di Sandro Moiso
Pietro Basso, Amadeo Bordiga, una presentazione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2021, pp. 158, 18 euro
Al contrario di quanto buona parte della cosiddetta Sinistra Comunista ha sperato per molto tempo, la catastrofe del socialismo reale e il declino e successiva scomparsa, inevitabili poiché collegati alla prima, dei partiti ex-stalinizzati del ‘900 non ha affatto contribuito a sollevare il velo di menzogne e distorsioni storico-politiche che ha ricoperto l’esperienza comunista, nei decenni intercorsi tra il 1926 e il 1989, grazie alla narrazione dei partiti e delle istituzioni che pensavano di essersi liberati di ogni serio avversario a “sinistra”.
Per questo motivo la figura di Amadeo Bordiga ha pagato due volte la sua irriducibile opposizione sia al capitalismo trionfante successivo alla seconda guerra imperialista e mondiale che al “marxismo” deviato e corrotto, spacciato come teoria della classe operaia, prodotto dagli stalinisti e dai loro successivi epigoni. Una figura, quella del primo segretario del Partito Comunista d’Italia fondato a Livorno nel 1921, rimossa per lunghi anni dalla storia dello stesso partito e mal riproposta, allo stesso tempo, dai suoi seguaci della seconda metà del ‘900 che alternativamente si sono dedicati alla riproposizione acritica, se non mitica, delle sue scelte e idee politiche oppure, in tempi più recenti, ad un autentico tiro al piccione nei suoi confronti, in una sorta di rivolta contro un padre con cui, troppo spesso, non si son fatti davvero i conti storicizzandone ruolo e personalità.
Motivo per cui giunge gradita, per chiunque non voglia vivere soltanto di miti e foscoliane illusioni oppure di menzogne, la presentazione di Bordiga proposta da Pietro Basso per le Edizioni Punto Rosso. Certo le 150 pagine e i dieci succinti capitoli in cui l’autore riassume gli aspetti principali dell’azione e della riflessione politica del comunista italiano costituiscono uno spazio ristretto per racchiudere un’esperienza che ha spaziato dal Partito Socialista, incrostato di opportunismo e massoneria, della Seconda Internazionale, alla Rivoluzione russa e alla nascita della Terza Internazionale e dei partiti comunisti, fino alla degenerazione staliniana di tutto ciò e alla necessità di riflettere su un modo diverso di intendere l’organizzazione e la teoria comunista, ma si può comunque dire che è un buon inizio.
Basta infatti dare una rapida scorsa alle pagine dedicate alla bibliografia su Amadeo Bordiga, poste alla fine del volume, per comprendere quanto siano state poche le opere a lui dedicate, soprattutto se si pensa al gran numero di quelle dedicate a Gramsci o, ancor peggio, a Togliatti e ai dirigenti del partito stalinizzato. Ma si sa, la pubblicità è l’anima del commercio e anche la corporazione degli storici, a parte alcune rarissime occasioni, si è adeguata, sia per intrinseca convinzione ideologica che per opportunistica necessità di vendita del proprio prodotto, favorendo una leggenda gramsciana che è servita, in realtà, troppo spesso a giustificare la storia di un partito che, dopo aver espulso a sua insaputa Bordiga nel 1929, ha congelato la memoria del comunista sardo relegandola ad un’esperienza carceraria sulla quale, in realtà, ci sarebbe ancora molto da dire e scrivere1.
Pietro Basso ha pubblicato saggi e libri sul tempo di lavoro, la disoccupazione, le migrazioni internazionali, il razzismo dottrinale e di stato, l’islamofobia, le lotte del proletariato, tradotti in molte lingue. Nel 2020 ha curato per l’editore Brill la prima antologia di scritti di Bordiga in lingua inglese, The Science and Passion of Communism. Selected Writings of Amadeo Bordiga (1912-1965), e scritto la voce Bordiga nel Routledge Handbook of Marxism and Post-marxism (2021). Collabora inoltre alla rivista «Il cuneo rosso» e al blog «Il pungolo rosso».
Proprio dall’introduzione al testo contenente la traduzione in inglese degli scritti del comunista napoletano è tratto il testo appena pubblicato in Italia, che si caratterizza per l’obiettività con cui è presentata l’opera (teorico-politica) dello stesso.
Come afferma lo stesso Basso nell’introduzione:
Questo scritto è una presentazione molto sintetica di Amadeo Bordiga. Del militante, organizzatore e propagandista politico di primissimo rango, quale fu nella prima fase della sua battaglia comunista (1912-1926); e del “restauratore” di alcuni aspetti della teoria marxista in contrapposizione al capitalismo e allo stalinismo trionfanti, quale fu in una seconda fase del suo impegno (1945-1966). Si tratta di due periodi storici pressoché agli antipodi. In quanto il primo vide esplodere, per entro la “grande guerra”, il più ardito assalto al cielo mai compiuto dal proletariato, mentre il secondo ha celebrato il pieno rilancio del capitalismo, dopo un trentennio di catastrofi, attraverso l’inaudita espansione mondiale dei rapporti sociali mercantili e monetari e dei connaturati valori culturali.
[…] Come si vedrà questa non è un’apologia bordighista di Bordiga. Perché il bilancio di questa grande esperienza è, necessariamente, in chiaroscuro2.
Il tentativo di Basso è quello di sottolineare come Bordiga abbia sempre operato in quanto militante più che come intellettuale, stravolgendo già in questo modo quella concezione tipicamente borghese dell’”intellettuale impegnato” oppure quella gramsciana dell’intellettuale “organico”.
Circolo Carlo Marx di Napoli, Federazione giovanile socialista, frazione intransigente rivoluzionaria, frazione comunista astensionista, Pcd’I-sezione italiana della Terza Internazionale, Partito comunista internazionalista e, infine, Partito comunista internazionale-Programma Comunista, sono stati i momenti che hanno segnato il suo percorso politico, organizzativo e teorico.
Bordiga, militante delle rivoluzioni a venire verrebbe da dire, non ha mai rinunciato all’integrità politica in nome del successo o dell’affermazione personale, anche se questo ha portato con sé due aspetti antitetici di cui Basso sa tenere conto.
L’ostinata difesa della radicalità della Rivoluzione e dell’azione e della teoria che devono per forza di cose accompagnarla gli ha permesso, anche nei periodi di quasi totale isolamento, di rinnovare, ancor più che restaurare soltanto come vorrebbero gli epigoni, il pensiero del movimento di classe rivoluzionario, trasmettendo ai posteri alcuni insegnamenti che nel ritorno della Grande Crisi, economica e pandemica e certamente portatrice di enormi disastri e guerre, odierna potrebbero rivelarsi estremamente utili se non addirittura dirimenti per i movimenti attuali di contestazione e negazione dell’ordinamento socio-politico attuale.
Cosa che ha fatto sì che la sua damnatio memoriae non cessasse mai di operare.
Per i narratori di stato il dato storico effettivo è irrilevante […] la sola aspirazione razionale che può nutrire la classe lavoratrice è quella di moderare un po’ gli effetti più estremi del meccanismo capitalistico. Altro non può. E se osa andare oltre? […] il contraccolpo sarà durissimo. Non solo per gli audaci. Lo sarà per tutti i proletari e perfino per l’intera società. Perché – parla Mauro3 per i suoi simili – «la fascinazione febbrile di un pensiero continuamente teso a ricostruire il mondo» non può che metter capo a «modellistica politica» tanto grandiosa quanto «ingenua, che proietterà nel futuro la tentazione tragica della comunità perfetta». Niente fascinazioni. Niente pensieri grandiosi. Niente modelli utopistici. Niente sogni di comunità perfette – salvo quelli da incubo, dell’industria 4.0 e del transumanesimo robotico […] Al lavoro, disciplinati! E vi passeranno i grilli per la testa. « La sinistra, o è riformista o perde». Solo questo è possibile4.
Ma le questioni poste da Bordiga non sono di dettaglio e non si possono facilmente rimuovere così come alcuni avrebbero voluto: «la sua battaglia contro le illusioni seminate dal riformismo, il suo anti-militarismo rigorosamente disfattista verso la “patria” borghese, la sua denuncia del cretinismo parlamentare» insieme alla sua capacità di «estrarre e mettere in luce la dimensione anti-produttivistica ed ecologica del marxismo […] che ne esalta l’antagonismo col capitalismo stramaturo che, nella sua folle ricerca di nuove fonti di produzione del plusvalore, si caratterizza più che mai per una feroce fame di catastrofe e di rovina»5.
Certo, a fronte di questa riscoperta del radicalismo ed attualità della proposta bordighiana rimangono le ombre. Ombre legate ad una concezione tattica semplificata fino all’osso e ad una concezione organizzativa di tipo partitico che spesso, e soprattutto nell’interpretazione ed applicazione di troppi epigoni, porta a rigide derive settaristiche. Costringendo il discorso in un alveo talvolta ermetico ed autoreferenziale (soprattutto nelle infinite polemiche e diatribe che hanno caratterizzato le separazioni, divisioni e scontri tra le differenti correnti “bordighiste”, già ben prima della sua morte avvenuta nel 1970).
Uomo d’altri tempi, per formazione, cultura ed esperienza Bordiga non comprese assolutamente la novità costituita dai movimenti del ’68, cui dedicò l’ultimo suo scritto pubblicato in vita sul «Programma Comunista». D’altra parte non avendo compreso la grande trasformazione sociale avvenuta con l’avvento della riforma della scuola media unica, Bordiga poteva rammentare soltanto le mobilitazioni a favore del primo conflitto mondiale portato avanti, all’epoca, da uno studentame che costituiva una sorta di jeunesse dorée borghese, mentre i figli dei proletari dovevano accontentarsi di seguire le orme dei padri (e delle madri) in fabbrica.
Certe estremizzazioni poi del suo pensiero, dopo il secondo conflitto mondiale, furono anche il prodotto di due altri fattori. In primo luogo una salutare reazione all’impostazione marxista-leninista che da lì a poco si sarebbe trasferita anche in tanti gruppi della cosiddetta “nuova sinistra”. E che si sarebbe trasferito ben presto (probabilmente con Bordiga ancora vivente) anche nella Sinistra Comunista sotto forma di culto del capo. Un culto della personalità cui il vecchio e irriducibile comunista si era da sempre opposto, fin dalla morte di Lenin e dall’avvento dello stalinismo, e che avrebbe osteggiato in ogni modo fino a quella rivendicazione di un totale anonimato autoriale, che invece avrebbe permesso, in seguito, ai vari manipoli di seguaci di fregiarsi degli stessi meriti, spesso senza avere davvero fatte proprie le sue posizioni.
L’altro fattore è da attribuire alla solitudine in cui Bordiga operò per lunghi periodi della sua vita e anche alla sfiducia che lo stesso nutrì nella formazione di uno strumento “partito” di cui non vedeva ancora le necessarie condizioni di sviluppo. Trascinatovi quasi per i capelli, finì col definire rigide norme destinate ad una sorta di “autodifesa” da quella sovracrescita di militanti poco preparati e dalle poche e confuse idee che aveva finito col caratterizzare i “partiti di massa” di origine stalinista, fascista o democratica.
Era ben chiaro a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 nella testa del nostro (e un po’ tutta la sua opera di quegli anni lo dimostra) il disastro storico, politico, ideologico ed umano rappresentato dallo stalinismo come vero distruttore del movimento di classe internazionale. Oggi affermare ciò può essere scontato, ma credo che fosse cosa ben diversa vivere sulla propria pelle, in diretta per così dire, e nella propria testa il fallimento rappresentato dallo stalinismo per il movimento di classe e per gli uomini che avevano legato il proprio destino a quello della rivoluzione bolscevica e ai suoi strascichi nei primi trent’anni del secolo. Sicuramente, al confronto, fascismo e nazismo avevano costituito un problema minore, una conseguenza di quel fallimento, non certo una causa.
Per tutti questi motivi Bordiga, con il suo modo di pensare, operare e interpretare il marxismo, proprio come suggerisce Pietro Basso, va inquadrato sul piano storico e, quindi, anche umano ovvero soggettivo. Bordiga uomo storico intanto e non vate, gigante, maestro di misteri o condottiero rivoluzionario. E’ accademico ricordare tutto ciò ? No, soprattutto se questo ci può aiutare a capire alcuni “svarioni” ed alcune salutari anticipazioni egualmente espresse dal suo pensiero.
A settanta e più anni, nelle riunioni sulla conoscenza e la filosofia6, riprese la polemica anti-culturalista che lo aveva già caratterizzato in gioventù e lo fece con foga e passione, perché sapeva bene che proprio i deliri della “cultura proletaria” erano stati una delle armi retoriche dello stalinismo in patria e fuori.
Così pure la freddezza della ragione così vicina al calcolo politico (padre di ogni opportunismo) e l’esaltazione positivistica e trionfalistica della scienza (madre di ogni tradimento della teoria rivoluzionaria) lo spinsero ad allontanarsi da due capisaldi del pensiero borghese otto e novecentesco che si erano inseriti come un tarlo nella teoria comunista fino a stravolgerla, in nome, appunto, di nuove fasulle conquiste (la polemica sulla corsa allo spazio era prima di tutto, ancora una volta, una polemica antistalinista) sia nel campo della conoscenza e del rapporto uomo-natura che in quello dei rapporti di classe.
Bordiga restituiva l’intuizione, la religione e l’arte alle categorie della conoscenza; recuperando così anche la possessione7 ovvero la manifestazione negli uomini, sia presi individualmente che collettivamente, di forze e potenze che li trascinano, li dominano e li soggiogano ancor prima che essi possano pienamente comprenderle.
Ad esempio il comunismo, che a sua volta è figlio di necessità storiche, di potenze materiali che agiscono sulla società e sui singoli provocando di volta in volta una metamorfosi del sociale e delle forme della conoscenza (oltre che delle forme di lotta e di organizzazione). Solo dopo un impatto violento sugli uomini e sulle classi queste forze possono essere “formalizzate”, ridotte a teoria. Motivo per cui anche in Marx si parla del demone del comunismo ed è interessante constatare come per gli antichi greci (ovvero prima dell’età classica e della sistemazione dei canoni), in Omero per esempio, la parola daímones servisse indifferentemente a parlare degli dei come dei demoni.
L’intuizione, così vicina all’istinto, deve spesso guidare il rivoluzionario anticipandone le sistemazioni teoriche che seguiranno: l’esempio degli scritti giovanili di Marx (di cui non a caso Bordiga si stava occupando al tempo delle riunioni in questione) che anticipano gli scritti della maturità potrebbero costituire un esempio di ciò. Ma anche la spontanea sollevazione o ribellione delle classi formate o in formazione (ancora non a caso vengono recuperati i luddisti nel corso delle stesse riunioni) anticipa la teoria e le teorie che spiegano e accompagnano la lotta di classe.
L’arte segue un po’ lo stesso percorso poiché l’artista esprime più di quello che lui stesso vorrebbe, sia perché il suo prodotto non è mai individuale e soggettivo, sia perché spesso tende ad anticipare ciò che già è nell’aria (in questo caso anticipare sta anche per annunciare e si può annunciare solo ciò che già è deciso ovvero che già esiste anche se la moltitudine sembra ancora non esserne a conoscenza). D’altra parte il termine avanguardia, tra ‘800 e ‘900 non si è prestato forse all’uso sia politico che artistico? Nell’accezione bordighiana dell’arte (colta sempre nel momento in cui accompagna le grandi trasformazioni della società) quest’ultima non è forse sempre precorritrice di ciò che sta per avvenire?
Infine la religione: prima forma di conoscenza “teorica” del mondo e al contempo anticipatrice delle leggi destinate a governare le prime società di classe. Manifestazione dell’umano che si dà un proprio divenire, collegandolo a cicli più grandi della stessa forma sociale che l’ha prodotta. Manifestazione essa stessa di quelle potenze, di quelle forze che l’uomo subisce e allo stesso tempo cerca di spiegare e dominare. Perché insistere, come fa Bordiga, su questo aspetto della conoscenza umana, se non per rivoltarla contro gli stessi “atei” borghesi che hanno fatto del capitale, dello sviluppo e del progresso tecnico la propria nuova e disumana religione?
La domande da porsi quindi riguardano non tanto dove, quando, come e perché comincia la deriva bordighista, ma piuttosto, come il provocatorio e nuovo discorso bordighiano abbia fallito nell’incontrare quei movimenti che da lì a pochi anni, Bordiga ancora vivente, avrebbero cominciato a porsi problemi analoghi e come, allo stesso tempo, quelle affermazioni si siano trasformate nella caricatura di sé stesse nella spesso inconcludente e settaria pratica bordighista.
Ma, come al solito nel testo bordighiano, ci sono “intuizioni” che travalicano la miseria del momento (riunioni in cui bisognava chiedere insistentemente ai compagni presenti di non allontanarsi in massa e ridurre i macigni in salsicce) e degli epigoni.
Intanto la modestia dell’uomo: ne sono prova non solo gli scherzosi richiami ai disattenti, ma, soprattutto, il diniego di fronte a quei lavori “futuri” che si ritenevano importantissimi (sulla scienza e la conoscenza, sulla società futura, etc.), ma che allo stesso tempo si ritenevano al di sopra delle proprie forze intellettuali sia individuali che collettive. Per Bordiga nulla poteva esser dato per scontato a livello di conoscenza: tutto era, almeno fino all’affermarsi di una società comunista, in divenire. E spesso non vi erano nemmeno giganti sulle cui spalle poter salire. Tutto rimaneva nella dimensione degli uomini, per grandi che questi potessero essere, poiché gli “dei” si manifestano soltanto come forze dominanti e gli eroi esistono per quanto durano i cicli rivoluzionari. La polemica sul battilocchi ne è l’esempio più concreto e saldo.
Nel vecchio Bordiga, comunque, trionfava sempre la preoccupazione anti-staliniana e così sarebbe stato destinato a fermarsi sull’orlo di una nuova fase della lotta di classe, incapace di mettere pienamente a fuoco quegli elementi di novità compresi nel ruolo dei popoli non occidentali nella ripresa della stessa e allo stesso tempo quelli non “operaistici” già presenti nel corpo principale dei testi della Sinistra. Così, mentre all’inizio del secolo un certo spontaneismo aveva permesso al gruppo dei giovani socialisti, e poi del Soviet, di emanciparsi dai dettami della socialdemocrazia legata alla Seconda Internazionale, sul finire degli anni sessanta Bordiga preferisce chiudersi all’interno di una ferrea (e dannosa quando non ridicola) disciplina di partito che finirà con lo scimmiottare il bolscevismo più deleterio di marca stalinista. Quasi come se a forza di fissare o di lottare con il mostro avesse finito con l’assorbirne le caratteristiche peggiori.
Finiva così col perdere quell’attenzione per la metamorfosi necessaria del mondo e delle forme di lotta e di organizzazione (quindi delle tattiche e delle parole d’ordine) che avevano caratterizzato la parte più viva del suo discorso.
Per i fessi e i settari rimasero gli invarianti, il dogmatismo, la ferrea “rosa delle eventualità tattiche”, i sacri testi, ma non il metodo, quello stesso che aveva permesso a Marx di riconoscere la grandezza della Comune nonostante la direzione anarchica e populista della stessa, a Lenin di superare con un gigantesco colpo d’ala i pantani della Seconda Internazionale e a Bordiga di riconoscere il carattere capitalistico della Russia Sovietica e il carattere rivoluzionario delle lotte dei popoli colorati e ancora l’importanza della religione, dell’intuizione e dell’arte ovvero della passione nei processi cognitivi umani.
Sono personalmente convinto che da quel metodo i rivoluzionari debbano continuamente ripartire, in una sorta di fatica di Sisifo cui soltanto la fine dell’odiato sistema di classe potrà metter fine. Ogni scorciatoia, ogni certezza definitiva, ogni imbecille speranza nella forza del dogma o di un partito che per ora non c’è, ci è definitivamente preclusa, mentre la lettura proposta da Basso può costituire un primo e significativo passo in direzione di questa riscoperta della parte più vivace e attuale del pensiero del vecchio comunista; tralasciando quelle incongrue polemiche in cui i suoi seguaci od ex continuano a razzolare nel tentativo di spiegarne, sminuirne o ingigantirne le responsabilità, vere o presunte, nei confronti delle sconfitte subite dalla rivoluzione8. Incapaci anche di comprendere la sostanza delle sue Lezioni delle controrivoluzioni e, forse, ancor meno quanto affermò Rosa Luxemburg, all’indomani della sconfitta dell’insurrezione spartachista di Berlino, nel gennaio del 1919: «poggiamo i piedi proprio su quelle sconfitte, a nessuna delle quali possiamo rinunciare, ognuna delle quali è una parte della nostra forza e consapevolezza»9.