Un articolo di Arundhati Roy sugli effetti dell’emergenza sanitaria in India, originariamente pubblicato su Financial Times e tradotto per noi da Anna Viero e Miriam Viscusi.
Chi riesce ancora a usare l’espressione “diventare virale” senza sussultare un minimo? Chi riesce ancora a guardare qualsiasi cosa – la maniglia di una porta, una scatola di cartone, una borsa di ortaggi – senza immaginarsela piena di quelle invisibili masse informi di materia inanimata, dei morti viventi puntellati da ventose pronte ad attaccarsi ai nostri polmoni?
Chi riesce a immaginarsi di baciare uno sconosciuto, saltare su un bus o mandare il proprio figlio a scuola senza avere davvero paura? Chi riesce a pensare a un piacere quotidiano senza soppesarne i rischi? Chi tra di noi non si spaccia per epidemiologo, virologo, statistico e profeta? Quale scienziato o medico non sta segretamente sperando in un miracolo? Che prete – almeno in cuor suo – non si sta arrendendo alla scienza?
Ma perfino mentre il virus continua a proliferare, com’è possibile non emozionarsi di fronte al canto degli uccelli nelle città, alla danza dei pavoni nelle strisce pedonali e al silenzio in cielo?
Questa settimana il numero di casi a livello globale ha superato quota un milione. Le persone già morte sono più di 50.000. Secondo i dati questo numero aumenterà fino a centinaia di migliaia, se non di più. Il virus si è mosso liberamente lungo i sentieri del commercio e dei capitali internazionali, e la terribile malattia che si è trascinato dietro ha messo in quarantena gli uomini nei loro paesi, nelle loro città e nelle loro case.
Ma a differenza del flusso del capitale, questo virus anela alla proliferazione, non al profitto, e ha perciò, involontariamente e fino a un certo punto invertito la direzione di questo flusso. Si è sbeffeggiato dei controlli sull’immigrazione, della biometria, della sorveglianza digitale e degli altri tipi di analisi dei dati, e ha colpito più duramente, finora, i paesi più ricchi e potenti della terra, interrompendo bruscamente la macchina capitalista. Provvisoriamente, forse, ma almeno abbastanza a lungo per poterne esaminare le parti, trarne un bilancio e decidere se vogliamo aiutare ad aggiustarla, o se invece vogliamo cercare una macchina migliore.
I potenti che stanno gestendo questa pandemia amano parlare di guerra. Non la usano nemmeno in quanto metafora, la usano in senso letterario. Ma se davvero ci fosse una guerra, allora chi sarebbe più preparato degli Stati Uniti? Se i suoi soldati in prima linea non avessero bisogno di mascherine e di guanti, ma di pistole, bombe guidate, bunker buster, sottomarini, aerei militari e bombe nucleari, allora ci sarebbe una carenza di materiali?
Sera dopo sera, dall’altra parte del mondo, alcuni di noi guardano le conferenze stampa del governatore di New York con un’attrazione che è difficile da spiegare. Seguiamo le statistiche e sentiamo le storie di ospedali sovraccarichi, di infermieri sottopagati e sfruttati, costretti a costruirsi le mascherine a partire da sacchi della spazzatura e vecchie giacche a vento, e che rischiano tutto pur di soccorrere gli ammalati. Storie di stati costretti a lottare l’uno contro l’altro per i ventilatori. Storie di medici costretti a scegliere tra i pazienti che ne riceveranno uno, e chi invece verrà lasciato morire. E tra noi pensiamo: “Oddio! Questa è l’America!”
La tragedia è immediata, tangibile, epica: sta avvenendo sotto i nostri occhi. Ma non è una novità. Si tratta dei rottami di un treno che procede fuori dai binari da anni. Chi non si ricorda i video del “patient dumping” – la pratica di ospedali e pronto soccorsi americani di abbandonare per strada ammalati senzatetto, con i camici dell’ospedale ancora addosso e il sedere all’aria? Le porte degli ospedali si sono chiuse troppe volte in faccia ai cittadini americani più sfortunati. Non importava quanto fossero ammalati, o quanto stessero soffrendo.
Almeno fino ad ora: perché ora, nell’era del virus, la malattia di una persona povera può compromettere la salute di una società ricca. Eppure, anche ora, Bernie Sanders, il senatore che si batte instancabilmente per un sistema sanitario universale, viene considerato un outsider nella sua corsa alla Casa Bianca, perfino dal suo stesso partito. (ora, si è ritirato e appoggerà Biden nella corsa alla Casa Bianca n.d.r.)
E che ne sarà dell’India, il mio paese, che si trova sospeso da qualche parte tra ricchezza e povertà, feudalesimo e fondamentalismo religioso, caste e capitalismo, e governato da nazionalisti induisti di estrema destra?
A dicembre, quando la Cina stava lottando contro l’attacco del virus a Wuhan, in India il governo si stava occupando di una protesta di centinaia di migliaia di persone contro la legge sulla cittadinanza, apertamente discriminatoria e anti-islamica, appena approvata dal parlamento.
Il primo caso di Covid-19 in India è stato registrato il 30 gennaio, solo pochi giorni dopo la partenza da Delhi dell’onorevole ospite alla nostra parata per la Festa della Repubblica, il distruttore della foresta amazzonica e negazionista del coronavirus Jair Bolsonaro. Ma a febbraio c’era troppo da fare perché il virus venisse inserito nell’agenda del partito al governo: c’era la visita ufficiale del presidente Donald Trump, programmata per l’ultima settimana del mese. Era stato attirato dalla promessa di un pubblico di un milione di persone in uno stadio nello stato di Gujarat. E tutto questo ha richiesto soldi, e un gran bel po’ di tempo.
Poi ci sono state le elezioni dell’Assemblea legislativa di Delhi, che il Partito del Popolo Indiano (BJP) era destinato a perdere a meno che non avesse aumentato il tiro, cosa che ha fatto, sfoderando una violenta campagna nazionalista hindu senza esclusione di colpi, con tanto di minacce di violenza fisica e uccisione dei “traditori”.
Ma ha perso comunque. Quindi bisognava punire i musulmani di Delhi, tacciati dell’umiliazione. Bande armate di vigilanti hindu, supportati dalla polizia, hanno attaccato i musulmani nei quartieri dei lavoratori a nordest di Delhi, bruciando case, negozi, moschee e scuole. Coloro che si aspettavano l’attacco hanno contrattaccato. Più di cinquanta persone, tra musulmani e qualche induista, sono state uccise.
A migliaia si sono rifugiati in campi profughi situati nei cimiteri del posto. Quando il governo ha tenuto il suo primo incontro sul coronavirus e la maggior parte della popolazione indiana ha sentito parlare per la prima volta di igienizzante per le mani, si stavano ancora tirando fuori i cadaveri mutilati dalla rete di tubature sporche e puzzolenti.
Anche marzo è stato pieno di impegni. Le prime due settimane sono state riservate a far cadere il Congresso Nazionale indiano (INC) al potere nello stato centrale di Madhya Pradesh, e a sostituirlo con il partito BJP. L’11 marzo l’OMS ha dichiarato che il covid-19 è una pandemia. Due giorni dopo, il 13 marzo, il ministro della salute ha affermato che il coronavirus “non è un’emergenza sanitaria”.
Finalmente, il 19 marzo, il primo ministro indiano si è rivolto alla nazione. Non si era preparato molto. Ha preso in prestito il copione di Francia e Italia. Ha affermato la necessità di “limitare i contatti sociali” (facile a dirsi per una società così impregnata nel sistema delle caste) e ha stabilito un giorno di coprifuoco per il 22 marzo. Non ha detto niente in merito alle modalità con cui il governo avrebbe affrontato la crisi, ma ha chiesto alla gente di uscire nelle loro terrazze, suonando le campane e battendo pentole e padelle per rendere omaggio agli operatori sanitari.
Ha tralasciato il fatto, che fino a quell’esatto momento, l’India aveva esportato dispositivi di protezione e ventilatori, invece di tenerli per gli operatori sanitari e gli ospedali del paese.
Non ci sorprende che la richiesta di Nerendra Modi sia stata accolta con grande entusiasmo. La gente ha sfilato sbattendo pentole, ci sono stati balli comunitari e processioni. Ben poca limitazione dei contatti sociali. Nei giorni successivi, alcuni uomini si sono tuffati dentro a botti piene di sterco di mucca santa, e alcuni sostenitori del BJP hanno organizzato festini in cui si beveva urina di vacca. Per non essere da meno, molte organizzazioni musulmane hanno dichiarato che la risposta al virus era Dio, e hanno richiamato i credenti a riunirsi nelle moschee.
Il 24 marzo alle 20, Modi è riapparso in tv per annunciare che, a partire da mezzanotte, tutta l’India sarebbe stata messa in quarantena: chiusi i mercati e vietati tutti i tipi di trasporto, sia pubblico che privato.
Ha detto di aver presto questa decisione non solo in quanto primo ministro, ma in quanto membro più anziano della famiglia. Chi altri avrebbe potuto decidere – senza consultare i governi degli stati, che dovranno vedersela con le conseguenze di questa scelta – che una nazione di 1,38 miliardi di persone sarebbe stata messa in quarantena senza alcuna preparazione e con un anticipo di quattro ore? I suoi metodi danno sicuramente l’impressione che il primo ministro indiano pensa ai suoi cittadini come a una forza ostile a cui tendere un’imboscata, da prendere alla sprovvista e di cui non fidarsi mai.
Ed eccoci in quarantena. Molti professionisti sanitari ed epidemiologi hanno accolto questa mossa con entusiasmo. Forse hanno ragione, in teoria. Ma sicuramente nessuno di loro è a favore della disastrosa mancanza di preparazione o prontezza, che ha invertito le sorti sperate della quarantena più grande e punitiva della storia.
L’uomo amante degli spettacoli ha creato lo spettacolo degli spettacoli.
Sotto lo sguardo inorridito del mondo, l’India si è rivelata con tutte le sue controversie: la sua crudele ineguaglianza strutturale, sociale ed economica, e la sua spietata indifferenza nei confronti della sofferenza.
La quarantena ha avuto lo stesso effetto di un esperimento chimico, che all’improvviso illumina cose prima nascoste. Nello stesso momento in cui negozi, ristoranti, fabbriche e l’industria edile stavano chiudendo, le nostre città e le nostre magalopoli hanno iniziato a cacciare i loro cittadini della classe operaia, i loro lavoratori migranti, come fossero un mucchio di oggetti di cui sbarazzarsi.
In molti cacciati dai loro datori di lavoro o dai loro proprietari di casa, milioni di persone povere, affamate, assetate, giovani e vecchi, donne, uomini, bambini, ammalati, non vedenti, disabili, senza alcun posto dove andare e mezzo di trasporto pubblico in vista, hanno iniziato un lungo cammino verso i loro villaggi nativi. Hanno camminato per giorni, verso Baduan, Agra, Azamgarh, Aligarh, Lucknow, Gorakhpur: tutti a centinaia di chilometri di distanza. Alcuni sono morti lungo il tragitto.
Sapevano che stavano tornando a casa potenzialmente per posticipare la morte di fame. Forse sapevano perfino che avrebbero potuto portare il virus con loro e infettare le loro famiglie, i loro genitori e nonni una volta a casa, ma avevano un disperato bisogno di uno straccio di familiarità, rifugio e dignità, come anche di cibo, se non di amore.
Mentre camminavano, alcuni sono stati brutalmente picchiati e umiliati dalla polizia, che era stata incaricata di inasprire i controlli sul coprifuoco. Dei ragazzi sono stati obbligati ad accovacciarsi e saltellare a rana lungo la strada principale. Fuori dalla città di Bareilly, un gruppo di persone è stato ammassato e cosparso di spray chimico.
Alcuni giorni più tardi, preoccupato che la popolazione in fuga potesse diffondere il virus nei villaggi, il governo ha chiuso i confini anche per chi si spostava a piedi. Persone che camminavano da giorni sono state fermate e obbligate a tornare nelle città che erano appena stati costretti ad abbandonare.
Tra i più anziani tutto ciò ricorda il trasferimento della popolazione del 1947, quando l’India fu divisa e nacque lo stato del Pakistan. Tranne per il fatto che l’esodo attuale è guidato da divisioni di classe e non religiose. In ogni caso questi non sono i più poveri dell’India. Si tratta di persone che (almeno fino ad ora) lavoravano in città e avevano una casa in cui tornare. I disoccupati, i senzatetto e i disperati sono rimasti dov’erano, nelle città o nelle campagne, dove la situazione stava diventando sempre più disperata ben prima dell’avvento di questa tragedia.
Per tutti questi giorni orribili, il ministro degli interni Amit Shah non è apparso in pubblico.
Quando è iniziato l’esodo a Delhi, ho usato un accredito stampa di una rivista per cui ero solito scrivere per poter guidare fino a Ghaziour, al confine tra Delhi e Uttar Pradesh.
La scena era biblica. O forse no: la Bibbia non poteva immaginarsi dei numeri del genere. La quarantena, indotta per assicurare il distanziamento sociale, ha avuto l’effetto opposto: un ammasso di persone a livelli inimmaginabili. Anche per paesi e città dell’India. Le strade principali potranno anche essere vuote, ma i poveri sono confinati in angoli angusti all’interno delle baraccopoli.
Tutte le persone con cui ho parlato tra quelle in cammino erano preoccupate per il virus. Ma è comunque meno reale, meno presente nelle loro vite rispetto all’imminente disoccupazione, alla fame e alla violenza della polizia. Tra tutti quelli con cui ho parlato quel giorno, compreso un gruppo di sarti musulmani che solo una settimana fa era sopravvissuto agli attacchi anti-musulmani, le parole di un uomo, in particolare, mi hanno turbato. Si tratta di un carpentiere di nome Ramjeet, il quale aveva progettato di andare fino a Gorakhpur, vicino al confine con il Nepal.
“Forse quando Modiji ha presto questa decisione, nessuno gli ha parlato di noi. Forse non sa che esistiamo”, ha detto Ramjeet.
Con “noi” intende circa 460 milioni di persone.
I governi degli stati in India (come negli Stati Uniti) hanno mostrato più cuore e comprensione nella crisi. Sindacati, singoli cittadini e altri collettivi stanno distribuendo cibo e razioni di emergenza. Il governo centrale è stato lento nel rispondere alla loro disperata richiesta di fondi. È saltato fuori che il fondo di salvataggio nazionale del primo ministro non ha liquidità disponibili. Al contrario, il denaro dei benefattori si sta riversando in questo fantomatico nuovo fondo creato dal governo: il PM-CARES. Sono apparsi pasti preconfezionati con la faccia di Modi sulla confezione.
Oltre a questo, il primo ministro ha condiviso il suo video di yoga nidra, in cui un Modi animato in versione digitale con un corpo da sogno mostra posizioni asana per aiutare le persone a gestire lo stress dell’autoisolamento.
Questo narcisismo è profondamente preoccupante. Magari uno degli asana potrebbe essere una richiesta in cui Modi chiede al primo ministro francese di permettere all’India di rimangiarsi quell’accordo terribilmente problematico sugli aerei da caccia “Rafale” e usare quei 7,8 miliardi di euro per quelle misure di emergenza assolutamente necessarie per sostenere qualche milione di affamati. I francesi capiranno sicuramente.
Mentre la quarantena entra nella sua seconda settimana, le filiere di distribuzione stanno collassando, le medicine e altri prodotti essenziali si stanno esaurendo. Migliaia di camionisti sono ancora bloccati nelle autostrade, con poco cibo e poca acqua. I raccolti, pronti per la mietitura, stanno lentamente marcendo.
La crisi economica è alle porte. La crisi politica è in corso. I mass media hanno incorporato la vicenda del Covid-19 nella loro tossica campagna antimusulmana, trasmessa 24/24. Un‘organizzazione chiamata Tablighi Jamaat, che si era riunita a Delhi prima della quarantena, si è rivelata essere il “super diffusore”, notizia usata per stigmatizzare e demonizzare la popolazione musulmana. La narrazione generale è che i Musulmani abbiano inventato il virus e l’abbiano diffuso deliberatamente, in una sorta di guerra santa.
La crisi del coronavirus deve ancora arrivare. Oppure no. Non lo sappiamo. Se e quando lo farà, possiamo essere sicuri che sarà gestita con tutti i pregiudizi di religione, casta e classe completamente al loro posto.
Al 2 aprile in India ci sono quasi duemila casi confermati e 58 morti. Queste cifre sono sicuramente inaffidabili perché basate su terribilmente pochi test. L’opinione degli esperti è molto varia. Alcuni prevedono milioni di casi. Altri pensano che il bilancio sarà molto minore. Potremmo non sapere mai i veri contorni della crisi, anche dopo averci colpito. Tutto quello che sappiamo è che la “corsa agli ospedali” non è ancora iniziata.
Gli ospedali e le cliniche pubbliche in India non sono in grado di gestire il numero di bambini – quasi un milione – che ogni anno muore di diarrea, malnutrizione e altre malattie, le centinaia di migliaia di pazienti tubercolotici – un quarto dei casi mondiali – e una popolazione anemica e malnutrita, vulnerabile a numerose malattie minori che diventano fatali. Non possono quindi essere in grado di far fronte a una crisi come quella che Europa e Stati Uniti stanno vivendo ora.
Tutti i servizi sanitari sono praticamente sospesi, dal momento che gli ospedali sono stati trasformati per gestire al meglio il virus. Il centro ospedaliero del famoso All India Insitute of Medical Science a Delhi è chiuso e le centinaia di pazienti malati di cancro che vivono per strada appena fuori dall’ospedale, noti come “i rifugiati del cancro”, sono stati cacciati via come bestie.
Le persone si ammaleranno e moriranno a casa. Probabilmente non conosceremo mai le loro storie, e non entreranno mai nelle statistiche. Possiamo solo sperare che gli studi che affermano che il virus ama il freddo siano giusti (anche se molti altri ricercatori hanno espresso dubbi a riguardo). Nessuno ha mai desiderato così ardentemente e irrazionalmente una bollente estate indiana.
Cosa ci è successo? Il virus, certo. Di per sé non ha una giustificazione morale. Ma è decisamente molto più di un virus. Alcuni credono che sia il modo in cui Dio cerca di portarci con i piedi per terra. Altri pensano che sia una cospirazione cinese per conquistare il mondo.
Qualunque cosa esso sia, il coronavirus ha messo in ginocchio i potenti e ha dato una frenata al mondo come nient’altro prima. Le nostre menti stanno ancora correndo avanti e indietro, desiderando un ritorno alla normalità, cercando di cucire il futuro al passato e rifiutandosi di riconoscere la rottura. Ma la rottura esiste. E nel mezzo di questa terribile angoscia, ci offre un’opportunità per ripensare la macchina apocalittica che ci siamo costruiti. Niente potrebbe essere peggio di un ritorno alla normalità.
Storicamente, le pandemie hanno forzato gli uomini a rompere con il passato e a immaginare un nuovo mondo. Questa volta non è diversa. È un portale, un passaggio da un mondo a quello successivo.
Possiamo scegliere di attraversarlo, trascinandoci le carcasse dei nostri pregiudizi e del nostro odio, la nostra avarizia, i nostri dati bancari e gli ideali ormai morti, i fiumi e i cieli inquinati. Oppure possiamo attraversarlo alleggeriti, pronti a immaginare un nuovo mondo. E a combattere per esso.