di Sandro Moiso
«Voi non sapete cos’è una rivoluzione, se lo sapeste non usereste questa parola. Una rivoluzione è sanguinosa. La rivoluzione è ostile. La rivoluzione non conosce compromessi. La rivoluzione rovescia e distrugge qualsiasi ostacolo trovi sul suo cammino. Chi ha mai sentito parlare di una rivoluzione in cui si incrociano le braccia per cantare We Shall Overcome? Non è quello che si fa durante una rivoluzione. Non avreste il tempo di cantare, poiché sareste troppo impegnati ad impiccare.» (Malcom X, discorso alla King Solomon Baptist Churc di Detroit, 10 novembre 1963)
Alcune settimane or sono, nel primo intervento intitolato «Avanti barbari!» dedicato alla recensione di un testo di Louisa Yousfi, sono state fatte alcune affermazioni che, a giudizio di chi scrive, occorre ancora approfondire e chiarire, in tutta la loro reale portata, con una serie di precisazioni. A partire da quella, contenuta nel testo di Amadeo Bordiga del 1951, che «questa civiltà […] deve vedere la sua apocalisse prima di noi. Socialismo e comunismo, sono oltre e dopo la civiltà […] Essi non sono una nuova forma di civiltà.»
Motivo per cui non vi sarà nessuna continuità tra l’ordine sociale capitalistico e la novella società futura, se questa rifiuterà i fondamenti del primo. Il comunismo non potrà essere in continuità con il capitalismo, poiché, per essere definibile come tale dovrà costituirne la radicale negazione. Infatti, soltanto la rottura dell’ordine sociale, politico ed economico del modo di produzione capitalistico, a partire dalla sua macchina statale, potrà condurre ad un altro ordinamento sociale e produttivo. Destinato a negare radicalmente i valori ordinativi che una interessata interpretazione della Storia ha attribuito a ciò che si intende per civiltà.
Chi continua ad affermare il contrario dimostra soltanto di voler ancora illudere, e illudersi, che la transizione verso il nuovo mondo, non più basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, sull’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta e accumulata e lo scambio mercantile e monetario, anche del lavoro prestato, possa avvenire senza scosse e senza abolire i pilastri, appena citati, che la fondano fin dalle sue origini.
Un’illusione che porta spesso a credere e sostenere che tale passaggio possa addirittura avvenire in virtù del voto di una maggioranza combattiva, ma anche ben educata e asservita alla mentalità liberale e democratica della partecipazione elettorale e parlamentare. Ma che ha anche giustificato la leggenda del socialismo di stato e del socialismo reale, a partire dall’URSS stalinizzata, in cui salari, moneta, mercato, appropriazione della ricchezza da parte dello Stato e dei suoi apparati politici ed economici avevano continuato a sopravvivere e a svilupparsi sulla pelle e lo sfruttamento di coloro che avrebbero dovuto essere, in teoria, i reali beneficiari della Rivoluzione d’ottobre e delle sue conseguenze: i lavoratori e il proletariato.
Illusioni che giustificano la partecipazione elettorale agli occhi di chi immagina che soltanto piccoli spostamenti dell’asse parlamentare e governativo possano condurre al socialismo e che, sempre in nome di velleitarie democrazie popolari e antifascismo da operetta, possono invece soltanto condurre al rafforzamento del potere del grande capitale sulla società. Come hanno recentemente dimostrato le elezioni francesi, in cui una sinistra vociferantesi radicale ha aiutato il ritorno al centro della scena politica di Emmanuel Macron, sfiancato e sfinito dalle due precedenti tornate elettorali, in nome di un antifascismo istituzionale che non fa altro che rafforzare il fascismo stesso.
E non si tratta nemmeno di porre il proletariato e i suoi rappresentanti al posto della classe borghese, come invece una mal compresa idea di dittatura del proletariato sembra invece suggerire, riaffidando al proletariato la gestione degli “affari nazionali”, dei confini della nazione e dei suoi apparati senza nulla modificare nella sostanza e nella continuità della gestione capitalistica dell’ordine ereditato. Condannandolo a rimanere nei limiti definiti da una riduttiva interpretazione della sua funzione sociale. Mentre nella visione dei fondatori del comunismo moderno la classe oppressa, nel raggiungere i propri obiettivi, dovrà innanzi tutto negare se stessa.
Se il proletariato vince, esso non diventa affatto per questo il lato assoluto della società, perché vince solo in quanto abolisce se stesso e il suo contrario. Allora è annullato, appunto, tanto il proletariato quanto l’antitesi che ne è condizione, la proprietà privata.
Se gli scrittori socialisti ascrivono al proletariato questa funzione storica mondiale, ciò non accade punto perché, come la Critica critica dà a credere, essi ritengano i proletari degli Dei. Piuttosto il contrario.
Il proletariato può e deve liberare se stesso perché l’astrazione di tutta la natura umana (Menschlichkeit), anche dell’apparenza di umanità, nel proletariato vero e proprio praticamente è completa; perché nelle condizioni di vita del proletariato tutte le condizioni di esistenza dell’odierna società sono condensate nelle loro forme più inumane; perché l’uomo è perduto nello stesso, ma ha guadagnato nell’istesso tempo la coscienza teoretica di questa perdita, non solo ma è anche costretto immediatamente, dal bisogno assolutamente imperioso ed urgente ed implacabile – l’espressione pratica della necessità – alla ribellione contro questa inumanità. Ma esso non può liberarsi senza abolire le sue proprie condizioni di esistenza. Esso non può abolire le sue proprie condizioni di vita senza abolire tutte le inumane condizioni di vita della società moderna che si compendiano nella sua situazione. Esso non prova invano la dura, ma ritemprante scuola del lavoro. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario o anche tutto il proletariato si rappresenta provvisoriamente come scopo. Si tratta di ciò che è e di ciò che sarà costretto a fare storicamente conforme a questo essere.
Il suo scopo e la sua azione storica sono tracciati nella sua propria base di esistenza, come in tutta l’organizzazione dell’odierna società borghese, in modo evidente ed irrevocabile1.
Il proletariato negli scritti di Marx ed Engels è, prima di tutto, rivoluzionario contro se stesso, contro le proprie forme di esistenza e sopravvivenza impostegli dal Capitale e dai suoi funzionari. Il proletariato è estraneo per forza di cose all’ordine che sarà costretto a distruggere, perché la classe oppressa, che sempre secondo Marx «o lotta o non è», ne è esclusa e non troverebbe alcun vantaggio nel farsi definitivamente integrare nello stesso. Sforzo che tutte le forze opportuniste di sinistra e il fascismo hanno portato avanti nel tentativo di disarmarlo. Il proletariato è dunque barbaro per sua intima essenza, e solo questa barbarie, questa sua estraneità mantenuta e difesa, potrà liberarlo dal giogo dell’oppressione permettendogli di rimanere autenticamente umano.
Lo sforzo di integrazione del proletariato, bianco o internazionale che questo sia, rivendicato da socialdemocratici e liberali costituisce il tentativo di disarmarlo davanti al suo nemico per spingerlo ad accettare le regole del gioco decise dalla classe borghese e dai funzionari del capitale stesso. Un’integrazione in cui l’obiettivo finale è quello di uccidere ed eliminare definitivamente l’intrinseca tendenza alla ribellione compresa nelle condizioni di vita degli oppressi. Sia che si tratti di popoli oppressi e colonizzati, sia che si tratti dei lavoratori salariati, donne e uomini, delle metropoli colonialiste e imperialiste.
Coloro che non l’accettano devono essere per forza definiti “terroristi”, “banditi”, “delinquenti” e allontanati con la forza oppure eliminati fisicamente dal consesso civile. Questo diventa particolarmente visibile là dove popoli oppressi, e privati della possibilità di avere un propria organizzazione politica e militare riconosciuta, vedono definire come “terroristica” qualsiasi loro iniziativa o organizzazione in grado, pur tra mille difficoltà ed errori di valutazione, di mantenere l’iniziativa militare e politica nei confronti dell’oppressore.
Certo, l’ipocrisia borghese e liberale potrà sempre, in seguito, piangere sugli errori, le stragi e i macelli compiuti a danno degli oppressi. Che si tratti della Comune di Parigi oppure dello sterminio dei nativi americani oppure ancora del commercio degli schiavi africani e del mantenimento in condizioni di segregazione dei loro discendenti o ancora di mille altri casi, la commemorazione ex-post e il percuotersi istituzionalmente il petto per gli “errori commessi”, le giornate della memoria fasulle, non impediranno mai che, davanti all’aperta rivolta e azione armata degli oppressi, tutto possa ripetersi, con violenza sempre maggiore e sempre giustificata dalla necessità di difendere dagli estremisti e dai terroristi l’ordine costituito insieme alla libertà e alla democrazia che dovrebbe rappresentare.
Che si tratti di movimenti indipendentisti e anti-coloniali, di Black Panther oppure dell’American Indian Movementi degli anni Settanta o, ancora, dei movimenti di resistenza attuali in Palestina, poco cambia. La risposta sarà sempre la stessa: sangue e violenza senza limiti, giustificati dalla necessità di salvaguardare l’ordine occidentale e bianco, liberale e “democratico” del mondo.
Nel 1821, Nat Turner, che era nato in schiavitù nella contea di Southampton in Virginia, fuggì dalla schiavitù all’età di 21 anni. Circa un mese più tardi, ritornò alla piantagione del suo padrone dopo aver avuto una visione profetica che lo invitava a farlo. Le visioni continuarono mentre egli viveva in schiavitù ma, questa volta, Nat comprese che lo indirizzavano a guidare una rivolta di schiavi. Al fine di vendicarsi sui bianchi per la condizione di schiavitù in cui gli afro-americani erano tenuti. Così, nell’agosto del 1831, dieci anni dopo l’inizio delle sue visioni, Turner iniziò a pianificare la sua rivolta e, con altri schiavi – che raggiunsero al massimo il numero di quaranta – uccise il padrone, la sua famiglia e, nel giro di 48 ore, ogni altro bianco i rivoltosi trovassero sul loro cammino, giungendo ad ucciderne o ferirne circa sessanta. Turner fu catturato, imprigionato e condannato a morte per impiccagione, comprensiva di linciaggio e scorticamento del condannato. Come Randolph Scully ha annotato in Religion and the Making of Nat Turner’s Virginia Baptist Communty and Conflict 1740-1840, l’evento «scosse la confortevole illusione bianca del reciproco rispetto e affetto tra schiavi e proprietari.»2
Quella di Nat Turner è soltanto una delle prime ribellioni di schiavi sul territorio degli Stati Uniti, eppure sembra anticipare tutto ciò che sarebbe avvenuto in seguito e ancora avviene in ogni angolo di un mondo in cui la mannaia della supremazia bianca, travestita da giustizia, cade ancora su chiunque osi ribellarsi al suo sempre più frusto comando.
Che si tratti dei Mau Mau africani degli anni Sessanta del XX secolo, oppure dei piccoli gruppi di nativi che nell’Ottocento fuggivano dalle riserve indiane per portare, per poche ore o pochi giorni, la paura tra coloro che pensavano di averli definitivamente sconfitti o sottomessi, o della rivolta dei sepoy in India nel 1857, quando le truppe indiane della Compagnia delle Indie si ribellarono al dominio inglese, alzarono il vessillo della jihad prendendo il nome di mujahiddin e uccisero gran parte dei cristiani e degli europei di Delhi, la giustificazione per i successivi massacri è sempre stata la stessa: non nata sotto il fascismo, ma dalla stessa esigenza dell’imperialismo liberale di mantenere il proprio comando sugli oppressi in nome della civiltà e dei suoi diritti3, mai radicali e sempre inegualmente distribuiti, secondo linee in cui classe e colore si sovrappongono senza sosta.
Dedicato con affetto, stima e, allo stesso tempo, rabbia per la prematura scomparsa, alla memoria di Emilio Quadrelli, sempre e comunque schierato dalla parte della “zagaglia barbara”.
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K. Marx, F. Engels, La sacra famiglia, IV capitolo, Glossa critica marginale n. 2, 1844-1845 ↩
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Melissa A. Weber, Revolution Rebels: Nat Turner’s Rebellion, 2021. ↩
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Si vedano in proposito: Caroline Elkins, Un’eredità di violenza. Storia dell’Impero britannico, Einaudi editore, Torino 2024 (ed. originale 2022) e, sul tema della nascita del razzismo moderno con l’ordine coloniale imposto al mondo dall’Occidente a partire dal XIX secolo, Martin Bernal, Atena Nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, Pratiche editrice, Parma 1992 (ed. originale Black Athena, 1987). ↩