Of all the forms of inequality, injustice in health is the most shocking and the most inhuman because it often results in physical death. (Martin Luther King Jr.)
Nelle foto che ci arrivano dal mondo durante la pandemia di Covid-19 c’è il fallimento del sistema capitalistico. In USA migliaia di automobili ogni giorno sono in fila per ricevere gli aiuti alimentari; in India i lavoratori a cottimo delle industrie di Delhi, adesso disoccupati e senza casa, muoiono per le strade nel tentativo di raggiungere le aree rurali dalle quali provengono; in America Latina si bruciano all’aperto i cadaveri dei morti in casa per il virus, che non hanno ricevuto assistenza sanitaria; a Lesbo e lungo la “rotta balcanica” decine di migliaia di migranti sono abbandonati ai loro destini.
Il Covid-19, un coronavirus che causa la polmonite chiamata SARS Cov2, non è un’emergenza sanitaria “una tantum” e non è stata una imprevedibile pandemia. Sono almeno venti anni che i dati provenienti dalle ricerche della comunità scientifica internazionale ci avvertono di una possibile pandemia di questa portata. Altre pandemie l’avevano preceduta e ci hanno insegnato a sviluppare dei protocolli di gestione degli infetti e prevenzione e contenimento del contagio. In Italia esiste dal 2008 un “piano nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale”, che è stato ignorato. Avevamo tutto per poterci dire pronti ad affrontare una pandemia globale e invece un piccolo virus che si trasmette per via aerea è arrivato nei paesi più ricchi e sembra averci colti di sorpresa. Non avevamo terapie intensive e laboratori analisi adeguati, un numero sufficiente di medici ed operatori sanitari, ventilatori. Non avevamo DPI per proteggere il personale degli ospedali, dei supermercati, ecc.
Come ha recentemente dichiarato il dott. Guido Marinoni, presidente dell’Ordine dei Medici di Bergamo “Si è scambiata una emergenza, che era di sanità pubblica, per una emergenza di terapie intensive. All’inizio, non sono stati isolati i casi, non sono state fatte le indagini epidemiologiche, non sono stati fatti i tamponi ai pazienti, i medici sono andati in giro senza protezione individuale[…] e soprattutto hanno involontariamente diffuso il contagio”.
Non ci siamo preparati alla pandemia e siamo poi corsi frettolosamente ai ripari trattando tutta la società come se fosse un grande ospedale e non un insieme di relazioni e contaminazioni reciproche.
L’elenco dei lavoratori essenziali che stanno continuando a lavorare esponendo le loro vite a un rischio mortale per proteggere gli altri è una denuncia altrettanto violenta dell’iniquità del sistema. Sono tutti lavoratori sottopagati: operatori sanitari, corrieri, riders, commessi, operai, ecc. Peggio sarà nella cosiddetta Fase 2, quando oltre 2,5 milioni di persone torneranno regolarmente a lavoro, senza che siano stati ancora comunicati i protocolli di sicurezza.
Per decenni molti si sono illusi che il neoliberismo, la competizione sfrenata ed il darwinismo sociale ci avrebbero assicurato benessere a livello globale. Ma se di questo millantato benessere non possiamo beneficiarne tutte e tutti in momenti come quello attuale, a cosa è servito sacrificare il nostro tempo e le nostre vite sull’altare dell’economia? Ancora una volta è palese che la ricchezza che produciamo non è redistribuita né in maniera diretta tantomeno in maniera indiretta. Non stiamo negando che lo sviluppo tecnologico abbia portato l’umanità intera a grandi conquiste sul piano della conoscenza; ciò che mettiamo in discussione da sempre sono i metodi attraverso i quali sono state raggiunte queste conquiste: la prevaricazione dell’uomo sull’uomo, la messa a profitto delle vite, lo sfruttamento costante della natura e della biosfera.
Avevamo tutto per poter gestire questa pandemia globale nel migliore dei modi, evitando centinaia di migliaia, forse milioni di morti, ma siamo stati miopi e abbiamo deciso di fare altri tipi di investimenti.
Avevamo le conoscenze anche per prevenire questo tipo di crisi sanitarie ed invertire la rotta quando si era ancora in tempo, ma abbiamo deciso di non fermarci davanti ai segnali che la natura ci mandava, senza mettere minimamente in discussione il modello di sviluppo. Quella che stiamo vivendo è solo la prova generale di ciò che ci aspetta con le conseguenze del cambiamento climatico. Da 50 anni i politici negano, deridono, reprimono i messaggi d’allarme degli scienziati e degli attivisti di tutto il mondo e ancora oggi non riescono a prendere decisioni efficaci per sfruttare l’ultima occasione che abbiamo per limitare i danni. Stiamo parlando in prima persona plurale, ma in realtà esiste un responsabile diretto di queste scelte ed ha un nome preciso e storicamente identificabile: capitalismo.
Le macro-cause del riemergere di grandi epidemie che mettono in ginocchio l’umanità intera e che credevamo di aver lasciato alle nostre spalle, sono tutte riconducibili al modello economico neoliberista, post-coloniale ed estrattivista. In primis:
-Cambiamento climatico
-Deforestazioni
-Allevamenti intensivi ed agricoltura estensiva
-Aumento di agenti inquinanti, quali il PM10
-Indebolimento delle strutture sanitarie primarie e crollo degli investimenti in sanità pubblica
La fine di questa emergenza sanitaria aprirà nuovi scenari di crisi permanente e, senza un cambio di paradigma, si arriverà in breve tempo all’impoverimento delle persone e all’acuirsi delle già elevate disuguaglianze sociali. Questo è il momento per ripensare e costruire il welfare di domani su basi di giustizia sociale, di genere, ambientale e climatica.
Per anni il welfare è diventato da un lato un costo per lo Stato, dall’altro una fonte di nuova accumulazione per il capitale, che non solo si è assicurato la gestione dei servizi e una buona parte delle infrastrutture delle public utilities, ma ha visto crescere costantemente l’interdipendenza tra la domanda di protezione sociale e i mercati finanziari. C’è stata una graduale trasformazione dei diritti in debiti, che ha coinciso con la fine di un modello di integrazione sociale novecentesco, tipico della società keynesiano-fordista. Queste trasformazioni hanno impattato in primo luogo la sanità, che è senza dubbio il più basilare di questi diritti.
Nel welfare al quale dobbiamo aspirare non si deve confondere la salute con l’erogazione di prestazioni sanitarie, ma il benessere di ogni persona deve essere tutelato e preservato a partire dall’educazione, dagli investimenti in ricerca scientifica, prevenzione e screening delle malattie, fino alla messa al bando delle attività dannose per la salute collettiva, coinvolgendo tutti gli ambiti connessi con la costruzione di modelli di vita più sostenibili.
È necessario abbattere le barriere che hanno portato a un mancato accesso alle cure, anzi addirittura all’esclusione totale dalle cure di base, oltre metà della popolazione mondiale (e non stiamo parlando solo dei paesi cosiddetti “in via di sviluppo”), definendo di fatto la salute come un privilegio e non più una garanzia collettiva.
Bisognerà livellare la qualità della sanità a tutti i livelli, perché tutte e tutti vengano curati sulla base delle conoscenze e tecnologie più avanzate. Se aspiriamo ad un welfare di giustizia sociale, dovremo ambire alla costruzione di un nuovo modello di medicina non più ospedale-centrico, ma territoriale. Le persone non devono rivolgersi al servizio sanitario solo quando hanno delle malattie, perché non sono “macchine da aggiustare” ma devono essere accompagnati durante il corso della vita ad affrontare, comprendere ed accettare i cambiamenti del proprio corpo, prevenire le malattie, curarle quando è necessario, sviluppare dei percorsi personalizzati. Va creato un nuovo modello di medicina territoriale, di comunità, basato su nuovi termini di riferimento per i medici di base e gli igienisti, che dovranno operare nella comunità e non negli uffici aziendali. Un modello di questo tipo può essere in grado anche di intervenire efficacemente sulle attività di prevenzione e controllo delle prossime eventuali epidemie, come in parte sta avvenendo in Portogallo.
Bisognerà investire in un welfare comune, con una sanità gratuita e di alto livello, evitando il ricorso alla sanità integrativa e/o privata, che genera disuguaglianze.
Nel nostro paese, il sistema di aziendalizzazione della sanità pubblica e la competitività tra aziende e tra regioni, attraverso il meccanismo dei rimborsi con DRG, va rimesso in discussione perché non si può continuare a pensare di generare profitti o fare economia sulla salute delle persone.
Va assolutamente evitato che le risorse che saranno rese disponibili per la sanità vengano usate solo per aumentare il numero di posti letto e strutture ospedaliere e siano invece indirizzate anche per ricostruire il sistema di sorveglianza e l’operatività dei dipartimenti di sanità pubblica e della medicina territoriale. Soprattutto, qualunque strategia si adotti, è assolutamente necessario che venga applicata uniformemente su tutto il territorio nazionale.
Stiamo parlando di sanità che va oltre il concetto di “pubblico”, quantomeno per come lo abbiamo conosciuto fino ad ora, e miri a una riappropriazione sociale della produzione e gestione di beni e servizi fatti per la comunità. Una sanità che sia realmente un bene comune.
In un articolo del 2012 il dott. Carlo Romagnoli già definiva egregiamente il concetto di sanità come “bene comune” e, riguardo allo stato dell’arte della “sanità-azienda” scriveva: “La sanità in quanto “bene pubblico” (che sarebbe meglio definire a gestione istituzionale, sia essa statale o dei livelli amministrativi regionali o locali) pur essendo in teoria di tutti, viene di fatto gestita, attraverso il sistema della rappresentanza e le nomine conseguenti, da direttori generali all’interno di un modello aziendalistico che consente loro di esercitarne il possesso sostanziale, che coincide sempre più spesso con una non corretta conservazione, l’uso privato o addirittura la alienazione, mentre sempre meno spesso viene rispettata l’autonomia della comunità e le scelte da essa operate e quasi mai vengono create le condizioni in cui i membri della comunità possono svolgere al meglio la gestione comune del bene.”
Vogliamo gettare più in là il nostro sguardo, aspirando non solo alla sanità, ma al concetto più ampio di salute come “bene comune”.
Ciò significa garantire l’accesso all’acqua, la sovranità alimentare e la redistribuzione delle risorse alimentari, la riconversione degli investimenti energetici e l’abbandono delle fonti energetiche fossili. Tutto questo si traduce in miglior qualità della vita e dunque prevenzione.
Le azioni in senso contrario significherebbero dover inseguire nuovi problemi, e abbiamo visto che non è facile inseguire un’epidemia.