Caffè Saigon

di Giorgio Bona

La vodka passa in secondo piano e ci si concede un caffè, la terapia giusta per il dopo sbronza.

Tutto questo al Saigon di Leningrado. Non era un ritrovo alla moda, ma uno spazio di confronto di letterati molto vivace in contrapposizione alle sedi della cultura ufficiale come l’Unione Scrittori, il Komsomol e l’università.

Aperto nel settembre del 1964 e frequentato assiduamente nei primi anni Settanta, si trovava tra il Nevskij e il Vladimirskiy Prospekt. Fu chiuso nel marzo 1989, in piena Perestrojka gorbacioviana, per far posto a un negozio di sanitari italiani.

Perché il nome Saigon? Restando alle testimonianze del poeta Viktor Toporov, uno dei più assidui frequentatori, il nome è legato alla domanda intimidatoria che un agente rivolse a tre ragazze che stavano fumando all’interno del locale: “È un’indecenza. Che diavolo di Saigon avete creato qui dentro?”. A quei tempi la capitale vietnamita era ritratta dai mezzi di comunicazione occidentali come una novella Sodoma, patria del vizio e del peccato di soldati impegnati nella sanguinosa guerra del Vietnam.

Il Caffè Saigon si caratterizzò come un luogo aperto e democratico, abitato da protagonisti dell’underground come Viktor Krivulin e Tatiana Goriĉeva e da poeti conosciuti a livello ufficiale come Viktor Sosnora e Gleb Gorbovskij.

Il locale era un collante tra individui di diversa età e questo spiega la longevità della sua durata, con un fronte di resistenza che all’interno vedeva discussioni aperte su film, concerti, mostre, letture di poesie, fino allo scambio di manoscritti.

Dal 1964 al 1982 fu anche il periodo in cui Leonid Il’ič Brežnev ricoprì il ruolo di segretario generale del PCUS e capo di stato, ma l’attività letteraria all’interno del caffè proliferò nonostante le censure imposte dal regime.

Quel periodo anni dopo venne chiamato žastoj, ovvero stagnazione a causa dell’immobilismo della politica di quegli anni, un incancrenire delle istituzioni che creò un clima di inerzia e invecchiamento dei progetti in campo economico, sociale e culturale.

Gian Piero Piretto in Quando c’era l’URSS (Cortina, 2018) su Il caffè Saigon:

da quel mondo di Bohemien faceva parte anche una giovane donna fotografa, vittima della demotivazione, dell’ingerenza del potere, dell’invadenza del discorso nelle vite private, Maša Ivašinkova, compagna del poeta Viktor Krivulin, ma legata anche a un collega fotografo, Boris Smelov, dopo il divorzio dal primo marito, il linguista Melvar Melkumjan.

 

Maša faceva parte di quel numeroso pubblico underground che frequentava il Caffè. Compagna di vita del poeta Krivulin, legata anche a Smelov, un suo collega fotografo, scattò all’interno del locale un numero smisurato di foto senza mai mostrarle in pubblico. Si seppe che aveva anche componimenti poetici molto belli e nessuno poté mai accedervi perché li tenne sempre riservati: forse per un complesso di inferiorità nei confronti dei suoi amanti, grandi attivisti del caffè che leggevano in pubblico i loro componimenti. Visse facendo svariati mestieri: la guardarobiera, la bibliotecaria, la critica teatrale, ma soprattutto si sentiva una fotografa. Scattò foto per tutta la vita: scorci di quotidiano, angoli di città rubati e dolenti, ritratti espressivi di ribelli e dissidenti di quegli anni. Anche questi scatti non apparvero mai in pubblico.

Qualcuno la accostò a Vivian Maier, la bambinaia americana che fotografò il mondo che vedeva nel fine settimana e lasciò centinaia di rullini mai sviluppati che le avrebbero fruttato notorietà post mortem.

Maša fu vittima di una forte depressione e interruppe la sua attività lavorativa. Fu subito riconosciuta come un soggetto disturbato e definita una asociale. Si trovò a dover scegliere tra due possibilità, entrambe dentro un vicolo chiuso: il carcere o l’ospedale psichiatrico. Scelse il secondo dove morì di cancro nel 2000. Nei suoi anni di frequentazione del caffè sembra che abbia superato i 30.000 scatti trovati dalla figlia in diversi scatoloni in soffitta.

Ma il Saigon non fu soltanto luogo di incontri letterari e poetici.

Nei primi anni Ottanta diede segnali nuovi con altre forme artistiche, quando la musica faceva tremare i muri delle cantine di Leningrado, dove nascevano numerose band sfidando le censure di un governo vicino al collasso ma deciso a non mostrare segni di cedimento.

Leningrado era in Russia la città più occidentale del paese e considerata la più vicina all’Europa e al mercato nero.

Ecco dunque nascere gli eredi degli intellettuali anni Sessanta e Settanta, quelli appunto che frequentavano il Saigon, la fucina dei poeti, degli scrittori, degli studenti e degli informatori del KGB.

A proposito di tale tempesta generazionale di frequentatori, si è già raccontato di Viktor Coj, il frontman dei Kino. Viktor fu la stella più luminosa del rock sovietico, il Jim Morrison russo per via di quella sua aria da ribelle ma soprattutto per la sua morte prematura coperta di mistero.

Sulla scena le band si moltiplicarono: Zoopark, Alissa, Leningrad Center, DDT. Le autorità non vedevano di buon occhio quei personaggi alternativi, tutti schedati, che rappresentavano una minaccia al modello di cittadino sovietico.

La censura stava loro addosso e si racconta che all’interno del Saigon una parete a specchio dividesse il locale da una piccola stanza dove si nascondevano i funzionari del KGB arrestando ogni tanto qualche indesiderato.

Eppure, i testi delle canzoni non attaccavano direttamente il potere, non volevano sparare sul quartier generale, cantavano semplicemente la speranza di un mondo diverso, più aperto, dove i giovani potessero comunicare, parlare. Tutto questo era incompatibile con la massiccia e granitica realtà sovietica.

Il Saigon ora vive nei ricordi di chi lo ha vissuto, sostituto da grandi vetrine con WC, bidet e rubinetteria di una famosa marca italiana.

Resta un ricordo anche di quel processo di emancipazione nel campo della musica che coinvolse tanti ragazzi di allora, offrendo un modo di pensare diverso.

Ai giorni nostri la scena artistica russa si presenta con un’altra faccia. Gruppi identitari e nazionalisti che tessono le lodi di Putin e inneggiano alla potenza militare del paese.

Ma non tutto è così fedele alla linea. E allora nulla è cambiato nella politica sfrontatamente neoliberista del presidente Putin rispetto al passato, perché chi non si adegua viene colpito ancora duramente con la mannaia della censura.

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