Nella seconda giornata di Bookpride a Milano, abbiamo intervistato Ferdinando Cotugno, editorialista di Domani. Scrive di ambiente con una particolare attenzione per i movimenti per il clima e ha seguito la COP26 di Glasgow raccontando il contro-summit.
Qual è secondo te il legame che ci sono tra le non-decisioni prese alla COP26 di Glasgow, il concetto di transizione energetica – di cui soprattutto l’Europa di sta riempiendo la bocca – e quello che sta succedendo in Ucraina? E come si inserisce proprio la guerra nel concetto di (finta) transizione energetica?
In questo momento i movimenti per il clima avrebbero il diritto di dire “Ve l’avevamo detto. Ve l’avevamo detto che si sarebbe arrivati esattamente a questo punto”. Nessuno sapeva che sarebbe scoppiata la guerra, però i movimenti avevano messo in guardia da tempo sulla condizione di vulnerabilità in cui ci avrebbe messo la dipendenza da fonti fossili.
Ero alla COP26 e lì notavo che chi era fuori dalla conferenza ufficiale – le piazze, le manifestazioni del venerdì e del sabato – avevano quello che non c’era nel palazzo: la capacità di ragionare autenticamente su scala globale: la crisi climatica infatti è un problema globale che si risolve solo con una visione globale. Il problema della COP26 è che è stata un intreccio di localismi: di interessi regionali, di area, di Paese, che hanno completamente paralizzato il dibattito.
Il vero ostacolo per l’azione per il clima e per una reale transizione è che l’atmosfera del problema è globale, ma poi ci sono i confini nazionali. Stiamo vedendo un ritorno a nazionalismi e sovranismi. Il sovranismo è sottovalutato come problema ambientale: l’idea che “dentro i miei confini, io decido e nessun altro può intervenire” è esattamente il tipo di ragionamento che ci ha portato fin qui. Il vero paradosso tra il “dentro” – una specie di astronave impenetrabile – e il “fuori” alla COP26 è che chi si trovava fuori vedeva il problema nella sua interezza, in una visione molto più sistemica. Era novembre.
Oggi, vediamo che ogni singolo impegno preso alla COP26 è stato smantellato e abbandonato. Alcuni si erano accontentati, dicendosi, a conferenza finita, che in fondo qualche piccolo risultato, anche se tutti si auspicavano di più, era stato raggiunto. Eppure, oggi siamo a marzo e si parla di “ritorno al carbone”. Timmermans, il vicepresidente della Commissione europea, ha detto che “il carbone non è un tabù”. È incredibile affiancare le foto di Timmermans stesso che sosteneva di dover creare un pianeta sostenibile per le future generazioni, alle sue ultime dichiarazioni. L’UE si era indignata nei confronti di Paesi come l’India che non intendevano rinunciare del tutto al carbone. Tre mesi dopo, i Paesi dell’UE stessa, compresa l’Italia, rinunciano alla dismissione del carbone.
La dipendenza da fonti fossili è un debito che continuiamo a protrarre ed è una vulnerabilità strategica anche dal punto di vista geopolitico. In questa fase è una pistola, che abbiamo permesso alla Russia di puntare alla nostra tempia. Con la guerra tutti i nodi sono arrivati al pettine: un mondo basato sulle fonti fossili è un mondo pericoloso, non solo perché impedisce di ridurre le emissioni, ma anche perché costringe a parlare con persone – governanti – pericolosi. E non c’è una lettura corretta del problema. Prendiamo l’Italia: alla luce della crisi energetica in corso, ha avviato dialoghi con l’Algeria e ha rafforzato i legami con il Qatar, i nostri fornitori di gas dopo la Russia. Questi Paesi promettono che le forniture saranno stabili e costanti e i prezzi bassi, ma sono Paesi che vivono forti instabilità (il Qatar, fino a pochi anni fa in guerra con gli Stati confinanti; l’Algeria, in guerra con il Marocco per il Sahara occidentale).
Oltre le questioni climatiche, esiste anche un interesse pratico ad accelerare la transizione energetica: le fonti rinnovabili non sono solo più pulite, più democratiche e comunitarie, ma permettono anche un’indipendenza energetica. L’Agenzia internazionale per l’energia ha detto che dal 2020 in poi, l’energia solare è la più economica della storia dell’umanità.
Nell’intersezione fra clima e guerra ci sono due letture possibili. La prima ammette che l’umanità si è messa nei guai con il modello di sviluppo vigente e per questo deve accelerare la transizione. La seconda vede il problema ma persiste nel fare gli stessi errori, ancora e ancora. A causa di una classe politica senza una visione lungimirante – e di un governo tecnico che la asseconda – in Italia rischiamo di trovarci invischiati nella ripetizione eterna di quello che ci ha portato fin qui.
A proposito dell’IPCC, uscito lunedì 28 e passato quasi sotto silenzio, veniamo da due anni in cui il discorso dominante non è stato l’ambiente ma la pandemia, oggi sostituita dalla guerra. A che punto siamo con la comunicazione della crisi climatica? E qual è la narrazione che si fa della crisi ecologica, anche in relazione proprio all’attuale conflitto in cui il gas è un elemento centrale?
L’IPPC è uscito all’inizio di una settimana di guerra ed è atterrato in un contesto che l’ha completamente ignorato. Mi sono chiesto perché: la risposta più immediata è che, vista l’urgenza della guerra, nessuno può occuparsi dei cambiamenti climatici, nonostante tra i due fenomeni ci siano evidenti connessioni. La risposta immediata è però parziale: oggi manca una cornice narrativa in cui questo rapporto possa arrivare. Anche senza la guerra, il rapporto sarebbe stato ignorato o non avrebbe avuto l’attenzione che merita. È un rapporto di gravità e cupezza inaudite: fa paura leggerlo, è un rapporto pieno di cattive notizie. Il problema è che si compone di tremila pagine: un materiale lungo e complesso da leggere e comprendere.
Il canale di tramite che trasporti il rapporto verso l’opinione pubblica, finora, sono stati i movimenti. Non è stata la stampa – ad oggi manca di una lettura e di una copertura della crisi climatica. Non sono state le istituzioni, che pur facendo parte dell’IPCC, se ne sono disinteressate. Finora il racconto è stato affidato agli attivisti, come dei “postini della scienza”. Il loro è stato un lavoro importantissimo e insostituibile: se i cambiamenti climatici hanno questo ruolo nella conversazione, lo dobbiamo ai vari FFF, XR e a tutti i movimenti di base sul territorio. Ma il tassello mancante è la scienza.
Oggi, la scienza non è all’altezza del suo compito divulgativo. In un mondo complesso – e lo abbiamo visto con la pandemia – la divulgazione scientifica è un tassello fondamentale della democrazia. Invece, purtroppo, nessuno finora si è preso carico del compito divulgativo. Il materiale dell’IPCC non è fruibile per un dibattito pubblico: deve essere reso digeribile, fruibile, utile alla discussione pubblica. Tradotto in termini sociali e politici. Solo la scienza ha l’autorevolezza di questo compito: la comunità scientifica, soprattutto italiana, dovrebbe assumersi il compito di tradurre quelle tremila pagine.
La vera emergenza è che cittadine e cittadini capiscano a cosa andiamo di fronte tra 5, 10, venti o trent’anni, devono raccontare la brutta situazione climatica. Il tramite non devono e possono essere gli attivisti: il loro compito è un altro.
Dipendenza energetica: uno dei modi per affrontarla è spostare asset sulle rinnovabili, che però sono un terreno di contesa. Infatti, spesso le corporation come ENI lavorano su un doppio binario e puntano alle rinnovabili mentre implementano il fossile. Spostando l’attenzione dal fabbisogno, cioè dalla dipendenza energetica, alla produzione, non credi che oggi ci sarebbe la necessità di parlare in termini politici di decrescita?
Sì. Tuttavia, cambierei il termine che si usa, perché oggi decrescita è una parola che ha perso il suo potenziale politico. Se pensiamo alla decrescita, pensiamo a movimenti politici e a parti della società che hanno esaurito il loro ciclo storico. Oggi c’è assolutamente bisogno di mettere in discussione i modelli di produzione e consumo che ci hanno portato a dove siamo.
L’esempio emblematico è quello dell’automobile: se pensiamo che basti sostituire un’auto a combustione con un’auto elettrica per risolvere il problema delle emissioni, ci avviamo a una zona di pericolo. Ci spostiamo da un’insostenibilità all’altra. È il modello di possesso, legato all’automobile, che rappresenta il problema. Purtroppo anche i metalli che servono a produrre le auto elettriche sono estremamente critici da un punto di vista ambientale, etico, sociale. Basti pensare al cobalto: una transizione ecologica reale non può avvenire senza ripensare i modelli. Per chi propone una visione alternativa della società, questa è un’occasione imperdibile per mettere davvero in discussione il modello capitalista. Nei prossimi dieci anni si potrebbe davvero cambiare e mettere in discussione quello che non si è fatto in cento anni. L’ecologia ha questo potenziale. Rimettere in discussione tutto alla radice. In questo caso è fondamentale anche una narrazione di terrore, che descriva la situazione e porti a un crollo definitivo dell’economia del Novecento. Il potenziale sovversivo è irripetibile.
** Pic Credit: Air Pollution – Industrial skyline at dusk – Rotterdam in the Netherlands.