Abolizionismo e femminismo: pratiche, immaginari e processi trasformativi

Moltissimi i temi toccati nel dibattito, dalle modifiche al sistema penale come presupposto dell’abolizionismo alla giustizia trasformativa, fino agli spazi di incontro tra la cultura garantista e quella femminista.

Mai come ora il tema del carcere e dell’abolizionismo è attuale: «Ilaria Salis ha preso 174 mila preferenze, potrà – salvo forzature – godere dell’immunità parlamentare e fortunatamente uscire dal pozzo, dopo 15 mesi di detenzione e 15/20 giorni in arresti domiciliari sempre in Ungheria. È difficile però immaginare che tutti coloro che sono ingiustamente in carcere o in misura, possano un giorno godere finalmente della libertà. E ancora più difficile è immaginare che anche i condannati in ultimo grado, quindi non più presunti innocenti, possano essere fuori dal carcere» dice Rossella Puca nella sua introduzione.

Il tema dell’abolizionismo viene affrontato a partire da una domanda netta su uno dei concetti che viene contrapposto all’abolizionismo, ovvero il riformismo. La stessa Angela Davis, infatti inizia il suo libro con la domanda: “riforma o abolizione del carcere?” Questa distinzione si accentua quando nel dibattito politico i riformisti vengono ritenuti soggetti “realisti”, mentre gli abolizionisti vengono liquidati come utopisti e idealisti.

Nel decalogo del libro Abolire il Carcere tuttavia, gli autori spiegano che è necessario concepire le modifiche al sistema penale quali presupposti dell’abolizionismo stesso, e non come termini finali

Stefano Anastasia, che è uno degli autori del libro in questione, interviene su questo tema, dicendo che il punto cruciale è pensare le persone in carcere come persone con un’integrità. Ciò significa che seppure sono in carcere e fin quando vi rimarranno potranno esercitare i loro diritti fondamentali: è su questo che bisogna fare dei passi che avvicinino all’abolizione del carcere.

Il sistema si giustifica su questo affermando che non vuole mettere in discussione i diritti: la corte costituzionale sancisce che deve essere solo privazione della libertà di movimento. Ma non è facile che sia davvero così: perché la libertà di movimento influisce su molto altro. La strada è quindi rovesciare questa tesi contro l’istituzione. Quali sono i diritti fondamentali delle persone, anche se condannate per qualsivoglia reato?

Un esempio è il riconoscimento del diritto alla sessualità e all’intimità in carcere. Oggi si fatica moltissimo a vedere attuato questo diritto, perché l’istituzione carceraria è un’istituzione sessuofoba: ma l’applicazione di una legge del genere può erodere le mura dell’istituzione. L’abolizionismo è un punto di osservazione della possibilità di fare giustizia senza sofferenza, senza costrizione dentro quattro mura.  È possibile quindi fare passi e movimenti verso l’abolizione.  Lo abbiamo visto nel processo di abolizione del manicomio, che si è dato proprio attraverso l’erosione da parte degli operatori, degli infermieri, degli psichiatri dell’istituzione manicomiale.  

Angela Davis scriveva “L’orizzonte di libertà è praticabile solo attraverso una postura abolizionista”, una postura da concepire come culturale e politica, ma soprattutto come pratica intersezionale. 

Per Valeria Verdolini, si immagina spesso l’abolizionismo come punto di arrivo. «Basaglia e il suo gruppo insegnano che il superamento del manicomio è stata una fase intermedia, che arriva dopo una pratica e un’esperienza di vita. Basaglia dice, quando arriva a Gorizia, “Sento l’odore che avevo respirato in carcere”. Quella volta è però lui l’istituzione, e quindi decide di non essere complice di quel modo di crearla».

Quando si parla di scardinare le mura del carcere, bisogna interrogarsi su ciò che l’istituzione fa: il carcere comprime una serie di diritti (e quello di movimento è solo uno). In carcere poi c’è una separazione su base di classe, che costituisce un muro. La funzione del carcere dovrebbe essere la rieducazione, che però non viene quasi mai ottemperata. La funzione di separazione su base della classe e di un’altra serie di meccanismi è una funzione invece non manifesta, ma che è ben presente. Solo guardando all’abolizionismo con tutte le contraddizioni, che ad esempio Angela Davis aveva ben presente, si può ragionare di libertà.

Il punto nodale per ragionare sull’abolizionismo non è quindi solo la chiusura del carcere: la riflessione da fare è se siamo pronti a condividere il nostro spazio con la sofferenza sociale che è invece ora all’interno del carcere?

Giusi Palomba parla invece di alternative. «Più che chiederci se le alternative sono praticabili, bisogna chiederci da dove vengono le alternative che già sono praticate. Dalle comunità marginalizzate vengono prodotte alternative, perché anche nel sistema penale le persone non sono trattate e percepite tutte allo stesso modo. Si tratta di strategie per ridurre la violenza e la brutalità, anche quelle dello Stato». Si tratta di forme di autoorganizzazione sempre esistite; dall’inizio di questo secolo le comunità che si occupano di giustizia trasformativa hanno cominciato a scrivere e a condividere le pratiche. Fa paura percorrere queste pratiche perché non necessariamente riescono a proteggere le persone vittime di violenza, e perché sono pratiche non ancora percorse.

I primi documenti analizzano il fatto che l’approccio penalista è un approccio a breve termine e un approccio inefficace nella protezione delle persone al margine. Per la prima volta quindi si parla di femminismo e abolizionismo in maniera critica, mettendo al centro l’esperienza di persone che vivono la violenza quotidianamente. Analisi del carcere sistemica, ma anche analisi dell’influenza del carcere sulle relazioni interpersonali. Esistono molti materiali per cominciare a ragionare. «Una domanda che utilizzo spesso è che cos’è la giustizia per noi. Nella società occidentale il concetto di giustizia si è fusa con quello di punizione. In realtà non è così, e le persone cercano moltissime cose diverse: riconoscimento, accountability, percorsi di responsabilizzazione. Aprire spazi di discussione è il primo passo per cominciare a parlare di punitivismo interiorizzato».

Un altro tema centrale affrontato è l’ipotetica funzione deterrente contro il crimine che assume il carcere. Stefano Anastasia dice chiaramente che questa visione del carcere è fallace, ma risponde ad una funzione simbolica e di legittimazione dell’istituzione.

«La mostrificazione del criminale, che quotidianamente osserviamo nei media, serve per legittimare le istituzioni, ma non serve a soddisfare il bisogno di giustizia di cui parlava anche Giusi Palomba». È necessario quindi ripensare al nostro bisogno di giustizia, e risignificarla.

Valeria Verdolini continua sull’immaginario abolizionista femminista e trasformativo. Seguendo il sentiero del garantismo da una parte e quello del femminismo dall’altro c’è un punto di caduta: tra il “sorella io ti credo” e la presunzione di innocenza. È una situazione in cui è molto difficile stare, ed è difficile costruire uno spazio in cui le due visioni si incontrano. Ma questo punto spazio c’è. È necessario partire dal presupposto che l’abolizione del carcere e la lotta al patriarcato sono due processi diversi. Il carcere ha dei margini di abolizione attraverso gli strumenti istituzionali, mentre non ce ne sono che possano superare il patriarcato. La vicenda di Giulia Cecchettin è interessante perché la sorella, Elena Cecchettin, ha portato sulla scena pubblica un grande lavoro culturale: ha utilizzato un lessico nuovo, non vittimario, in cui il caso particolare viene letto nel meccanismo sistemico, mettendo in evidenza che è un caso collettivo, e che quindi il lavoro culturale deve essere collettivo.

Lo strumento penale è uno dei tasselli perché non ne sono stati inventati altri, soprattutto applicabili a grandi numeri, e in contesti e periodi come quello che viviamo oggi, in cui le persone, come dimostrano anche i risultati delle elezioni, vogliono e chiedono nel dibattito pubblico punizioni e pene. Bisogna quindi lavorare anche su altre cose: su strumenti di libertà e di emancipazione che ci dà il femminismo. Sono quindi due processi diversi, che però passano entrambi per un lavoro culturale.

Si conclude sulla giustizia trasformativa all’interno dei movimenti. Una questione molto dibattuta, come spiega Giusi Palomba, è come gestire il conflitto, che è motore di cambiamento all’interno dei movimenti. Il punto è superare le polarizzazioni nei gruppi, senza rompersi davanti alle difficoltà, e quindi il punto è come fare ad avere comunità abbastanza solide da poter superare i conflitti che nascono da violenza. «La frase we look after each other so we can be dangerous together è esplicativa in questo senso. Una cosa da ricordare è che le idee prodotte da femminismi bianchi occidentali non possono essere calate su ogni comunità, e questo può essere un limite».

Le soluzioni che sono state esplorate finora sono sviluppare pratiche specifiche per la cultura di riferimento in cui la violenza è accaduta. Si parla infine di percorsi di autocoscienza maschile come pratica di trasformazione: caratteristica necessaria dev’essere un lavoro dal basso e all’interno della comunità, prima di creare elaborazione e teoria politica. Dai gruppi di autocoscienza possono poi emergere alcuni dei bisogni da cui le comunità hanno bisogno per evitare la violenza.

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