Di libri sul linguaggio inclusivo, sul cambiamento della lingua, sulla lingua come mezzo di comunicazione ne sono stati pubblicati parecchi negli ultimi anni, e tutti, credo, hanno contribuito a creare una sensibilità particolare nei confronti di questo tema, quanto meno nelle nostre bolle transfemministe. Ma, devo dire, un saggio provocatorio e stimolante come questo, di Brigitte Vassallo, ancora ci mancava.
In Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe (Tamu Edizioni, 2024) Vassallo analizza il tema del linguaggio e il tema della cultura (cos’è davvero la cultura? Una cosa astratta o l’insieme di quelli che sono i prodotti culturali? Domande del genere sono il fulcro della riflessione dell’attivista spagnola), non solo da un punto di vista femminista e quindi prendendo in considerazione il genere, la sua costruzione e la sua decostruzione, ma, come dice il titolo, soprattutto da un punto di vista di classe.
Nella prima parte, dedicata appunto ad una riflessione sulla cultura (con riferimenti letterari e cinematografici che ho trovato molto interessanti), Vassallo introduce innanzitutto il concetto di subalternità e di voce dei subalterni, riprendendo le parole della filosofa indiana Spivak. Nel suo testo Can the subaltern speak? Spivak parla di rappresentazione per concludere che no, il subalterno (o meglio la subalterna) non può parlare, in virtù di un processo, designato con il termine lacaniano di “forclusione”, che introduce e al tempo stesso espelle dall’ordine socio-simbolico il soggetto. Non basta infatti parlare, e avere la possibilità di farlo, ma quello che viene detto deve essere ascoltato, e soprattutto compreso nella sua peculiarità, e non interpretato alla luce di un contesto diverso da quello della persona subalterna.
Una riflessione simile viene portata avanti da Vassallo per quanto riguarda la cultura, i prodotti culturali, e soprattutto chi fa cultura. Il casus belli è un libro (Listas, guapas, limpias) in cui protagonisti sono due ragazzi di origine borghese, senza particolari problemi economici in quanto provenienti da una famiglia borghese che si occupa di loro, che si muovono tra occupazioni abitative, e ambienti politici di sinistra che si occupano di lavoro povero.
“Qual è il problema di abitare in questo modo, attraverso l’appropriazione, gli spazi in tensione con la materialità della vita? Il problema è che Nino, Pau e Julia pensano che la vita sia la loro e non si accorgono di avere una vita da paura. Loro fanno teoria senza correre rischi e possono applicare la loro teoria a una vita senza rischi, e questo trasforma sia la teoria che la sua applicazione in un gioco a cui non possono accedere le persone che invece quel rischio per giocare se lo devono assumere. Julia non capisce perché non tutti occupano case, perché c’è gente che insiste a comprare appartamenti di merda con mutui di merda, e questo accade perché non ha ereditato la paura di rimanere senza un tetto sulla testa né corre il rischio effettivo che questo accada. Perché se la sfrattano può andare a Les Corts, alla casa di famiglia. Il problema sorge quando Julia, Nino e Pau pensano che le loro soluzioni siano alla portata di tutte le persone e quando giudicano coloro che non possono applicarle perché non possono permettersele né a livello materiale, né a livello emozionale, né a livello collettivo.”
Questo passaggio è provocatorio e destabilizzante, ci porta a chiederci: dove sono i subalterni nelle nostre società, nelle nostre comunità? Stanno davvero parlando? Li stiamo davvero ascoltando?
Il discorso continua per quanto riguarda l’accademia. L’accesso all’accademia rimane ancora una questione di classe: da una parte, perché il percorso accademico è lungo e faticoso e mediato da una regolazione economica importante; dall’altra, perché entrare nell’ambienta accademico diventa anche una necessità di classe, perché i titoli facilitano un accesso al miglioramento delle condizioni di vita, nei piani materiali. Vassallo porta alla luce un problema importante che insorge a causa di queste dinamiche: “La Conoscenza è l’unica opzione che riteniamo legittima, molto più delle possibilità di autoformazione attraverso un percorso basato su di sé, sulle proprie necessità contestuali e sulla propria curiosità, costituito da un misto di trasmissione orale, letture, accesso ad altra prodotti culturali. “
Il capitale culturale viene affiancato dunque al concetto di capitale economico: la classe sociale, infatti, non riguarda solo il potere economico, ma tutta una serie di altri status che vengono anche dal capitale culturale. E, importante, il capitale culturale non dipende solo dallo sforzo individuale, dal cosiddetto e tanto citato merito. Come il capitale economico, procede per accumulazione, è quindi un capitale famigliare; è un capitale inoltre monetizzabile, ma solo nel momento in cui la conoscenza è istituzionalizzata, quella certificata da un pezzo di carta che ci permette di accedere a posizioni lavorative, che magari sono precluse a persone con conoscenze invece informali. Seguendo l’onda di questo stesso ragionamento, diventa evidente come l’accesso all’Accademia, come scrive Vassallo nel capitolo “Il capitale culturale è performativo”, sia una necessità di classe. Ovvero, la Conoscenza istituzionalizzata è l’unica legittimata, e il pezzo di carta che si ottiene una volta compiuto un certo percorso all’interno dell’Accademia è il riconoscimento che permette (o promette) di migliorare le condizioni di vita.
Aprendo il discorso sulla produzione culturale (su cui Vassallo fa un ragionamento interessante, chiedendosi cosa sia davvero un prodotto culturale, cosa lo renda tale), si parla di accesso alla fruizione e accesso alla produzione di cultura. Mentre il dibattito pubblico è polarizzato sul concetto di accessibilità alla cultura (musei e spettacoli gratis, biblioteche, progetti vari che portino la cultura in piazza, la cultura nelle strade, che la rendano gratuita), quando mai si parla di accessibilità alla produzione culturale? Chi finisce per produrre i contenuti artistici e culturali, se questi non vengono pagati o comunque sono malpagati perché la cultura deve essere accessibile a tutti? Ritorniamo su un discorso di classe, e qui il capitale culturale si interseca irrimediabilmente con il capitale economico; la cultura viene monopolizzata da chi si può permettere di dedicarvi tempo, che produrrà contenuti sui temi che conosce; ecco qui ancora una volta esclusione di classe. Il dibattito si è aperto relativamente recentemente, grazie soprattutto alla pandemia, ma è ancora acerbo.
“In breve, il fatto che i prodotti culturali siano gratuiti influisce direttamente sull’esclusione di classe alla base della loro creazione e del monopolio delle grandi catene di produzione, i cui interessi hanno molto più a che vedere col capitalismo che con la cultura”.
Tornando al linguaggio, Vassallo lo descrive come un insieme di “incidenti” grammaticali; il linguaggio non è sessista di per sé, perché il genere grammaticale è appunto solo un incidente, una casualità; solo per caso una caratteristica grammaticale può essere associata ad una categoria sociale, quale il genere. Quindi, non è sessista o maschilista il linguaggio, ma la resistenza alla creazione di un linguaggio altro che esca dalla norma grammaticale, in nome di purezza e tradizione della lingua. La lingua, infatti, la crea chi la parla, non i vocabolari. Un esempio molto calzante che l’autrice utilizza è questo: se una persona trova in giardino un’erba sconosciuta e non la trova nel manuale di botanica, non si sognerebbe mai di dire che non esiste, ma che non c’è nel manuale. Lo stesso ragionamento si può applicare al linguaggio e alla creazione di nuove forme ed espressioni: una cosa non deve essere ritenuta corretta solo se presenta nel vocabolario; un approccio alla lingua tramite delega alle istituzioni, che ci dicono cosa è giusto e cosa non lo è, ha inoltre un chiaro segno di classe e di razzializzazione, perché il parlare “illegale” o “sbagliato” è spesso proprio di quei soggetti che non hanno il capitale culturale di cui si parlava sopra.
E quindi? Brigitte Vassallo prova a mettere a punto alcune criticità dell’operazione sul cosiddetto “linguaggio inclusivo”. La prima, è che va alla ricerca di una rappresentazione universale, in contrapposizione al maschile universale, che è utopica e forse nemmeno desiderabile. “Se una di queste opzioni sta sognando di sostituire il padrone, non ha senso nemmeno intraprendere la lotta. Perché il sistema non è una forma, ma un metodo. Il sistema non è la -o, come non è il maschile: il sistema è l’universalizzazione”. Inoltre, l’autrice mette in dubbio un assunto che viene invece tendenzialmente dato per assodato nelle discussioni sul linguaggio, ovvero la relazione diretta tra linguaggio e realtà, e tra linguaggio e soggettività. Per questo alla fine, usare un linguaggio inclusivo (con le criticità esposte prima), non farà di una persona una persona con una prassi di vera inclusività, e viceversa.
Tutta la questione del linguaggio, poi, deve essere analizzata a partire dal concetto di semiocapitalismo, come definisce Franco Bifo Berardi il momento che viviamo: il prodotto del capitale non è più materiale ma simbolico, il semiocapitalismo si nutre di informazioni e di segni, ciò che produce valore non sono più le macchine ma il lavoro mentale e creativo.
“La stessa concezione semiocapitalista che ci spinge a vivere nel simbolico a scapito della sua materialità ci convince che la modifica del piano simbolico, semmai, comporterà una trasformazione parallela e immediata sul piano materiale, canalizzando buona parte del nostro dissenso, di nuovo, verso il piano simbolico a scapito del piano materiale. […] Per questo ciò che è simbolico, in tempi di semiocapitalismo, è il grande piano di disattivazione. Perché mentre agiamo nel e a partire dal simbolico, il livello materiale rimane inalterato oppure ridotto all’irrilevanza.”
Che senso ha quindi accanirsi sul simbolico, quindi sul linguaggio, rendendolo nelle nostre lotte chiave di un cambiamento, se poi invece questo non può agire sulla materialità delle situazioni, ovvero il capitalismo riuscirà sempre e comunque in una sussunzione di tali processi di inclusione, rendendoli di fatto vani?
Questa la domanda che si legge tra le righe del lavoro di Brigitte Vassallo. Domanda a cui non viene data risposta, ma che pone le basi per una svolta radicale e un profondo dibattito sul tema, con la consapevolezza che probabilmente non esiste una via unica per affrontare la questione della cultura e del linguaggio, ma che devono essere osservate nella loro complessità e, soprattutto, è necessario trovare le modalità per ascoltare realmente i subalterni.