Alcune note sulla filosofia economica e sociale del Recovery Fund

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Photo Credits: Per una società della cura – 22 dicembre 2020 – Piazza del Parlamento, Roma

di Andrea Fumagalli (Effimera blog)

In questo contributo non mi soffermo sulle singole proposte che sono state avanzate nelle due bozze del Piano Nazionale di ripresa e resilienza (PNNR)[1], al fine di ottenere i fondi del Recovery Plan o NextGU, né sull’onerosità o meno del suo finanziamento.

Intento di questo contributo è discutere la filosofia di intervento economico e sociale che lo supporta

Il Recovery Fund (NextGU) si presenta come un grande piano di investimento nel settore pubblico, a partire dai programmi di digitalizzazione dell’amministrazione pubblica sino alla gestione dei servizi sociali principali (trasporti, infrastrutture, istruzione e sanità).

Utilizzo il termine gestione, perché è il termine che oggi conta, a prescindere dalla struttura proprietaria. In un’economia a flussi, il concetto di proprietà (sia esso pubblica-statuale che privata, dei mezzi di produzione o di specifici titoli finanziari) perde di rilevanza, sostituita da strumenti di controllo che oggi sono in grado di sviluppare le leve del potere tecnologico e finanziario.

Si tratta di un cambiamento di paradigma fondamentale e oggi ancora troppo poco compreso: un cambiamento dirimente, che interessa sempre più da vicino il sistema di welfare, dopo decenni di processi di liberalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici e il progressivo e parallelo smantellamento del sistema keynesiano di welfare.

Negli ultimi trent’anni, il processo di privatizzazione ha ridotto di molto l’insieme dei beni pubblici: in Italia a partire dalle liberalizzazioni (trasformazioni in SpA, quindi società di diritto privato) dal 1992 (con il governo Ciampi e l’arrivo di Draghi, divenuto l’anno prima Direttore Generale del Ministero del Tesoro) e in Europa con gli accordi di Cardiff del 1996.

I servizi sanitari e dell’istruzione privati, ad esempio, sono stati equiparati a quelli pubblici in termini di costi per gli utenti, tramite politiche di incentivazione all’accesso, mentre i servizi energetici e del trasporto e delle public utilities sono stati invece direttamente privatizzati.

Non è un caso che, proprio per far fronte alle nuove sfide della gestione dei servizi e beni pubblici, nel corso degli anni ‘90 si è diffuso un nuovo paradigma di governance che è diventato noto sotto il nome di New Public Management (NPM)[2].

Esso detta nuove regole di gestione del settore pubblico, sull’esempio delle pubbliche amministrazioni anglo-sassoni, dove comincia a diffondersi il sistema di workfare, integrando le gestioni tradizionali di un ente pubblico con una metodologia più orientata al risultato economico.

La finalità è decretare la scomparsa della sfera pubblica senza che scompaia del tutto la proprietà pubblica, immergendola nelle leggi del mercato, non più improntata al buon andamento della società, in funzione delle esigenze di una collettività. È il trionfo dell’individualismo anche nella sfera pubblica. La sanità, il sistema d’istruzione e la pubblica amministrazione, vengono gestite in base a criteri che non contemplano la qualità dei servizi, dal momento che per il NPM la qualità non è altro che una proprietà derivata dalla quantità. E della quantità contano solo gli aspetti economici, che vengono valutati attraverso il benchmarking: invece di fissare gli obiettivi di un’istituzione in base ai suoi scopi (tipo curare i malati per la sanità, istruire per la scuola), si stabilisce uno standard astratto – il benchmark – che dovrebbe consentire di mettere a confronto diverse istituzioni.

Al riguardo è interessare citare un documento del Formez, all’interno del sito governativo della Presidenza del Consiglio, che meglio di ogni altra analisi chiarisce gli intendimenti del nuovo paradigma manageriale pubblico, che tende sempre più ad adagiarsi su quello privato:

“La crisi finanziaria, che ha colpito gli stati capitalistici a partire dagli anni ’80, e soprattutto negli anni ’90, ha indotto l’autorità pubblica a cercare di svolgere un ruolo di timoniere (steering) e coordinatore, legando le risorse pubbliche a quelle private. L’idea dello steering ha indotto una ridefinizione dei ruoli dei soggetti pubblici: all’autorità politica compete di operare ad un livello strategico, svincolandosi dalla gestione operativa che deve essere svolta dalla macchina amministrativa, mentre le azioni politiche ed amministrative si aprono e favoriscono la concertazione tra pubblico e privato, abbandonando la visione adversarial dei rapporti tra l’autorità pubblica e il business privato… È in questo contesto che si è diffusa la teoria del NPM [New Public Management, ndr.], che mette in discussione l’esistenza di una cultura e di forme di gestione specifiche della Pubblica Amministrazione sostenendo la necessità di applicare ad essa, adattandoli opportunamente, i principi e le tecniche del management privato. L’applicazione dei principi della aziendalizzazione, dal canto suo, ha favorito lo sviluppo di alcuni dei tratti distintivi della governance: l’attenzione alla partecipazione degli stakeholders; il coordinamento dei diversi interessi in gioco; l’applicazione sistematica dei principi di efficacia, efficienza, coerenza e trasparenza dell’intervento pubblico”[3]

Il cambiamento postulato dal New Public Management ha cominciato a investire tutto il sistema, compreso il rapporto tra politica e Pubbliche Amministrazioni, costituendo in sostanza un abbandono del dirigismo centralista delle organizzazioni pubbliche: il rapporto Stato-Mercato si declina così in direzione del privato[4].

Negli ultimi anni, dopo lo smantellamento dei servizi delle public-utilities (poste, telecomunicazioni, trasporti, servizi energetici e idrici[5], ecc.), è arrivato il turno dei servizi sociali, in primis sanità, istruzione e protezione sociale.

È anche la conseguenza del fatto che oggi il welfare si è trasformato in un modo di produzione.

Due sono le tendenze, fra loro sinergiche, in atto. Da un lato, si registra l’estensione della base di accumulazione e l’aumento dello sfruttamento della cooperazione sociale e del General Intellect che innervano i servizi della riproduzione sociale, dall’altro si registra un sempre più marcato processo di finanziarizzazione.

La previdenza e la sanità sono forse i due ambiti in cui il processo di valorizzazione è più marcato. Le innovazioni che hanno accompagnato l’ascesa dei mercati finanziari hanno consentito la capitalizzazione del sistema previdenziale da parte delle grandi società di intermediazione finanziaria. Il passaggio dal sistema a ripartizione al sistema a contribuzione ha di fatto permesso di quotare le aspettative di vita degli individui e incentivare la speculazione finanziaria su asset non più riconducibili solo all’attività di produzione ma direttamente alla vita degli individui.

Grazie alla sua finanziarizzazione (in grado di garantire servizi previdenziali più elevati a chi detiene quote di risparmio più elevate) il Welfare non svolge più il ruolo di ridistribuzione del reddito ma, all’opposto, ne favorisce la distorsione e la concentrazione, alimentando la segmentazione del lavoro e la precarizzazione della vita.

Il settore in cui risulta più evidente il ruolo “produttivo” del Welfare contemporaneo è quello della sanità, grazie soprattutto alla diffusione delle nuove tecnologie algoritmiche di raccolta e manipolazione dei big data.

L’ingresso dell’industria dei big data ha portato nel settore dell’industria sanitaria le principali società dell’elettronica in grado di sviluppare dispositivi e sensori che raccolgono dati e le principali società dell’informatica, dotate dell’infrastruttura per analizzare le grandi quantità di informazioni raccolte. Praticamente, tutte le principali corporation che operano nel comparto dell’elettronica informatica hanno aperto una divisione Health, in proprio o in collaborazione con università, enti di ricerca, società farmaceutiche.

Rendere capitalisticamente efficiente il Welfare e, più in generale, la Pubblica Amministrazione, come nuova leva dell’accumulazione privata è la filosofia del PNRR, non a caso centrato sullo sviluppo dei processi “privati” di digitalizzazione (l’appalto a privati della rete 5G ne è la conferma[6]) ma senza garantire un diritto universale e gratuito alla rete, l’informatizzazione della sanità (anche a scapito della prevenzione territoriale), l’investimento nella scuola per favorire la formazione continua e professionale extra-scolastica a favore delle imprese.

E chi può garantire il raggiungimento di questi obiettivi se non Mario Draghi, che di NPM ne sa più di tutti?

[1] Con l’avvicendamento di Draghi e il nuovo governo tecnico, è presumibile che alcune parti verranno fortemente modificate.

[2] Christopher Hood, “A public management for all season?” in Public Administration, vol. 69, n. 1, 1991. Janine O’Flynn, “From New Public Management to Public Value: Paradigmatic Change and Managerial Implications”, in The Australian Journal of Public Administration, vol. 66, no. 3, 2007, pp. 353–366.

[3] www.governance.formez.it, sito della Presidenza del Consiglio dei ministri, alla sezione ‘documenti/Significati di Governance’, 2012 – [documento consultabile su doczz.it]

[4] Walter J.M. Kickert (a cura di), Public Management and Administrative Reform in Western Europe, Cheltenham: Edward Elgar Publishing, 1997.

[5] Nonostante che un referendum popolare per l’acqua pubblica abbia detto l’esatto contrario, a conferma della valenza della democrazia nel nostro paese.

[6] http://effimera.org/la-banda-unica-in-italia-come-si-espropria-un-bene-comune-di-andrea-fumagalli/

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 45 di marzo-aprile 2021:  “Recovery PlanET: per la società della cura

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