Art for Radical Ecologies: arte e giustizia climatica

“Art for Radical Ecologies” è una piattaforma promossa dall’Institute of Radical Imagination che riunisce lavoratori dell’arte ed eco-attivisti per discutere il ruolo che l’arte può svolgere nella creazione di nuove ecologie radicali. Il Manifesto di Art for Radical Ecologies è il risultato iniziale di una scrittura collettiva volta a riflettere sul posizionamento e il ruolo dell’arte nelle lotte interconnesse per la giustizia climatica ed ecologica; gli scritti nel libro ampliano i punti principali presentati nei 16 articoli del Manifesto.

La prima urgenza di questo libro, racconta Marco Baravalle, è riflettere sul ruolo dei lavoratori nel settore dell’arte nella lotta contro il cambiamento climatico. Si tratta di un esercizio di posizionamento, e un cambio di prospettiva, che vuole portare al concretizzare poi questo posizionamento.

Il libro nasce nel 2022 durante il Venice Climate Camp a partire da un’assemblea dell’Institute of radical imagination, che ha dato inizio ad un processo di scrittura collettiva. Il Manifesto che ne è nato non è frutto di un lavoro accademico, ma è un lavoro politico, di internità dei movimenti, ed è proprio stato creato all’interno di un momento di movimentazione sociale, come è stato il Venice Climate Camp negli anni scorso.

Questo Manifesto ha proprio la peculiarità di non essere il lavoro di un artista che ha lavorato nel suo studio, e il processo di creazione è stato sui generis e quasi unico come esperienza nel mondo dell’arte. Proprio per questo carattere di militanza complessiva sul tema, e per i contributi di persone che non sono propriamente interne al mondo artistico accademico, è un libro rivolto a tutti e tutte.

Ad esempio, il contributo di Françoise Vergès sul tema del colonialismo affronta in maniera puntuale la questione palestinese. Nel mondo dell’arte il colonialismo che permea ancora è emerso evidente nel contesto del genocidio palestinese, con censura di opere e autori (uno su tutti il caso della Fiera di Francoforte). Anche in accademia casi del genere sono all’ordine del giorno.

Interviene poi Emanuele Braga, raccontando più nel dettaglio il processo di scrittura del libro. La coscrittura di questo manifesto ha visto tre parti.

Nella prima, si indaga il ruolo dell’arte nel contesto globale attuale, e in particolare da un punto di vista più teorico il rapporto tra produzione artistica e approccio radicale all’ecologia.  Nel dibattito culturale si sono sviluppate in particolare due polarità. In un contesto di decostruzione di un approccio specista e capitalista e coloniale l’arte ha avuto un ruolo importante nel creare un nuovo immaginario, anche arrivando al limite di creare una nuova moda o una nuova estetica. Nel contesto dei movimenti, invece, la critica si focalizza più sui concreti rapporti di forza e sul concetto di Capitalocene, contrapponendosi esplicitamente all’industria del petrolio, alla privatizzazione dell’acqua, etc. Queste due polarità non sempre sono state in grado di dialogare; il nostro obiettivo invece è di portare una sintesi di queste due correnti di pensiero.

Nella seconda parte, attraverso le storie dei movimenti, il tentativo è di riconoscere un soggetto in lotta, riposizionando ciò che ci insegnano le lotte indigene, le lotte transfemministe, ma anche l’antispecismo, con le riflessioni sul ruolo del non-umano in questa lotta.

La terza parte è una call to action: la domanda cardine è quanto alcune questioni, alcune lotte, siano fondamentali e critiche per la produzione culturale, e il ruolo dell’arte. “L’istituzione artistica, i musei, in cui lavoriamo, sono riformabili o sono da abolire? La questione del boicottaggio e della fine del consumo di fonti fossili è centrale nell’ambiente culturale? In molti musei gli attivisti-artisti hanno tentato di svuotare gli ambienti artistici dei legami con l’industria del petrolio, che influenzano anche il nostro lavoro. “

Un altro aspetto di questa stesso tema è tangibile oggi in Palestina, dove in questo momento si sente forte il colonialismo anche sulla filantropia tossica e sulla donor-economy: molte associazioni culturali si sono trovate a dover rispondere ad una richiesta massiccia di garanzie sul posizionamento politico, che hanno obbligato le realtà palestinesi a rinunciare a moltissimi di questi finanziamenti. Molte di loro hanno creato reti di solidarietà che consentissero di poter effettivamente rifiutare queste donazioni.

“Perché anche in Europa non apriamo una discussione sul chiedere alle banche che ci finanziano siano pulite?”

Conclude Marco Baravalle: “L’importanza delle infrastrutture di movimento diventa sempre più rilevante alla luce del progetto neoliberale che mostra in questo tempo la sua faccia più violenta e coloniale e repressiva. Basti pensare ai passi indietro che molte strutture democratiche stanno attuando, dall’UE a molti stati, europei e non, sulle politiche sul clima.”

Guardando al movimento abolizionista afroamericano, questo insegna che il capitalismo non si può riformare, ma è da abolire, così come lo schiavismo non era riformabile, così come non lo è il sistema detentivo. Oggi si dice che anche i musei non sono riformabili, perché sono pieni di capitalisti miliardari troppo complici di imprese coloniali, fossili, inquinanti.

Ogni discorso abolizionista però insegna che non solo bisogna abolire, ma è necessario portare avanti un’opera di rifondazione, perché l’abolizionismo è sempre istituente, oltre che destruente. Questa è la grande sfida. Se determinate strutture non funzionano più, è necessario credere e vedere le possibilità di nuove strutture. Il prossimo piano dell’Institute of Radical Immagination è di lanciare una campagna di investigazione, sulla filantropia tossica che abita le istituzioni artistiche occidentali, ma che possa anche alludere a un contro-spazio da creare e rivendicare. Uno spazio in cui le logiche di relazione sono diverse da quelle neoliberali che conosciamo. Si usa il termine altre-istituzioni, per denominare questo tema in realtà antico nella storia dei movimenti: in queste altre-istituzioni deve esserci spazio alternativo e devono crearsi alleanze che non trasformino in merce culturale le idee e gli immaginari che vengono dagli artisti, senza addomestichino ma diano spazio, cercando di aprire le istituzioni dell’arte ai movimenti.

“Dobbiamo pensare al capitalismo come una serie di rapporti di potere che mettono in campo non solo gli umani, ma anche la natura non umana, e quindi ripensare anche noi all’analisi della composizione ecologica; i nuovi materialismi nel mondo dell’arte sono molto efficaci nel lavorare con la materia, ma dimenticano le relazioni tra la materia non umana” conclude Marco Baravalle “In quanto attivisti climatici che guardano al capitale come ecologia, non accontentiamoci di dire “gli alberi hanno agentività”, ma chiediamoci cosa è possibile fare insieme alla materia non umana contro il cambiamento climatico”.

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