso di rispondere bandendo un concorso straordinario, che prima doveva essere a Luglio, poi fine a fine Ottobre, pronto a saltare se la curva epidemiologica non sarà adeguata o se la ministra Azzolina salta, come ormai sembra inevitabile. Nel frattempo, il concorso ordinario (quello cui possono partecipare anche coloro che hanno meno di 3 anni di insegnamento), è rinviato a data da destinarsi.
Sempre rispetto all’organico merita una menzione particolare la figura delle educatrici e degli educatori. Un’interessante testimonianza mostra come durante il «lockdown» le cooperative, con l’appoggio degli enti locali, abbiano sperimentato aberrazioni contrattuali. Tecnicamente queste figure non sono integrate nel sistema nazionale della scuola, ma sono fondamentali e spesso diventano punti di riferimento, quindi andrebbero integrate.
Chiaramente questa iniezione di personale che le piazze richiedevano doveva poter lavorare in nuove aule. Per esempio: l’Italia è piena di spazi vuoti, alcuni perfettamente utilizzabili, bastano pochi lavori d’adeguamento. Alcuni ragionavano di questo già a maggio. Grazie alle assemblee online di Non Una Di Meno dedicate al tema della scuola ho scoperto che a Napoli già da aprile si ragionava sulle numerose caserme militari dismesse presenti nelle città: Ministero della Difesa, Ministero dell’Economia, Cassa Depositi e Prestiti, Demanio, nessuno di questi soggetti si è sognato di proporre una messa a disposizione di questi spazi per la scuola.
I mesi sono passati e la questione sugli spazi si è risolta in una lentissima cavillosità burocratica i cui risultati sarebbero stati comunicati dalle scuole alla seconda metà di luglio, sulla base di un software per il calcolo dei metri quadrati degli spazi a disposizione delle singole scuole (ma una mappa catastale?) per capire chi effettivamente ne avesse bisogno e chi no. Il problema è che tutti avevano bisogno di spazi, perché tutti hanno classi sovraffollate: è così da decenni.
Si è deciso di mettere delle toppe – una finestra qua, un buco là, uno sgabuzzino rimesso a nuovo… – ma nulla a livello strutturale e quindi addio distanze di sicurezza, tanto che persino il Comitato Tecnico-Scientifico ha dovuto affermare che in caso di impossibilità di mantenere il metro di distanza era possibile ammettere un ritorno a scuola con l’uso della mascherina. Ma se è così, non si poteva riaprire in primavera? Quanto tempo è stato buttato?
Il problema però è anche la circolazione del virus in sé. Non ho le competenze per disquisire sul livello di contagiosità di adolescenti, infanti o adulti, ma mi sembra molto chiaro che su una cosa ci può essere ampia condivisione: è necessario che la scuola sia di per sé un presidio sanitario per il monitoraggio dei contagi (già il 2 giugno lo si suggeriva qui). Sui protocolli da attuare si poteva discutere, c’era tempo.
Dopo 6 mesi dall’inizio del lockdown, un papocchio di dichiarazioni sporadiche, bozze e documenti prodotti da diversi organi non ha partorito uno scenario plausibile, con l‘effetto di seminare il panico. A partire da Ferragosto in diverse chat sono iniziate a circolare voci che nel caso in cui un* bambin* avesse presentato i sintomi i protocolli avrebbero impedito il contatto coi genitori.
Di fronte a questa situazione i dirigenti scolastici, su cui può ricadere la responsabilità per la mancata gestione di un focolaio, si chiamano fuori; i docenti sono accusati di non collaborare perché non vogliono sottoporsi ai test sierologici, quando gli stessi documenti emanati dalle fonti ufficiali li ritengono inutili per la diagnosi e per il controllo dei focolai (vedi le «Istruzioni operative per la gestione di casi e focolai …», pagina 8) e diversi genitori affermano pubblicamente la loro volontà di tenere i figli a casa, magari sostenendo con orgoglio l’educazione parentale. Senza parlare di quelli, tendenzialmente di basso censo, magari stranieri, che senza dire nulla a nessuno hanno già deciso come muoversi: figli e figlie staranno a casa, punto, così potranno essere mandati a lavorare. Ed è così che la scuola si cristallizza ancora di più come il primo luogo in cui l’individuo conosce le ingiustizie sociali. Ve lo ricordate Conte che diceva: «Avremo una scuola più inclusiva»?
Non è finita: se è chiaro che non avremo un’infermeria in ogni scuola è altrettanto chiaro che ogni medico referente avrà più di un istituto da monitorare. In un articolo pubblicato su Repubblica il 23 agosto si parla di un rapporto 1 a 23!
Non c’è bisogno di entrare in dettagli tecnici per affermare una cosa di una banalità sconvolgente: servono infermerie scolastiche, serve personale medico preparato, servono equipaggiamenti, servono i test. Ad oggi non c’è nulla di tutto questo: se uno studente o una studentessa ha i sintomi, al momento attuale, non c’è un medico che può agire prontamente, non c’è il materiale per la prevenzione del contagio, non ci sono i test adeguati per tutte le persone con cui è entrat* a contatto a scuola. Quindi, la classe e gli insegnanti devono stare tutt* in quarantena per 14 giorni. Senza alcun test. Una follia.
Tutt* abbiamo litigato ferocemente sul tema della prevenzione sanitaria del Covid, anche con persone con una sensibilità vicina alla nostra. Possiamo però concordare sul fatto che c’è un livello minimo ragionevole da cui è necessario partire e che di questo livello base il Governo se ne sta ampiamente fottendo?
Ripeto, a scanso di equivoci: nessuno dice che fosse facile ragionare su questi temi, ma perché diamine non è stato fatto sei mesi fa per arrivare pronti alla riapertura di settembre?
2. Capre espiatorie, prima parte: «I giovani»
Prima o poi sarebbe arrivata la fase delle “capre espiatorie”. Era scritto, o meglio, disegnato. Era così ovvio che dovevamo essere preparati, e invece i dibattiti sulla questione dei giovani hanno un che di raccapricciante.
Tralasciamo il fatto che non è chiarissimo cosa si intenda per «giovani», sta di fatto che di loro non si è parlato per mesi tranne che nelle ultime settimane. La loro colpa è quella di divertirsi.
Un anno fa, quei e quelle giovani erano acclamati da tutta la politica italiana perché in loro risiedeva la speranza di salvezza dall’apocalisse climatica.
Pochi mesi dopo tutto e cambiato: delle loro opinioni in merito al riscaldamento climatico abbiamo deciso semplicemente di farne a meno, quando una riflessione sul fatto che questa pandemia sia causata dall’estrattivismo capitalista sarebbe quanto mai necessaria.
A partire da febbraio/marzo i giovani sono stati segregati in casa, privati della possibilità di camminare all’aria aperta, infantilizzati in quanto ritenuti incapaci di prendere precauzioni. Impossibilitati a crescere, avere una socialità, conoscere emozioni, sperimentare se stessi. Tra quelli che ho conosciuto in questi anni, alcuni il 5 giugno avevano ancora il divieto di uscire per paura del contagio: chissà come deve essere trascorrere tre mesi segregati in casa con quei genitori che ti costringono tra quattro mura anche quando il cosiddetto «lockdown» è finito da un mese. Come si collocano queste persone nel computo delle vittime del covid? E quell* che già prima erano quotidianamente umiliat* dai genitori? E quell* che hanno dovuto nascondere, ancora di più, la propria identità sessuale? E quell* che sono stati mandati a lavorare, perché la scuola era chiusa?
Possiamo avere le più svariate opinioni sul Covid, ma la tortura dei e delle minori come metodo di governo dovrebbe incontrare un livello di critica decisamente maggiore.
I giovani vanno in discoteca, non prendono precauzioni, si infettano e il Paese soffre. Poco importa che a non seguire le precauzioni siano anche adulti e che alcuni luoghi siano stati mal gestiti per colpa di settantenni milionari: sono i giovani che hanno peccato. Alcuni giornali, nel conteggio quotidiano degli infettati riportano addirittura il numero di coloro che sono stati contagiati in discoteca.
La questione va scomposta perché in nome dell’austerità sociale si rischia di fare discorsi tanto miopi quanto reazionari.
1. Il divertimento e il turismo sono anch’essi settori produttivi. Trattarli solo come vizi ci porta fuori strada: l’Italia vive anche di questo. Non vuoi che entrino in funzione? Devi attivare gli ammortizzatori che consentano di reggere la situazione. Questo non è stato fatto.
2. Il Governo ha deciso che le discoteche potevano riaprire. Dopo Ferragosto lo stesso Governo ha pensato che era abbastanza, bisognava chiudere. Il timing è chiarissimo: non si poteva pensarci prima?
3. Non facciamoci ingannare: alcuni Comuni hanno preso posizione critica contro queste politiche, altri no, altri hanno fatto entrambe le cose, esattamente come ha fatto il Governo. A Bologna, il Sindaco uscente ha tuonato contro la riapertura delle discoteche, quando gli eventi del Robot Festival organizzati negli spazi di Dumbo hanno avuto tra i principali sponsor il vice-Sindaco Matteo Lepore.
4. i primi focolai post-lockdown non sono stati nelle discoteche. Sono stati alla Bartolini e alla TNT, facilitati dal fatto che la logistica era stata follemente ritenuta a «basso rischio». Perché nessuno ha pensato che gli stabilimenti potessero chiudere? Uno dei focolai più pesanti è quello dell’Aia di Treviso. Un lavoratore su tre è contagiato. Perché di questo non si parla?
Non si tratta – lo so, sono pedante – di minimizzare il problema di un contagio che aumenta nel momento in cui si aprono determinate forme di socialità. Ma di capire che nell’attacco ai giovani e alle discoteche è implicito il fatto che la socialità sia un lusso che non possiamo permetterci. E quindi, se non dobbiamo fare qualche attività seria veramente fondamentale, ossia lavorare, si può stare tutt* a casa.
Questo discorso avrà ripercussioni pesanti sulla scuola e se è ipotizzabile che forse – e sottolineo forse – chi ha meno di 10 anni si salverà dalla DAD, perché ormai è indiscusso che per bambini e bambine è impossibile seguirla, gli adolescenti potrebbero essere condannati a stare in casa, perché la loro socialità è percepita come sacrificabile. Tutti i documenti emanati in merito alla ripresa della scuola vanno in questa direzione.
L’idea per cui la socialità debba essere limitata perché rischiosa per definizione, mentre nelle attività lavorative definite “essenziali” si possa fare a meno delle reali garanzie, è la prosecuzione di quello che l’1 maggio i Wu Ming chiamavano «la grande sostituzione».
La scuola e la socialità che lì si vive devono essere classificate come “essenziali”.
3. Capre espiatorie, seconda parte: vari, eventuali e ministre
L’ultimo capro espiatorio in ordine cronologico è il corpo docente: scomparso per mesi dal discorso pubblico, è riapparso solo per essere accusato di non voler fare i test sierologici.
Su questo si è già scritto, ma manca un pezzo: non è del tutto chiaro cosa succede contrattualmente se qualcuno risulta positivo al test (quindi forse è entrato in contatto col virus): va in malattia? Va in aspettativa? Lavora da casa? In teoria no, ma nelle Istruzioni operative sopra citate si legge: «Dovrebbe essere identificato il meccanismo con il quale gli insegnanti posti in quarantena possano continuare a svolgere regolarmente la didattica a distanza, compatibilmente con il loro stato di lavoratori in quarantena». Come si incastra questo aspetto con chi è precario? Se vai in quarantena sei in malattia? I contratti sbocconcellati che spesso abbiamo, coprono o non coprono questa casistica?
Altri attacchi sono arrivati alle “mamme del ceto medio riflessivo“, accusate di lamentarsi perché non vogliono tenersi i figli a casa qualora vi fosse un secondo “lockdown”. Dover spiegare l’idiozia di questo assunto è così sfibrante che MammadiMerda e Cristina Severi Tagliabue l’hanno provocatoriamente preso per buono. La risposta la trovate qui.
Più gravi e più sibillini saranno gli attacchi che subiranno quei genitori colpevoli di mandare i figli a scuola con la febbre, magari dando una tachipirina prima di farli uscire di casa. Possiamo anche su questo mantenere la barra a dritta? La maggior parte delle persone che adotterebbe questa modalità lo farebbe per l’esigenza di lavorare e ad oggi non c’è una forma di welfare studiata per evitare questo comportamento. Partite IVA, lavoratori e lavoratrici in nero, persone sfruttate di tutti i tipi spesso non possono permettersi di stare a casa e ad oggi se un* studente è in quarantena non è chiaro se anche il genitore debba stare a casa. Ancora una volta: chi è che sta provocando la diffusione del virus?
Anche i sindacati sono stati criticati, per la loro scarsa collaborazione. Quelli confederali, ovviamente, gli altri sono cattivi per definizione. Ma non è mai stato chiaro a cosa dovessero collaborare dato che sono stati fatti fuori dai tavoli importanti. Anzi, a dir la verità i tavoli decisionali non si sa nemmeno dove stanno. Oggettivamente l’unica accusa che si può muovere ai sindacati, e in particolare alla FLC-CGIL, è la mollezza di ogni loro presa di posizione che sembra scritta tre mesi prima. Col dovuto rispetto: datevi una svegliata.
Infine c’è un punto scivoloso, ma dirimente: bisogna porre il ruolo della ministra Azzolina nella sua giusta collocazione. Un Governo senza idee l’ha chiamata al ministero senza alcun piano sulla scuola, se non quello di non rompere le scatole sui soldi. E lei era la persona perfetta: «al Ministero lavoriamo per creare una task force che aiuti gli istituti a scrivere i progetti e a gestire meglio i finanziamenti», scriveva a gennaio. Il problema erano le singole scuole, o al massimo i fondi europei, mica il Bilancio. Ad oggi l’Italia è tra gli ultimi posti in Europa per il rapporto Fondi all’istruzione / PIL.
Un mese dopo, Azzolina è diventata un personaggio chiave nella gestione di una catastrofe mondiale e si è ritrovata in una simile situazione senza portafoglio, isolata rispetto alla questione della responsabilità ma circondata da organi oscuri che pensavano a come riorganizzare la scuola, scavalcandola. Conte l’ha scelta come punching ball: mandata al massacro nella consapevolezza che, essendo questo un paese infame, sarebbe stata attaccata anche in quanto donna, per di più con accento meridionale. Sono attacchi schifosi.
Non si tratta di sollevare la ministra dalle sue responsabilità evidenti, ma di dire che sulla scuola tutta la classe dirigente italiana continua a dimostrare la sua bassezza. La ministra sarà sollevata dall’incarico, forse diventerà dirigente e probabilmente sarà una pessima dirigente, ma i ministri dell’economia, i premier, i plurideputati che di mese in mese scelgono quale finta opposizione enunciare, gli industriali che investono sulla didattica online e quelli che sperano nella manodopera giovanile a costo zero, i finto-intellettuali dai doppi carpiati, i macho-governatori, i baroni che ancora ristagnano nelle università, la classe dirigente italiana che da anni lavora alla distruzione della scuola pubblica, loro si salveranno. Ed è da troppo tempo che va avanti così.
4. Intermezzo semiserio: le parole o le cose?
Prima di tentare di indirizzare in maniera intelligente il sano odio che è lecito esprimere in questa situazione, è d’uopo sciogliere la tensione, ripassando un po’ il gergo con cui negli ultimi mesi siamo stati turlupinati.
Ricordiamoci che non si tratta solo di parole: è tempo buttato e denaro sprecato.
Metro buccale: a tutti suonava come una pratica sessuale, invece era il metro che intercorreva da una bocca all’altra nel software promosso dalla ministra Azzolina. Ci siamo scervellati per spiegare che quello che conta non era il metro buccale, perché in realtà le classi sono insiemi dinamici e quando qualcuno si alza dal tavolo salta tutto e tocca mettere la mascherina. Ne consegue che possiamo dimenticarci dei gruppi di lavoro, dello studio collettivo, con buona pace della didattica innovativa. Inoltre nessuno sa bene cosa preveda il piano del Governo nel caso, certo remoto, in cui una pioggia, magari con un po’ di vento, obblighi a tenere chiuse le finestre.
Banchi monoposto: Rispetto a questo tema ammetto un mio limite e chiedo scusa in anticipo alle persone con cui mi sono confrontato. Capisco che in molte regioni un banco monoposto è una necessità effettiva, ma l’idea per cui il problema di un aumento del rischio di contagio dovuto al sovraffollamento delle classi possa essere risolto con dei banchi più piccoli, a me dà la sensazione che invece di adottare misure strutturali si stia giocando a Tetris.
Didattica integrata, o DDI: la chiamavano DAD, ma utilizzare un acronimo che significa “papà” deve aver ricordato a diversi personaggi che il Concilio di Trento aveva ragione e i lavori di casa, tipo aiutare i figli a parlare con uno schermo nero per il buffering, li deve fare la donna. Non solo la DAD è rimasta, ma nel decreto legislativo del 7 agosto e nelle linee guida si dà per assunto che sarà utilizzata nelle scuole secondarie (qui i testi). Ad oggi non c’è dibattito su questo.
5. La destra pervasiva: riconoscerla ed evitarla
Nel frattempo le destre stanno alla grande. Lasciamo stare le percentuali dei singoli partiti, quelle variano a seconda del momento, ma c’è una destra larga ed estesa che si sta espandendo, al punto da coprire l’intero arco parlamentare. E i suoi effetti stanno per ripercuotersi sulla scuola.
Salvini e compagnia stanno cavalcando un’onda facile. Dopo un lockdown che impediva di stare all’aria aperta, hanno buon gioco nel mostrare la contraddittorietà delle indicazioni e parlare di norme esagerate, magari riempiendosi la bocca con la scuola che deve accogliere e renderci vicini. È un problema chiaro, che si risolve col giusto equilibro, non con la corsa al controllo (che a Salvini peraltro va benissimo), né con l’abolizione della vita sociale (idem). Non è facile, ma quell’equilibrio va quantomeno cercato evitando certi svarioni.
La cosa più facile, almeno per chi frequenta questo blog, è evitare movimenti o pagine che riportano siti noti per le notizie-spazzatura o per tesi rossobrune. PandoraTV e Byoblu i più evidenti. Evitate pure quelli che per dirvi cosa fare in tempo di Covid si rifanno ai sindacati di polizia.
Più difficile, ma necessario, costruire discorsi in cui evitare trappole semplificatorie. Una su tutte: piantiamola di ragionare esclusivamente sulla necessità dei bambini di tornare a scuola. La scuola è un mondo sterminato: ragionare solo sui diritti e le necessità di un unico soggetto conduce inevitabilmente a sottostimare (nel migliore dei casi) o silenziare (nei casi più ipocriti) le esigenze degli altri. Il fatto che ci siano docenti che rischiano se vengono a contatto col virus è vero. Il fatto che il personale per la sanificazione è sottopagato e vessato è altrettanto vero. Che nessuno abbia parlato dei trasporti fino a pochi giorni fa è evidente. È difficile perché non siamo stati allenati a questo (le scuole che abbiamo fatto non ci hanno preparati), ma tocca fare un discorso strutturale, altrimenti è la guerra fra poveri.
Altro discorso peloso: l’innovazione. Sia chiaro: la scuola pubblica italiana rispecchia il classismo della società, è strutturalmente razzista, è lassista nei confronti del sessismo imperante, è inadeguata, le indicazioni ministeriali non aiutano a costruire la didattica, diversi docenti sono pericolosi, l’educazione ai dispositivi elettronici è inesistente. Detto ciò, la Didattica a Distanza non risolve questi problemi, ma li amplifica. Come suggerisce Girolamo De Michele sulla scia di Neil Selwyn: «bisogna finirla con le stronzate». Quindi piantiamola col dire «la DAD ha fatto anche cose buone», è un ritornello che crea un falso bilanciamento tra elementi positivi e negativi.
Infine, la preoccupazione per il contagio sta portando diversi genitori a vedere di buon occhio l’educazione a casa dei propri figli, homeschooling o educazione parentale. Questo discorso conduce dritto a una dismissione dal basso della scuola pubblica che, nonostante le mille aberrazioni, rimane un traguardo epocale: abbiamo bisogno che bambini e bambine escano dal nucleo familiare, abbiamo bisogno che si confrontino con altri adulti, abbiamo bisogno che interagiscano fra di loro, che non si capiscano, che conoscano chi è diverso da loro e anche che litighino coi propri genitori con gli strumenti che gli vengono dati da ciò che si trova fuori dalla famiglia, perché è anche così che si cresce.
«Ma la scuola pubblica è la Scuola dello Stato e io sono contro lo Stato», benissimo. Ma non dimentichiamoci che anche la famiglia è un’istituzione, ben più totale della scuola: è vero che anche la scuola, come la famiglia, è un luogo cardine della riproduzione sociale, ma permette ancora un margine di libertà radicalmente differente – a volte maggiore, a volte no, sicuramente diverso – da quello che una famiglia può garantire.
C’è poi l’elefante nella stanza: se qualcuno decide di fare educazione parentale ai propri figli è perché se lo può permettere culturalmente ed economicamente. Optare per questo modello significa avallare il privilegio di classe. E, mi spiace, ma per me questo è il nemico.
Glisso sulle scuole libertarie, che spesso utilizzano l’escamotage fornito dall’educazione parentale. Lo faccio perché ritorniamo al problema di fondo, ossia la promiscuità delle persone all’apertura delle scuole e quindi i problemi che incontriamo sono gli stessi. Ma ci tengo a sottolineare un nodo centrale: creiamo esperimenti, costruiamo scuole popolari, rinnoviamo le pratiche, bene, anzi, benissimo. Ma la scuola pubblica deve essere un campo di battaglia e su quel campo di battaglia ci dobbiamo stare. Costruire alternative e lottare per un rinnovamento di quello che c’è può essere una contraddizione, ma cerchiamo di tirarla dalla nostra parte e di non lasciare campo libero alle destre.
6. La rabbia o la depre
Non ho il tempo per soffermarmi sulla miriade di soggetti che in questo momento meriterebbero di stare alla sbarra di un tribunale per crimini contro l’umanità. La classe dirigente italiana, nella sua interezza, non merita il surreale clima di pace che si è instaurato negli ultimi mesi. Non si salva nessuno. Però il ruolo di alcuni soggetti va sottolineato.
Il “menopeggismo” ha lasciato campo libero a un premier che di fatto ha permesso che sulla riapertura della scuola si seminasse il panico. Tralasciando quanto fatto prima dell’epidemia, Giuseppe Conte non solo si è chinato agli speculatori di Confindustria durante i giorni di maggiore crisi, ma ha anche posto le basi per una futura emergenza.
I partiti che lo sostengono e quelli che lo contrastano sono pure peggio di lui. I parlamentari di “centrosinistra” che guardano con spocchia all’attuale Ministra sono stati complici della Riforma Renzi. Quelli di “centrodestra” sono complici delle Riforme Gelmini e Moratti. Senza bisogno di alcun complotto, il piano di dismissione della scuola pubblica parte da lontano, è condiviso e nessuno se ne è mai distaccato. Dei 5Stelle poco da dire dal momento che esprimono direttamente sia la Ministra dell’Istruzione che il Ministro del Lavoro e del Welfare.
Il nome di Mario Draghi è tornato spesso nei giorni passati per il suo discorso sui «giovani». Negli ultimi anni «Mario Draghi» è diventato come il «paracetamolo»: si consiglia di usarlo quando ci sono sintomi di malessere ma non si sa bene quali siano le cause. Mario Draghi è un protagonista del mercato internazionale, che rimane il mostro finale da affrontare. Lo abbiamo ben conosciuto nel 2011, quando scrisse una lettera con le indicazioni su come far uscire l’Italia dalla crisi.Quella batosta è stata dilaniante, tanto per i giovani dell’epoca quanto per quelli di oggi.
Chi ci ha visto lungo sono i privati interessati nella Ed-Tech e quindi nelle forme di didattica a distanza. Alcuni di loro hanno visto un aumento di capitale impressionante. «Ma è gratis!» ci è stato detto mesi fa in riferimento a Google: come se questo non permettesse di lucrare comunque sui dati acquisiti e dunque sulle nostre vite. Citando il Financial Times, Costanza Margiotta, Girolamo De Michele e Maddalena Fragnito, hanno sottolineato come negli ultimi mesi le piattaforme digitali abbiano quadruplicato le loro azioni. Non sorprendiamoci se Google propone le lauree in 6 mesi!
Altri privati non ci hanno visto così lungo, ma hanno saputo aspettare un aiuto dal cielo, o dalla Regione, come in Liguria, dove viene dato un voucher di 180 euro per l’iscrizione alle scuole private. L’attenzione alle scuole private è enorme, ma d’altronde, siamo anche un paese che non ha un piano nazionale per bambini e bambine da 0 a 6 anni: rivolgersi alle private per molti è un obbligo. Vogliamo esigere che questa mancanza sia coperta o preferiamo le parole di Patrizio Bianchi che, dal sito della COOP, ci ricorda che «la scuola non è un badantato»?
Per chi se lo fosse perso Patrizio Bianchi è un altro personaggio interessante: docente universitario, è anche il coordinatore della commissione esperti del ministero dell’Istruzione. Promotore di quell’autonomia scolastica regionale destinata a massacrare le scuole del centro-sud al rientro è anche uno dei massimi “spingitori” della DAD. In alcuni momenti è stato una sorta di ministro-ombra. È in quota PD e chi sta in Emilia-Romagna l’ha conosciuto come Assessore all’Istruzione della Regione durante il primo mandato di Stefano Bonaccini.
Quest’ultimo è anche il Presidente della Conferenza delle Regioni, che a Luglio è stata protagonista di un curioso siparietto: dopo aver rigettato con disprezzo le prime linee guida del Governo sulla riapertura delle scuole in nome della scarsità dei fondi erogati per il personale, la stessa Conferenza delle Regioni ha accettato pochi giorni dopo una seconda bozza. Non che i fondi fossero aumentati. Però dalla seconda bozza era scomparsa la partecipazione ai tavoli dei sindacati confederali. Il 13 Luglio, Priorità alla Scuola ha organizzato presidi alle regioni per protestare contro questa decisione. A Bologna, vista la posizione di spicco di Bonaccini, sono arrivati esponenti del comitato nazionale. Peccato che i giornalisti locali non fossero presenti quel giorno, avrebbero assistito ad un dialogo molto intenso in cui l’assessora Paola Salomoni mostrava una delle tecniche con cui la riapertura della scuola è pensata: un continuo rimando ad altri tavoli e ad altri decisori.
Questa tecnica di governo è così diffusa che i dirigenti scolastici si sono dissociati dalle responsabilità di cui il Governo li investiva. Peccato che la loro posizione sia scivolosa dato che il PD, grazie alla Riforma Renzi, li ha trasformati in wannabe manager, paladini di una scuola sempre più neoliberale che in piena emergenza riteneva prioritario ridimensionare gli organi collegiali «per evitare disfunzionali sovrapposizioni e conflitti con le prerogative dirigenziali» (dal documento dell’Associazione Nazionale Presidi, 25/05/2020). Esistono dirigenti sinceramente degni di stima. A loro sarà richiesta la fatica di dissociarsi da questi soggetti.
È questa la panoramica della classe dirigente che sta ponendo le basi per il ritorno a scuola. È lapalissiano che anche per chi è abituato a tapparsi il naso non c’è nulla da salvare. Tocca a noi invertire la tendenza.
Scrivo “noi” riferendomi a una comunità ampia, che include docenti, attiviste, educatori, studentesse, amministratori, personale delle pulizie, genitori e genitrici.
Ma la situazione in cui siamo ci obbliga a guardare a una comunità ben più ampia con cui possiamo e dobbiamo intrecciarci. Fatta dalle donne infuriate per essere lasciate a casa senza fonti di reddito, dagli antirazzisti scesi in piazza per la morte di George Floyd, dai migranti che hanno bloccato la produzione, dalle froce che ogni giorno ci mostrano quanto la normalità sia IL problema, da artisti che lottano per un minimo di riconoscimento, da chi porta in piazza il proprio corpo per una diversa politica sul clima.
Della rabbia di tutta questa comunità abbiamo bisogno, estremamente bisogno.
Perché c’è poco da girarci attorno, di fronte a noi abbiamo due possibilità: da una parte la rabbia da organizzare, incanalare, far esplodere; una rabbia che ci permetta di sperimentare, sbagliare, creare; dall’altra abbiamo la depressione, non solo e non tanto la connivenza ad un esercizio di potere sempre più ottenebrante, ma la chiusura in un nucleo sempre più chiuso e circoscritto. Fino ad una solitudine estrema.
La scuola è un pezzo della società da riconquistare, esattamente come la sanità. Che ci piaccia o no, se salta la scuola salta tutto.
Partiamo da lì e ripigliamoci questo mondo infame.
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